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La nonviolenza e' in cammino. 558
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 558
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Sun, 6 Apr 2003 13:44:28 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 558 del 6 aprile 2003 Sommario di questo numero: 1 Peppe Sini: due subalternita', anzi tre 2. Sylvie Germain: il viaggio e il fardello di Etty Hillesum 3. Antonio Moscato: una bibliografia ragionata sulla politica degli Stati Uniti e la guerra, sull'Iraq e Saddam Hussein, sull'11 settembre e sulla situazione attuale 4. Ida Dominijanni intervista Victoria de Grazia 5. Benito D'Ippolito: per Oscar Romero 6. Danilo Zolo: un crimine internazionale premeditato 7. Unione donne italiane: salviamo la vita di Amina Lawal 8. Letture: Naomi Klein, Recinti e finestre 9. Riletture: Fatema Mernissi, Islam e democrazia 10. La "Carta" del Movimento Nonviolento 11. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. PEPPE SINI: DUE SUBALTERNITA', ANZI TRE La prima: la discussione ignobile e insensata, necrofila e narcotica, se sia preferibile una guerra lunga o una guerra corta. Noi pensiamo che simili esercizi da lugubri esteti rivelino un'insufficienza morale, una effettuale complicita'. Alla guerra bisogna opporsi e basta. * La seconda: la discussione se nella guerra in corso bisogna aiutare l'attivita' bellica di qualcuno. Noi pensiamo che alla guerra bisogna opporsi e basta. Chi propone di arruolarci in un esercito non e' contro la guerra, ne e' complice. * La terza: nella riflessione e nell'agire dei movimenti che si dicono pacifisti vengono al pettine nodi decisivi, deflagrano antiche insostenibili ambiguita'. Per uscirne e' necessario prendere una decisione: la scelta della nonviolenza. Chi non fa la scelta della nonviolenza non solo non contribuisce a costruire la pace, ma neppure si oppone effettualmente alla guerra, bensi' ne e' complice. * La guerra e' commissione di omicidi; le armi servono a uccidere; scopo degli eserciti e' ammazzare esseri umani. Solo la nonviolenza si oppone alla guerra, poiche' si oppone a tutti gli omicidi, e a tutte le armi e a tutti gli eserciti. Di tutte le dittature la guerra e' la piu' feroce, poiche' essa e' dittatura onnicida e seminagione di nuovo odio, nuove violenze, nuova barbarie. Non e' ammissibile avere atteggiamenti ambigui. Di tutti i terrorismi la guerra e' il piu' grande, poiche' essa e' strage che supera ogni altra strage e nuove stragi genera. Non e' lecito avere atteggiamenti ambigui. La guerra minaccia di distruzione l'umanita' intera: e' compito di tutti gli esseri umani opporsi alla guerra. E solo la scelta della nonviolenza si oppone alla guerra in modo nitido ed intransigente, nell'unico modo possibile e adeguato. E' possibile avere atteggiamenti ambigui quando e' in gioco l'esistenza dell'umanita' intera? La scelta che oggi si impone e' tra la guerra e' l'umanita'. Tra essere complici della guerra ed opporsi ad essa con la nonviolenza. * Nell'editoriale di ieri ci pare che Lidia Menapace abbia detto quello che era ed e' necessario, urgente e decisivo dire. Occorre la scelta della nonviolenza se il movimento per la pace vuole essere persuaso e persuasivo, concreto ed efficace. Chi non passa per questo ponte, resta non al di qua dell'abisso, ma nell'abisso precipita. La nonviolenza e' la necessaria resistenza all'inumano: la nonviolenza e' la Resistenza oggi necessaria. Solo la nonviolenza puo' fermare la guerra. Solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita'. 2. MAESTRE. SYLVIE GERMAIN: IL VIAGGIO E IL FARDELLO DI ETTY HILLESUM [Da Sylvie Germain, Etty Hillesum. Una coscienza ispirata, Edizioni Lavoro - Editrice Esperienze, Roma - Fossano 2000, p. 238. Sylvie Germain e' docente di filosofia, scrittrice e saggista assai fine. Etty Hillesum e' nata nel 1914 e deceduta ad Auschwitz nel 1943, il suo diario e le sue lettere costituiscono documenti di altissimo valore e in questi ultimi anni sempre di piu' la sua figura e la sua meditazione diventano oggetto di studio e punto di riferimento per la riflessione. Opere di Etty Hillesum: Diario 1941-1943, Adelphi, Milano 1985, 1996; Lettere 1942-1943, Adelphi, Milano 1990, 2001. Opere su Etty Hillesum: AA. VV., La resistenza esistenziale di Etty Hillesum, fascicolo di "Alfazeta", n. 60, novembre-dicembre 1996, Parma. Piu' recentemente: Nadia Neri, Un'estrema compassione, Bruno Mondadori Editore, Milano 1999; Pascal Dreyer, Etty Hillesum. Una testimone del Novecento, Edizioni Lavoro, Roma 2000; Sylvie Germain, Etty Hillesum. Una coscienza ispirata, Edizioni Lavoro, Roma 2000] Una donna pienamente, magnificamente umana - un'umile "samaritana" messasi in viaggio nella vita, che lungo la strada ha incontrato feriti, disperati, moribondi, in massa, e per ognuno ha provato compassione. Cosi' profondamente commossa da scorgere in ognuno Dio in agonia. Se lo e' caricato sulle spalle, gli ha dato rifugio nella sua anima "che ha mille anni", e si e' presa cura di lui. 3. MATERIALI. ANTONIO MOSCATO: UNA BIBLIOGRAFIA RAGIONATA SULLA POLITICA DEGLI STATI UNITI E LA GUERRA, SULL'IRAQ E SADDAM HUSSEIN, SULL'11 SETTEMBRE E SULLA SITUAZIONE ATTUALE [Dal notiziario telematico "Bandiera Rossa news" (per contatti: ba.ro.news at inwind.it) riprendiamo questo articolo di Antonio Moscato, docente all'Universita' di Lecce, prestigioso studioso e militante del movimento operaio e dei movimenti di liberazione. Ci pare doveroso segnalare che alcuni dei giudizi espressi in questa rassegna sono a nostro avviso discutibili, e naturalmente non condividiamo affatto l'uso di certe espressioni offensive - e gratuite - che non ci siamo permessi di cassare ma dalle quali ovviamente ci dissociamo] 1. Sulla politica degli Stati Uniti e la guerra - Per una panoramica d'insieme della politica statunitense, e' ancor valido il libro (documentatissimo, di oltre 450 pagine) di Filippo Gaja, Il secolo corto. La filosofia del bombardamento. La storia da riscrivere, Maquis Editore, Milano 1994. Proprio perche' ha quasi dieci anni, anzi, puo' essere utile per sfatare la leggenda, diffusa tra gli oppositori moderati all'attuale guerra, che questa sarebbe dovuta solo al fanatismo fondamentalista di George W. Bush e segnerebbe una svolta nella storia degli Stati Uniti. - Il recente libro di Milan Rai, Iraq. Dieci ragioni contro la guerra, Einaudi, Torino 2003, smantella menzogne e contraddizioni nelle dichiarazioni dei governanti nordamericani. Oltre all'introduzione di Noam Chomsky, comincia con un capitolo interamente composto dalle dichiarazioni dei familiari delle vittime dell'11 settembre che si sono costituiti in associazione col nome di Peaceful Tomorrows. Particolarmente utili i capitoli sui legami tra i governanti statunitensi e i talebani, e sugli ostacoli frapposti (non da Saddam!) alle attivita' degli ispettori dell'Onu. - Un grande successo editoriale ha avuto un agile volumetto di Antonio Gambino (Perche' oggi non possiamo non dirci antiamericani, Colloquio con Marco Galeazzi, Editori Riuniti, Roma 2003), che risente pero' molto di un taglio giornalistico, e dedica attenzione solo all'ultima fase, con molte considerazione in genere giuste, ma un'insufficiente documentazione, soprattutto sul lungo periodo. - Molto piu' efficace e convincente il libro di Howard Zinn, Non in nostro nome. Gli Stati Uniti e la guerra, il Saggiatore, Milano 2003, che e' introdotto dalla sorella di una vittima dell'11 settembre. Il pregio del volume, pur composto di scritti pubblicati in varie occasioni, e' di dare un quadro storico della politica statunitense con molta attenzione agli ultimi cinquant'anni, ma partendo dalle stesse origini degli Stati Uniti. - Sulla storia remota degli Stati Uniti (e anzi delle colonie da cui hanno avuto origine) si sofferma maggiormente David E. Stannard, Olocausto americano. La conquista del Nuovo Mondo, Bollati Boringhieri, Torino 2001. Stannard, che e' cittadino statunitense e docente nell'Universita' delle Haway, affronta l'insieme dei genocidi compiuti nell'arco di cinquecento anni nelle Americhe e anche nelle isole in cui vive. Tuttavia mentre la storia dei massacri compiuti dai conquistadores spagnoli e portoghesi e' ben nota (anche se ridimensionata da chi la presenta come "leggenda nera"), quelli compiuti dagli anglosassoni lo sono assai meno, pur essendo ugualmente efferati. - Un ex agente della Cia che ha collaborato con il piu' famoso Philip Agee al progetto di smascherare le attivita' criminali e liberticide dell'agenzia, ha pubblicato un ampio ma a volte ingarbugliato repertorio delle azioni compiute per sovvertire governi, assassinare personalita' politiche, ecc. Si tratta di William Blum, Con la scusa della liberta'. Si puo' parlare di impero americano?, Marco Tropea, Milano 2002, che fornisce spesso documenti ineccepibili, ma non sempre aiuta a comprendere la complessita' delle vicende di cui parla, perche' sottovaluta in genere le motivazioni delle forze locali attribuendo sempre la responsabilita' principale di ogni golpe alle manovre della Cia. - Un bellissimo e illuminante volume di Tariq Ali (un intellettuale di origine pakistana, impegnato da oltre trenta anni come militante rivoluzionario in Gran Bretagna), dedicato a Lo scontro dei fondamentalismi (Rizzoli, Milano 2002), contiene anche un lungo capitolo con una "Breve storia dell'imperialismo statunitense", in cui utilizza testimonianze "dall'interno" come quella del generale dei marines Smedley Butler, che nel 1933 lascio' il servizio spiegando che la sua attivita' era paragonabile a quella di un gangster, capo di un racket che, a differenza di quello di Al Capone, non si estendeva su tre quartieri ma su tre continenti. Naturalmente il pregio principale del libro e' la ricostruzione dei molti fondamentalismi che si scontrano oggi nel mondo, con particolare attenzione a quelli, dimenticati in genere in Italia, del subcontinente indiano. - Deludente, anche se con qualche informazione utile, il libro di Bob Woodward (il giornalista che smaschero' il Watergate e fece saltare il presidente Nixon), La guerra di Bush, Sperling & Kupfer, Milano 2003. Woodward e' impegnato contro la guerra, ma il libro ne ricostruisce soprattutto cronachisticamente la preparazione all'interno dell'amministrazione statunitense, senza fornire elementi per la comprensione dei motivi piu' profondi. - Stimolante come sempre il recentissimo libro di Sergio Romano, Il rischio americano. L'America imperiale, l'Europa irrilevante, Longanesi, Milano 2003. La tesi di fondo e' appunto quella indicata nel sottotitolo, cioe' la scarsa rilevanza dell'Europa sulla scena mondiale (ma lo stesso, ha osservato lo storico e politologo statunitense Paul Kennedy, si puo' dire a proposito del Giappone). La conclusione (che auspica una maggiore unita' politica e militare dell'Europa come contraltare alla strapotenza statunitense) non e' ovviamente condivisibile, dal momento che i principali paesi europei non hanno le carte in regola per definire una politica qualitativamente diversa da quella dell'imperialismo Usa. Tuttavia il libro tratteggia senza reticenze la politica degli Stati Uniti, e in particolare la loro espansione nel continente fin dalla prima meta' del XIX secolo, cercandone le origini ideologiche nel fondamentalismo cristiano che li ha ispirati fin da prima della fondazione del nuovo Stato, cioe' nella pretesa di avere, sulle orme dei "Padri Pellegrini", Dio dalla loro parte. Nulla di nuovo, ma fa piacere leggere queste cose in un libro di uno storico e diplomatico indubbiamente conservatore, ma intelligente e rigoroso, tanto piu' in un periodo in cui destra e gran parte della sinistra fanno a gara a dire che e' "impossibile e inaccettabile essere antiamericani" e presentano in chiave apologetica la leggenda della "grande democrazia profondamente anticoloniale", ecc. - Di qualche interesse il libro di Ahmed Rashid, Talebani. Islam, petrolio, e il Grande Gioco in Asia centrale, Feltrinelli, Milano 2001, che ovviamente non tratta direttamente la politica statunitense nel suo complesso, ma fornisce dati utili sul corteggiamento dei talebani da parte di uomini politici nordamericani per conto di compagnie petrolifere e di altre imprese interessate alla costruzione di oleodotti in territorio afghano. - Con un taglio prevalentemente giornalistico (il libro si basa su alcune delle efficaci inchieste televisive fatte dall'autore in Indonesia, Iraq, Afghanistan e altri paesi) John Pilger (I nuovi padroni del mondo, Fandango, Roma 2002), presenta un quadro di insieme piuttosto efficace dell'arroganza e della malafede dei dirigenti degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e dell'Australia, con un gran numero di testimonianze rese all'autore - che e' un abile intervistatore a cui e' difficile sfuggire - da molti dei protagonisti. - Un libro stimolante (e provocatorio fin dal titolo), e' quello di Chalmers Johnson, Gli ultimi giorni dell'impero americano, Garzanti, Milano 2001. Chalmers Johnson e' uno specialista di Estremo Oriente, dove ha vissuto a lungo, fin dalla guerra di Corea, prima come ufficiale statunitense, poi come ricercatore e docente. La sua tesi, che si riallaccia a quella di Paul Kennedy, e' che l'eccessiva sovraesposizione dell'impero americano, nonostante la sua schiacciante superiorita' militare, lo ha profondamente indebolito dal punto di vista della solidita' economica e dell'accumularsi di fattori esplosivi in molti continenti (i possibili "ritorni di fiamma"). Johnson usa largamente la categoria di imperialismo, ma osserva maliziosamente che Lenin si e' sbagliato definendola "fase suprema del capitalismo": e' piuttosto una malattia. A questo proposito fa proprio l'esempio della zona del Golfo Persico, dove per controllare la sicurezza dell'afflusso di petrolio proveniente da quell'area (per un valore annuo di 11 miliardi di dollari), gli Stati Uniti spendono 50 (cinquanta!) miliardi ogni anno. Johnson fornisce preziose informazioni sull'Estremo Oriente, ma e' attento anche a quel che accade in altri continenti, e nel suo stesso paese, dove gran parte dei cittadini sono privi di assistenza medica e di istruzione pubblica gratuite, e le pensioni statali sono state sostituite da fondi pensione privati (che hanno subito pesanti decurtazioni per i crolli dei titoli in borsa). Tra l'altro il libro, dopo una breve presentazione della sua personale storia di "patriota americano" convinto ed entusiasta almeno fino alla meta' degli anni Sessanta, cioe' alla guerra del Vietnam, esordisce presentando come esempio tipico di arroganza che genera odio l'atteggiamento delle autorita' statunitensi per sottrarre a un giudizio in Italia i piloti che nel 1998 avevano provocato la strage della funivia di Cavalese. - Tutto concentrato sui conflitti interni all'amministrazione Usa nell'arco di due secoli, e meno attento ai loro effetti sul mondo e' invece il libro di Walter Russel Mead, Il serpente e la colomba. Storia della politica estera degli Stati Uniti d'America, Garzanti, Milano 2001. Ha comunque il pregio di spazzare via le sciocchezze di chi, per rivendicare ancora il proprio "americanismo", attribuisce al solo Bush l'attuale politica degli Stati Uniti. Infatti il libro identifica alcune costanti, nella lunga alternanza tra "il serpente e la colomba", cioe' tra le tendenze che Mead chiama con i nomi di jeffersoniana, jacksoniana, hamiltoniana, e wilsoniana. * 2. Sull'Iraq e Saddam Hussein - Ovviamente accenno anche a un mio recentissimo libro (Antonio Moscato, Tempeste sull'Iraq, Massari, Bolsena 2003), che presenta la storia dell'Iraq nel lungo periodo, ricercando nel processo di formazione e nella dominazione coloniale britannica le radici della sua debolezza attuale, che l'ha fatto scegliere come bersaglio rispetto ad altri Stati magari piu' invisi ai governanti statunitensi. Rinvio ad esso soprattutto perche' segnala molti testi oggi introvabili e che quindi non riporto in questa bibliografia ragionata. - Sulla cruciale questione del possesso delle armi di distruzione di massa da parte di Saddam Hussein sono efficacissimi due libri usciti prima dell'attuale raffica di pubblicazioni spesso improvvisate (che pure segnala l'esistenza di un "mercato" e quindi di un interesse superiore a quello riscontrabile nel 1991): il primo e' quello di padre Jean-Marie Benjamin, Obiettivo Iraq. Nel mirino di Washington, Editori Riuniti, Roma 2002, che utilizza le dichiarazioni di vari ispettori dell'Onu per smantellare la campagna di intossicazione mediatica che ha preparato la guerra; il secondo, per certi aspetti ancora piu' incisivo, e' quello di William Rivers Pitt, Guerra all'Iraq, Fazi, Roma 2002, che di fatto e' una lunga intervista a Scott Ritter, vicecapo degli ispettori dell'Onu fino al 1998 (quando furono ritirati per consentire la ripresa dei bombardamenti, e non "cacciati da Saddam" come ripetono tanti commentatori in malafede). - Una sintetica visione d'insieme si puo' trovare nell'agile libro di Giancarlo Lannutti, Breve storia dell'Iraq, Datanews, Roma 2002. Lannutti ha potuto far uscire tempestivamente il suo libro sia perche' come giornalista aveva seguito da decenni il Vicino e Medio Oriente, e soprattutto perche' aveva gia' pubblicato (presso lo stesso editore) una Guida storico-politica di Iraq e Iran, mentre aveva trattato molte delle vicende irachene in una utilissima Enciclopedia del Medio Oriente che aveva curato per l'editore Teti nel 1979 (integrata poi da un volume di aggiornamento nel 1991). Molte delle voci di questa enciclopedia erano state curate dallo stesso Lannutti, ma anche da Guido Valabrega, Pier Giovanni Donini, Igor Man e altri buoni conoscitori dell'area. - Decisamente utile la nuova edizione aggiornata di un libro gia' apparso nel 1991, G. Caretto, G. Corm, G. Crespi, J.-D. Forest, C. Forest, J. Ries, Iraq. Dalle antiche civilta' alla barbarie del mercato petrolifero, Jaca Book, Milano 2003. L'aggiornamento e' dovuto al solo Corm, che e' un ottimo specialista franco-libanese di Medio Oriente. Il libro parte dalla storia piu' lontana, che tuttavia in gran parte non ha molta incidenza sulle vicende attuali. Ma il capitolo di Caretto sul declino dell'impero ottomano tra il 1800 e il 1918, e quelli successivi di Corm (dal 1918 al 1991, e dalla Guerra del Golfo a quella attuale) sono del tutto condivisibili anche come metodologia. - Finora ancora inedito, un esauriente e rigoroso saggio di Ilario Salucci, Operai e contadini in Iraq: il percorso del movimento comunista (1924-2002), tocca aspetti in genere trascurati dalla maggior parte degli autori. Per ora e' disponibile comunque in internet sul sito della rivista telematica "Reds" (http://www.ecn.org/reds), ma sembra imminente la pubblicazione in volume. - Segnaliamo anche, per evitarli, due libri pessimi, ricchi di pettegolezzi non verificabili sulla "psicologia del dittatore" con la stessa logica con cui tanti complici della "resistibile ascesa" di Adolf Hitler si sono dilettati poi in ricostruzioni della sua psiche a partire da presunte turbe infantili: Carlo Panella, Saddam. Ascesa, intrighi e crimini del peggior amico dell'Occidente, Piemme, Casale Monferrato 2003, e Magdi Allam, Saddam. Storia segreta di un dittatore, Mondadori, Milano 2003, forse ancora piu' scandaloso nel raccattare le briciole della propaganda della Cia, che ha fatto ridicolmente "psicanalizzare a distanza" il mostro di turno. Nulla sugli idilliaci rapporti dei vari Rumsfeld con Saddam. Se Panella e' un dirigente Mediaset, Magdi Allam scrive abitualmente su "la Repubblica". Che bella informazione ci propinano! - Appena decente, per la relativa presa di distanza dalle peggiori speculazioni sulla psicologia del dittatore, il libro di Marcella Emiliani, Leggenda nera. Biografia non autorizzata di Saddam Hussein, Guerini e associati, Milano 2003, molto al di sotto del livello abituale dell'autrice, (tra l'altro non c'e' una nota per ricostruire le fonti, ma solo una sommaria e insufficiente bibliografia). Analoghe caratteristiche, con buone intenzioni, ma una maggiore superficialita', ha il libro di due giornalisti di sinistra, Paolo Barbieri, Maurizio Musolino, Saddam Hussein. La vita del rais di Baghdad, Datanews, Roma 2003. Il punto debole di questi due libri e' gia' indicato nei titoli: hanno concentrato l'attenzione su Saddam piu' che sull'Iraq. * 3. Polemiche sull'11 settembre - Di libri sull'attacco alle Due Torri e al Pentagono ne sono usciti fin troppi, alcuni pessimi, molti mediocri, e pochi buoni. Rinviamo per i principali di essi all'ampia rassegna apparsa sul n. 2 della rivista "Erre" (marzo/aprile 2003), limitandoci qui a un'elencazione con un sommario giudizio di merito. Uno dei migliori, pur nei limiti di un appassionato pamphlet, e' quello che raccoglie diversi scritti dello scrittore Gore Vidal, Le menzogne dell'impero e altre tristi verita'. Perche' la junta petroliera Cheney-Bush vuole la guerra con l'Iraq, Fazi, Roma 2002. - Sulla stessa linea interpretativa ma con una documentazione ben piu' ampia e rigorosa e' il libro di uno studioso britannico di origine mediorientale, Nafeez Mosaddeq Ahmed, Guerra alla liberta'. Il ruolo dell'amministrazione Bush nell'attacco dell'11 settembre, Fazi, Roma 2002, che esamina puntualmente le versioni ufficiali fornite sull'attacco alle Due Torri e al Pentagono, utilizzando un gran numero di testimonianze che le smentiscono. - Sul piu' noto libro di Thierry Meyssan, L'incredibile menzogna. Nessun aereo e' caduto sul pentagono (Fandango, Roma 2002) si e' scatenata una vera canea di denigratori, che taceva sulla documentazione ineccepibile e si concentrava su una singola tesi non dimostrabile. Per confutare Meyssan e' uscito un pessimo libro (Guillaume Dasquie', Jean Guisnel, Il complotto. Verita' e menzogne sugli attentati dell'11 settembre, Guerini e Associati, Milano 2003), con una vergognosa prefazione commissionata a Lucia Annunziata, che evidentemente senza aver letto il libro gli attribuisce affermazioni antisemite con cui invece Meyssan polemizza esplicitamente. Ai suoi numerosi denigratori Thierry Meyssan ha risposto in un nuovo libro (Il Pentagate. Altri documenti sull'11 settembre, Fandango, Roma 2003), che pubblica un'inquietante documentazione fotografica a sostegno della sua tesi. - E' poi uscita recentemente la terza edizione aggiornata di un libro del giudice e senatore Carlo Palermo apparso per la prima volta nel 1996, (Il quarto livello. 11 settembre 2001 ultimo atto? Dalla rete nera del crimine alla guerra santa di Bin Laden, Editori Riuniti, Roma 2002). L'autore ha il merito di segnalare molti dati importanti delle connessioni tra narcotraffico e potere politico ed economico, presentando - un po' come il gia' ricordato William Blum - una lunga lista di crimini attribuibili ai servizi segreti statunitensi (e non solo). Tuttavia una comprensibile "deformazione professionale" lo porta a inseguire troppe piste, in particolare quella della massoneria e delle sette islamiche, viste come associate tra loro. Ad esse iscrive Gheddafi, Komeini, Bin Laden e perfino Hitler, raccogliendo un pettegolezzo su una presunta conversione all'Islam che sarebbe stata promessa al Gran Mufti' di Gerusalemme! Con la classica tecnica dell'amalgama tra fattori diversissimi e non comparabili, che ha portato a tanti "teoremi" da parte di magistrati che indagavano su fenomeni che conoscevano solo superficialmente (si pensi al processo "7 aprile"!), Carlo Palermo ad esempio vede incredibilmente nell'ideologia nazista una manifestazione del sufismo, che sarebbe arrivato ad Hitler attraverso l'Ordine dei cavalieri teutonici, eredi dei templari! Cosi' i molti dati forniti sono inutilizzabili perche' immessi in un contesto di interpretazioni arbitrarie ispirate a una logica piu' poliziesca che giudiziaria. - Ancor peggiore, ma per scelta deliberata e non per incapacita' di padroneggiare la materia, e' il libro di Simon Reeve. I nuovi sciacalli. Osama Bin Laden e le strategie del terrorismo, Tascabili Bompiani, Milano 2003. Pubblicato inizialmente nel 1999 e poi aggiornato e presentato come "libro-inchiesta", ci racconta con uno stile da spy story tutti i movimenti di coloro che vengono additati da Bush come membri di una presunta "internazionale terroristica" (dando ad esempio per scontato, contro ogni verosimiglianza, che Bin Laden e Saddam Hussein collaborino stabilmente) ma ignora tutto dei legami economici e politici di Bin Laden con gli Stati Uniti. Un libro vergognoso, che scredita la stessa casa editrice (che lo ha anche rilanciato in edizione economica). - Piu' corretto, ma scritto prima che uscissero molte delle inchieste piu' sconcertanti sui retroscena dell'11 settembre, e quindi meno utile nella prima parte che ricostruisce gli attacchi, il libro di Ricardo E. Rodriguez, La sfida di Bin Laden, Massari, Bolsena 2003, ha il merito di tracciare sobriamente la biografia di Bin Laden, compresi i molti rapporti della sua famiglia con quella di Bush. - Va segnalato inoltre un libro di Giulietto Chiesa, giornalista appassionato e documentatissimo, scritto in una fase in cui l'attacco all'Iraq non era ancora all'ordine del giorno. Il libro (La guerra infinita, Feltrinelli, Milano 2002, poi piu' volte ristampato) affronta tra l'altro il problema della fragilita' degli indizi che portavano a Bin Laden, e che comunque casomai avrebbero dovuto spingere a indagare nei paesi (Arabia Saudita, Emirati ed Egitto) da cui provenivano i presunti dirottatori (o almeno i loro passaporti), invece di bombardare ferocemente l'infelice Afghanistan, la cui vicenda Giulietto Chiesa conosce bene direttamente e su cui ha scritto vari libri. "La verita', se mai verra', non la si trovera' prima dei prossimi cento anni", scrive. Probabilmente mai, credo, ma possiamo ricostruire le menzogne usate per nascondere i veri responsabili, e Chiesa lo fa ottimamente, utilizzando soprattutto materiali statunitensi. Meno convincenti la sua interpretazione della "nascita dell'Impero", soprattutto perche' concentrata sul breve periodo, successivo al disfacimento dell'Urss, e la sua tesi dell'avvento di una super-societa' globale. In ogni caso Chiesa coglie molto bene che la molla fondamentale che spinge a questa "guerra infinita" e' la prospettiva di prepararsi a fronteggiare in un domani non lontano la Russia e soprattutto la Cina, anche se e' un po' ottimista sulla "irriducibile diversita'" di quest'ultima, dovuta probabilmente a una sottovalutazione della portata delle trasformazioni gia' avviate e del significato dell'entrata nel Wto. Ma, anche se e' piu' una concorrente economica che un'antagonista erede delle idee del cosiddetto "Impero del Male", non c'e' dubbio che la Cina sia una delle preoccupazioni maggiori del gruppo dirigente statunitense, e che la guerra in Afghanistan abbia avuto tra i suoi obiettivi non secondari quella di installare basi militari in paesi vicini ai suoi confini occidentali. * 4. Qualche aggiornamento sui libri piu' recenti - Su quest'ultimo aspetto affrontato da Rodriguez e' uscito ora un libro del giornalista francese Eric Laurent, La guerra di Bush, Fandango, Roma 2003. Eric Laurent nel 1991 aveva pubblicato insieme a Pierre Salinger (gia' consigliere di Kennedy) un'impressionante documentazione sulle 207 imprese occidentali (86 tedesche, 18 statunitensi, altrettante britanniche, 16 francesi e 12 italiane), che fino a pochi giorni della guerra avevano continuato a rifornire Saddam di armi di ogni genere, comprese quelle chimiche e batteriologiche. Oggi Eric Laurent ricostruisce in primo luogo, e perfino con un eccesso di particolari, i retroscena dei vari cambiamenti della politica statunitense e dei rapporti tra i diversi esponenti del governo, tra essi e i principi sauditi, ecc. Laurent descrive l'impressionante "conflitto di interessi" rappresentato dall'intreccio tra le industrie belliche (ad esempio la Carlyle tra i cui dirigenti c'e' George Bush senior, e tra i principali azionisti la famiglia Bin Laden, con cui non sarebbe affatto stato reciso il rapporto neppure dopo l'11 settembre) e l'amministrazione statunitense, a cui "patriotticamente" forniscono a caro prezzo armi terribili. Ma nel complesso il libro, pur sostenendo tesi condivisibili (ad esempio ridimensiona l'obiettivo della conquista del petrolio iracheno escludendo che sia la causa prevalente o esclusiva di questa guerra), e' di gradevole lettura ma poco utilizzabile perche' non indica le fonti, se non in una sommaria bibliografia al termine di ciascun capitolo. - Documentatissimo invece e' il libro di Sergio Finardi e Carlo Tombola, Le strade delle armi, Jaca Book, Milano 2002, anche se ha poche notizie riguardanti direttamente l'Iraq perche' per ovvie ragioni i fornitori dopo il 1991 cercano di occultare i loro traffici. Ma pur essendo molto "tecnico", questo denso saggio fornisce preziose indicazioni sulla "guerra come affare" e sulla militarizzazione del sistema dei trasporti. Varra' la pena di riparlarne piu' ampiamente. - Un nuovo libro dello studioso britannico Nafeez Mosaddeq Ahmed, Dominio. La guerra americana all'Iraq e il genocidio umanitario, Fazi, Roma 2003, e' invece da segnalare per l'abbondanza di informazioni ben documentate e la capacita' di ricercare nella storia recente le cause profonde di questa guerra, non riducibili ai moventi immediatamente economici. Il giovane studioso (e' nato nel 1978) coglie bene la dialettica tra i diversi moventi che confluiscono nel progetto di ricostruzione di un meccanismo di controllo imperialista piu' sofisticato di quello coloniale, basato sul progetto di utilizzare l'alleanza angloamericana per costruire in Iraq un potere locale, una specie di "imperialismo vicario" capace di ristrutturare l'intero Medio Oriente. Come aveva gia' dimostrato nel libro sugli attentati dell'11 settembre, Nafeez Mosaddeq Ahmed e' abilissimo nello smontare le mistificazioni della propaganda di guerra contro Saddam, ed e' per questo forse il piu' utile dei libri apparsi in questo drammatico momento. - Un libro prezioso per il rigore metodologico e l'organicita' e' quello di Pierre-Jean Luizard, La questione irachena, Feltrinelli, Milano 2003. Luizard conosce a fondo l'Iraq, dove si e' recato per la prima volta nel 1973, quando era gia' cominciata l'ascesa di Saddam Hussein, di cui non nasconde nulla, ma sa bene che "non e' il demonio, e nemmeno un extraterrestre" bensi', come e' ovvio ma spesso dimenticato, "e' il prodotto di una societa' e di una storia". L'Iraq, aggiunge "per sua sventura ha l'insigne privilegio di concentrare in se' tutte le contraddizioni del mondo". Forse non tutte, possiamo aggiungere, ma molte. E Luizard, che in Iraq era arrivato con i pregiudizi e gli schemi ideologici di un giovane comunista francese, oggi dedica grande attenzione ai fattori religiosi che allora aveva sottovalutato se non liquidato, prevedendo che sarebbero presto "scomparsi tra i rifiuti della storia". La sua ricostruzione giustamente parte dal trapasso dal regime ottomano alla dominazione britannica, seguendo quel processo in tutti i suoi aspetti, dalle contraddizioni interimperialiste (compresi gli effetti della mitizzazione dei 14 punti di Wilson) agli scontri tra le diverse correnti dell'amministrazione coloniale britannica. Un capitolo molto interessante ricostruisce nell'arco di un secolo l'atteggiamento dell'Iran verso l'Iraq (che Teheran riconobbe solo nel 1929), mentre quello dedicato alla politica statunitense - pur senza rivelazioni particolari - analizza bene le oscillazioni periodiche e la prolungata indulgenza verso i crimini di Saddam, corteggiato per staccarlo dall'Urss prima, per scagliarlo contro l'Iran khomeinista poi, e sempre considerato un ottimo cliente e quindi elogiato come "elemento di stabilita'" fino a pochi giorni prima dell'invasione del Kuwait, a cui viene praticamente incoraggiato fino all'ultimo dalle dichiarazioni di "disinteresse per i conflitti interarabi" fatte dall'ambasciatrice statunitense April Glaspie. Insomma un libro che si stacca nettamente dalla maggior parte di quelli improvvisati su commissione negli ultimi mesi. - Tra i quali invece si colloca il contraddittorio Dies Iraq. Dal regime di emergenza al dopo Saddam Hussein, scritto da Calogero Carlo Lo Re per l'editore Castelvecchi, che ha scritto anche la prefazione. Il libro e' presentato come se fosse stato scritto in collaborazione con "Internazionale" solo perche' riporta nella parte conclusiva tre articoli diversissimi tra loro tratti da quella rivista. Il difetto principale e' la mancanza di indicazione delle fonti, tranne che nella prima parte ("Quale futuro per l'Iraq?") che e' ricca di citazioni, ma quasi tutte tratte da "Repubblica" o da altri quotidiani, o magari dalle esternazioni del generale Jean su "Limes", mentre la parte storica - piena di buone intenzioni - non ha una nota, e presenta evidenti dislivelli tra le singole parti (che una minuscola nota editoriale riconduce a diversi autori), con banalita' come la comparazione tra Saddam e Nabucodonosor. Insomma un libro che ci si puo' anche risparmiare, come abbiamo fatto per molti altri, dopo averli scorsi sui banchi delle librerie, una volta verificato che si copiavano tra loro. Un'autodifesa necessaria dall'alluvione editoriale. 4. RIFLESSIONE. IDA DOMINIJANNI INTERVISTA VICTORIA DE GRAZIA [Dal quotidiano "Il manifesto" del 5 aprile 2003. Ida Dominijanni e' una prestigiosa giornalista e saggista impegnata per la pace e i diritti. Su Victoria de Grazia lo stesso quotidiano allega la seguente breve scheda: "Victoria de Grazia insegna storia contemporanea dell'Europa occidentale alla Columbia University di New York e si occupa in particolare di cultura e consumi nelle societa' di massa, gender history, politiche della famiglia. Fra i suoi libri, The Culture of Consent: Mass Organization of Leisure in Fascist Italy (1981, trad. it. Consenso e cultura di massa nell'Italia fascista: l'organizzazione del dopolavoro, Laterza 1981, di prossima ripubblicazione per Einaudi); How Fascism Ruled Women: Italy, 1922-1945 (1992, trad. it. Le donne nel regime fascista, Marsilio 1993); e, con Sergio Luzzato, il recente Dizionario del fascismo, Einaudi, di cui sta per uscire il secondo volume. In cantiere, anticipato da alcuni saggi, un nuovo libro sull'americanizzazione della societa' dei consumi europea novecentesca"] C'e' nelle universita' americane, dai tempi d'oro del movimento degli anni Sessanta, la consuetudine di organizzare dei grandi incontri a piu' voci per ragionare informalmente sugli eventi del presente con la competenza e le capacita' analitiche che la polemica politica brucia. Si chiamano teach-in, tutti - docenti, studenti, testimoni, esperti - portano il loro contributo alla discussione. Alla Columbia University di New York, racconta Victoria De Grazia che la' insegna storia europea contemporanea, se ne e' tenuto uno sulla guerra in Iraq pochi giorni fa, nella Low Library, la sala piu' solenne del campus, la stessa che ospitava i sit-in contro la guerra in Vietnam. E invece che il solito centinaio di persone, ne sono arrivate tremila, tutte li' ad ascoltare con grande tensione trenta interventi per quasi sei ore. Tutto bene, finche' uno dei docenti - non di ruolo, mentre era previsto che parlassero solo quelli di ruolo, che se si espongono troppo sono piu' garantiti - ha concluso il suo intervento invocando "cento, un milione di Mogadiscio". A quel punto, racconta De Grazia, apriti cielo: articoli sui giornali su Columbia antipatriottica, pioggia di e-mail di protesta, donatori che rifiutano di dare ancora finanziamenti al campus se il docente incriminato non verra' licenziato. "E' un piccolo sintomo del clima con cui hanno a che fare la protesta no-war e il tentativo di squarciare il reportage ufficiale della guerra con degli argomenti pertinenti". - Ida Dominijanni: Vuoi dire che la retorica ufficiale oltre a essere di parte e' anche inconsistente? - Victoria de Grazia: Completamente. L'amministrazione Bush sta facendo la guerra in un'area geopolitica e culturale di cui ignora tutto. E ha mandato sul campo corrispondenti poco dotati di spirito indipendente, giornalisti "embedded" nelle truppe che a loro stesso dire non possono far altro che identificarsi con obiettivi, linguaggio, metodi dei militari. Il discorso ufficiale sulla guerra si nutre di queste fonti. - I. D.: Ma e' l'unico discorso visibile, dicono i no-war. Che lamentano di essere stati totalmente oscurati dai media americani. E tuttavia, mi pare, si sono impossessati della Rete, che non e' un medium da poco... - V. d. G.: Si', l'opposizione alla guerra, che e' assai vasta vasta checche' ne dicano i sondaggi, e' pressoche' assente nei reportage dei grandi network televisivi, ma e' ben organizzata in Rete. Ti segnalo uno spostamento significativo in atto nel campo no-war, che ruota su un'inversione di significato del patriottismo. Ci si sta rendendo conto che la destra ha potuto giocare troppo a lungo indisturbata sul monopolio del patriottismo, facendone un sinonimo dello scontro di civilta'. E invece nella storia americana c'e' sempre stato un patriottismo critico, l'idea che e' davvero fedele ai valori costituzionali solo chi sa anche criticare il potere impugnando la liberta' di parola. E' di questa tradizione che vuole impossessarsi adesso il movimento contro la guerra, per conquistare nuove fette di opinione pubblica. E a me pare uno spostamento significativo. Che illumina anche sulla diversita' fra i no-war di oggi e quelli del Vietnam: allora c'era la guerra fredda, l'opposizione si pensava contro il sistema, non si metteva a decostruirne le parole d'ordine. - I. D.: Capisco l'importanza di affermare che patriottica e' la fedelta' ai valori costituzionali, compresa la liberta' di parola, e non la guerra preventiva. Ma questo "patriottismo critico" non rischia di perimetrare dentro i confini nazionali l'opposizione americana alla guerra? Mentre mi pare che la cifra piu' importante del nuovo pacifismo sia la sua dimensione globale... - V. d. G.: Certo, non e' facile tenere assieme questa posizione no-war "patriottica" e quella internazionalista. Ma e' anche vero che negli Stati Uniti l'opposizione potenziale alla guerra e' fatta di molti strati. C'e' il movimento dei movimenti, che mantiene la sua cifra globale. Ma c'e' un'opinione pubblica piu' vasta, che comincia a realizzare che la politica di Bush e' lesiva degli interessi nazionali e internazionali, e che la pace, oltre che giusta, e' necessaria per andare avanti. E' su questo strato che puo' incidere il ribaltamento di segno del patriottismo. - I. D.: Quanto e' solido secondo te il consenso alla guerra? I sondaggi sparano cifre alte, sono cifre realistiche? - V. d. G.: Coi sondaggi c'e' sempre il solito problema: i risultati dipendono da come e a chi vengono poste le domande. Chiediamoci piuttosto: di che tipo di consenso avrebbe avuto bisogno Bush per fare questa guerra? Bush e' un presidente senza mandato presidenziale, visto il modo in cui e' stato eletto. E non ha neanche un vero mandato per la guerra: il 60% di consensi di cui dispone non si puo' considerare tale, perche' non e' chiaro "che cosa" appoggi questo 60%, che e' stato condizionato da aspettative non mantenute: la guerra doveva essere veloce e invece ristagna, senza morti o almeno senza morti in tv e invece i morti ci sono e si vedono, con gli iracheni che accoglievano festanti i liberatori e di iracheni festanti se ne trovano pochi. Dunque, quel mandato e' labile. E poi c'e' il problema del consenso interno all'amministrazione e ai grandi poteri, a sua volta tutt'altro che saldo: stanno venendo fuori controversie interne all'esercito, perplessita' fra i repubblicani, contrasti nel mondo dell'economia e della finanza: a essere convinto della guerra e' solo un settore molto ristretto del capitalismo americano, le ditte a cui Cheney distribuisce appalti per la ricostruzione irachena, ma intanto l'economia di New York e' molto depressa, la disoccupazione dilaga, il saliscendi del prezzo del petrolio fa felici gli speculatori ma non gli industriali, la disgregazione sociale e' sempre piu' spaventosa e non puo' reggere a lungo i tagli alle tasse e ai servizi e le spese militari che servono a Bush. Per non parlare dei malumori all'interno delle Chiese, quella cattolica in particolare, fin qui tenuti sotto silenzio. Le fessure del consenso dunque sono tante. E si riflettono anche nella confusione del discorso dei media. Se stai davanti alla tv per tre o quattr'ore ne senti di tutti i colori: il ritornello patriottico "we, we, we" e' sempre lo stesso, ma per il resto i messaggi sono molto contraddittori. E sugli errori dei militari, tipo l'uccisione "preventiva" di civili ai check-point, anche i grandi media cominciano a sollevare un putiferio. - I. D.: Guardando all'America di Bush - e del resto, anche all'Italia di Berlusconi - mi capita di chiedermi: com'e' potuto accadere, che cosa ha preparato questo esito, senza che ce ne accorgessimo, qui da noi e la' da voi? Adesso e' chiaro che tutto, dall'attacco all'Iraq alla National Security Strategy, era in incubazione da piu' di un decennio, nel gruppo dei neoconservatori che con Bush sono andati al potere. Che cosa non abbiamo visto, dell'America degli anni Novanta? - V. d. G.: Tutto comincia negli anni Ottanta, in realta'. Gia' prima del crollo dell'Unione Sovietica si era aperto un dibattito aspro sulla crisi dell'egemonia americana, attorno a un libro di Paul Kennedy, The Rise and Fall of Great Powers. Poi l'Ottantanove e i vantaggi economici di una globalizzazione rapidissima hanno inabissato la questione, che pure riaffiorava periodicamente: penso alle tesi di Joseph Nye su un rilancio di egemonia basata su un soft power, ad esempio. Ma il tema riemerge davvero con la faccia dura dello "scontro di civilta'" teorizzato da Samuel Huntington: e' li' che si delinea l'idea di un potere nuovo, forte, identitario, incardinato sulla contrapposizione Noi-Loro, Bene-Male. Ed e' li' che comincia, promosso non dal mondo islamico ma dalla cultura americana, il conflitto fra fondamentalismi. - I. D.: Una riedificazione molto rapida del Nemico: il primo articolo di Hungtington e' del '93, sono bastati quattro anni per sostituire lo scontro capitalismo-comunismo con quello Occidente-Islam...E' cosi' importante, la figura del Nemico, per l'identita' americana? - V. d. G.: E' costitutiva della destra americana. E la nuova destra era cresciuta molto, negli anni Ottanta di Reagan. - I. D.: Ma se gia' negli anni Novanta la posta in gioco era il ruolo di potenza degli Stati Uniti, e se gia' allora la destra neoconservatrice stava delineando l'esito che vediamo oggi, non dobbiamo retrospettivamente rivedere anche il giudizio su Clinton? Forse, almeno in Europa, abbiamo sottovalutato che cosa stesse arginando. - V. d. G.: Il problema e' che lo stesso Clinton non sembrava aver capito che la posta in gioco era questa. Ha puntato molto di piu' sulla politica interna, parando i colpi continui che gli arrivavano dalla destra sulla riforma sanitaria, sul sexgate e su tutto il resto. Ma non ha saputo impostare una politica estera all'altezza del momento: non si e' reso conto che la caduta dell'Urss e la globalizzazione rendevano urgente una grande ristrutturazione del potere internazionale, politico - a cominciare dalla costruzione e dal ruolo dell'Europa - ed economico - a cominciare dalla riforma delle istituzioni ormai decrepite ereditate da Bretton Woods. E' vero tuttavia che al momento dello scontro elettorale del 2000 fra Bush e Gore non era chiaro, neanche per noi americani, quali diverse concezioni della potenza statunitense si stessero confrontando. Anzi, pareva piu' pericoloso l'interventismo dei diritti umani di Clinton, che aveva legittimato la guerra in Kosovo, che l'isolazionismo di Bush, il quale oltretutto ostentava posizioni critiche verso alcune scelte militari del padre. Non era scontato ne' prevedibile, lo spostamento di Bush dall'isolazionismo alla protervia militare dell'unilateralismo. E piu' che alla sua persona va ricondotto a una tendenza di lungo periodo: a una destra che dopo la fine della guerra fredda cerca un nuovo modo di stare al mondo, e vuole a tutti i costi contrastare il multilateralismo che puo' emergere dalle ceneri del bipolarismo. Del resto, questa destra non ha mai riconosciuto il ruolo delle Nazioni Unite... - I. D.: Questa destra non tollera neanche l'Europa, o meglio il progetto di costruzione dell'Europa. L'amministrazione Bush l'ha contrastato fin da subito in tutti i modi che erano in suo potere. Adesso si parla molto di un antieuropeismo americano: quanto diffuso, secondo te? - V. d. G.: Sull'Europa non c'e' sempre la conoscenza che sarebbe necessaria nei confronti di un alleato. L'amministrazione si rende conto di avere di fronte una nuova regione forte, un'entita' economica e potenzialmente politica da contrastare. E certo c'e' un attacco, gia' cominciato con Reagan, al modello europeo di stato sociale, e al modello giuridico, insidiato dalla produzione normativa delle multinazionali americane. - I. D.: Parliamo della memoria e dell'uso della memoria. La retorica pro-war e' infarcita di paragoni con la seconda guerra mondiale: Saddam come Hitler, gli americani liberatori dell'Iraq oggi come dell'Europa nel '45 eccetera. Piu' d'uno storico americano ha protestato contro questi riferimenti disinvolti. - V. d. G.: Il paragone con la seconda guerra mondiale e' una grande trovata di quelli come Bush che non hanno fatto la guerra del Vietnam e dall'esperienza del Vietnam non hanno imparato nulla. Orecchiano la storia dei loro padri, che la generazione del Vietnam aveva contestato, e la riciclano a proprio uso e consumo. Non conoscono Spielberg ma solo John Wayne. Pensano all'accoglienza degli americani sugli Champs Elysees e non si ricordano Paisa'. Comunque il rimosso del Vietnam torna a galla: i problemi militari della guerra in Iraq presentano forti somiglianze con alcuni aspetti della guerra in Vietnam, a cominciare dal problema di come si distinguono i civili dai terroristi. - I. D.: Ancora sulla memoria, ma dell'11 settembre, "il" movente della guerra secondo la vulgata corrente. Dopo piu' di un anno e mezzo, ci sono tracce di una elaborazione del trauma dell'11 settembre diversa da quella ufficiale? - V. d. G.: E come potrebbero farsi strada? La ferita dell'11 settembre e' stata immediatamente espropriata e saturata dalla lotta al terrorismo e dalle dichiarazioni di guerra. E in un paese come gli Stati Uniti, che gia' di per se' si presta alle reazioni paranoiche: dal panico degli anni Cinquanta per l'arrivo dei marziani in poi, siamo sempre pieni di vigilantes contro gli spettri... E' un altro tratto del fondamentalismo, questo panico diffuso, che il governo ha buon gioco ad alimentare. Certo, c'e' anche un'altra faccia della societa' americana, la comunita' che reagisce alla catastrofe mettendosi al lavoro e facendo quello che c'e' da fare: la faccia di Giuliani a Ground Zero, il medico a bordo che contiene l'ansia... Ma la rappresentazione largamente prevalente dell'11 settembre e' stata quella di un'opera del demonio, della catastrofe imminente propria di una certa religiosita' cristiana superstiziosa e autopersecutoria. - I. D.: Come se anche attorno a Ground Zero si confrontassero due Americhe, con Bush che incarna il cuore nero dell'America profonda? - V. d. G.: Si', e puntando a quel cuore nero ci ha messo due giorni per ristrutturare in un certo modo la memoria dell'11 settembre. - I. D.: Un'ultima questione, tornando ancora agli ultimi decenni con lo sguardo di oggi. Ripensando ai lunghi dibattiti sulla societa' giusta, sui diritti e sul multiculturalismo che hanno occupato la scena intellettuale democratica americana fra anni Ottanta e anni Novanta, viene da dire che non hanno retto alla prova dei fatti, se nell'urto reale con la globalizzazione passa la soluzione dello scontro di civilta'. C'erano dei limiti, e secondo te quali, in quell'approccio? - V. d. G.: Io ne vedo tre. Primo, si e' preso molto sul serio il multiculturalismo pensando che il modello multiculturale del patto sociale americano potesse funzionare in tutto il mondo, mentre nella realta' la globalizzazione sollevava una morfologia del conflitto piu' complessa, mostrando quanto le politiche occidentali possano sconvolgere gli equilibri di altre societa'. Secondo, nel passaggio da una visione dell'egemonia americana fondata sugli standard di vita economici - gli interventi tipo Piano Marshall, per capirci - a una visione fondata sui diritti civili non si e' voluto vedere che i diritti civili sono fragili senza cittadinanza sociale. Terzo, l'intellettualita' radical, con la sua formazione prevalentemente umanistica, si e' concentrata molto sui temi della cultura, dell'immaginario e dell'immateriale e troppo poco sull'analisi dei poteri, degli armamenti e dell'economia dopo la guerra fredda. Che intanto si ristrutturavano, e adesso si vede. 5. MEMORIA. BENITO D'IPPOLITO: PER OSCAR ROMERO [Ricorrendo gioni fa l'anniversario dell'uccisione di monsignor Oscar Romero, l'arcivescovo di San Salvador assassinato il 24 marzo 1980 mentre celebrava la messa, il nostro collaboratore Benito D'Ippolito ha scritto e ci ha inviato in guisa di piccola commemorazione le righe seguenti. Oscar Arnulfo Romero, nato nel 1917, arcivescovo di San Salvador, voce del popolo salvadoregno vittima dell'oligarchia, della dittatura, degli squadroni della morte. Muore assassinato mentre celebra la messa il 24 marzo 1980. Opere di Oscar Romero: Diario, La Meridiana, Molfetta 1991; Dio ha la sua ora, Borla, Roma 1994 Opere su Oscar Romero: AA. VV., Il vescovo Romero, martire della sua fede, per il suo popolo, Emi-Asal, Bologna 1980; AA. VV., Romero... y lo mataron, Ave, Roma 1980; James R. Brockman, Oscar Romero: fedele alla parola, Cittadella, Assisi 1984; Placido Erdozain, Monsignor Romero, martire della Chiesa, Emi, Bologna 1981; Abramo Levi, Un vescovo fatto popolo, Morcelliana, Brescia 1981; Jose' Maria Lopez Vigil, Oscar Romero. Un mosaico di luci, Emi, Bologna 1997; Ettore Masina, Oscar Romero, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole 1993 (poi riedito, rivisto e ampliato, col titolo L'arcivescovo deve morire, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1995); Jon Sobrino, Monsenor Romero, Uca, San Salvador 1989] Prima di essere Romero Romero non era ancora Romero. Tutti dobbiamo divenire cio' che siamo e che non siamo finche' non ci troviamo a quell'antico bivio della scelta. Era Romero uomo di fede ma la sua fede non era ancora la fede di Romero, prima occorse che quella fede nella fede lo trovasse gliela recasse un popolo piagato. Cosi' dall'astratto al concreto dicono certi antichi dottori muovesi il mondo, il mondo vecchio e stanco cosi' si mosse anche Oscar Romero muovendo incontro a verita' e martirio. Dicono: cosa si puo' fare? Nulla. E dicono anche: cosa si puo' fare? Tutto. E non e' vero. Ma quel che e' da fare tu fallo, e cosi' sia. Sotto lo sguardo degli assassinati Oscar Romero incontro' se stesso sotto lo sguardo degli assassini incontro' se stesso Oscar Romero. Viene sempre quell'ora inesorabile in cui devi levare la tua voce. Tu non vorresti, vorresti restare nel silenzio che sa molte lusinghe molti segreti, e molti pregi reca. Ma viene sempre l'ora della voce. Venne quell'ora per Oscar Romero a rivelargli il volto e il nome suo venne quell'ora recata dal silenzio degli assassinati e recata dal silenzio degli assassini, e giungi al paragone. Prese ad un tempo la parola e la croce e messosi alla scuola degli scalzi ne fu piu' che avvocato, compagno. Sapeva anche lui dove quella portava strada, sapeva anche lui quale suono avrebbe spento un giorno la sua voce. Come chiodi che secco un martello nel legno batte e conficca, il colpo della pallottola irruppe nel suo corpo fatto legno, fatto vino, fatto croce fatto pane, fatto luce, per sempre raggiunse Romero Romero, ormai voce per sempre dell'intera umanita'. 6. RIFLESSIONE. DANILO ZOLO: UN CRIMINE INTERNAZIONALE PREMEDITATO [Dal quotidiano "Il manifesto" del 3 aprile 2003. Danilo Zolo, illustre giurista, e' nato a Fiume (Rijeka) nel 1936, docente di filosofia e sociologia del diritto all'Universita' di Firenze; tra le sue opere segnaliamo almeno: Stato socialista e liberta' borghesi, Laterza, Bari 1976; Il principato democratico, Feltrinelli, Milano 1992; (a cura di), La cittadinanza, Laterza, Roma-Bari 1994; Cosmopolis, Feltrinelli, Milano 1995; Chi dice umanita', Einaudi, Torino 2000] Bagdad e Bassora sono sotto le bombe da oltre dieci giorni. Bassora e' anche assediata. Centinaia di miglia di persone sono allo stremo, senza viveri, senz'acqua, senza elettricita', senza medicine. La Croce Rossa internazionale ha segnalato che la vita di almeno centomila bambini e' in grave pericolo. Si stanno diffondendo i primi casi di colera. Citta' strategiche come Najaf e Nasiriyah, sulla strada per Bagdad, sono state colpite anche con le devastanti cluster bombs e con l'uso di proiettili all'uranio impoverito. Si prevede che ordigni micidiali come gli air fuel explosives, gia' largamente sperimentati nel 1991, come la nuovissima superbomba Moab e come le prime armi nucleari tattiche prodotte dall'industria bellica americana verranno usate per la "soluzione finale". L'Iraq Body Count (www.iraqbodycount.org), una organizzazione indipendente che seleziona, controlla e aggiorna in tempo reale i dati relativi alle vittime civili della guerra, calcola che sinora il loro numero si aggira fra le 565 e le 724 unita'. I morti fra i combattenti iracheni sono migliaia. Soltanto nella battaglia attorno a Najaf sono stati sterminati oltre mille soldati del battaglione Medina della Guardia Repubblicana. Il loro attacco e' stato sprezzantemente giudicato "futile and fanatical" dai commentatori americani. Nel frattempo l'ora decisiva per la conquista di Bagdad si sta avvicinando. Altre migliaia - probabilmente decine di migliaia - di vittime civili e militari verranno immolate per la "liberazione" di quello che restera' del popolo iracheno, delle sue citta', dei suoi monumenti, della sua antica civilta' mesopotamica. L'American Enterprise Institute, che raccoglie l'avanguardia intellettuale dell'amministrazione Bush, sostiene che e' ormai necessario l'allargamento del conflitto all'Iran. Lo riferisce William Pfaff, uno dei piu' autorevoli commentatori dello "International Herald Tribune". Michael Ledeen, esponente di spicco dell'Enterprise Institute, ha dichiarato che la guerra contro l'Iraq e' una "guerra epocale", perche' e' stata studiata per "cambiare completamente il mondo" (a war to remake the world). Il primo ministro israeliano, Ariel Sharon, in visita al Congresso americano, aveva gia' sostenuto che era necessario allargare subito il conflitto anche alla Siria e alla Libia, per confiscarne gli armamenti nucleari. E il sottosegretario di Stato John Bolton gli aveva fatto eco annunciando che il primo colpo, dopo la liberazione dell'Iraq, sarebbe stato inferto alla Corea del Nord. Questo e' lo scenario apocalittico nel quale gli Stati Uniti e i loro alleati anglofoni e israeliani stanno inabissando l'umanita' intera, mentre il mondo assiste impotente nonostante la vittoria morale del pacifismo. Le Nazioni Unite sono in frantumi. Il diritto internazionale e' nelle mani di diplomatici e di giuristi complici o impotenti. Discutono se lo sterminio della popolazione irachena da parte degli aggressori possa essere considerato un crimine di guerra, visto che non e' facile provare che l'uccisione dei civili e' intenzionale. La nuova Corte penale internazionale (Icc), per bocca del suo vicepresidente Elizabeth Odio, si augura candidamente che sia il Consiglio di Sicurezza a denunciare al tribunale i responsabili statunitensi di crimini di guerra. Giuristi e giudici internazionali ricordano sempre piu' quegli intellettuali di cui Bertold Brecht diceva che dipingono nature morte sulle pareti di una nave che affonda. E gia' si profila anche in Iraq il cono d'ombra della vendetta terroristica. Il terrorismo suicida, con la sua sfida mortale, sembra ormai la sola replica possibile al terrorismo dei mezzi di distruzione di massa. Esprime l'odio per il mondo e per la vita da parte di coloro cui e' stato tolto tutto. Non solo il Medio oriente, ma il mondo intero rischia di diventare un'unica Palestina. Forse non a torto Jean Baudrillard ha sostenuto che il kamikaze palestinese, vittima di una umiliazione insostenibile, e' il prodotto specifico della globalizzazione egemonica. E forse e' anche il simbolo della fine della civilta' occidentale e dei suoi valori. 7. APPELLI: UNIONE DONNE ITALIANE: SALVIAMO LA VITA DI AMINA LAWAL [Ringraziamo Rosangela Pesenti (rosangela_pesenti at libero.it) per averci inviato questo comunicato dell'Unione Donne Italiane (Udi) del 28 marzo 2003 che chiama alla mobilitazione per la salvezza di Amina Lawal, la donna nigeriana condannata a morte per lapidazione per aver generato una creatura fuori dal matrimonio] Difendiamo il diritto di Amina alla vita e alla dignita' che spetta ad ogni essere umano. Ci uniamo a chi si sta battendo per la sua salvezza e per la cancellazione di un codice persecutorio nei confronti delle donne. Le donne sono discriminate due volte come cittadine e come genere e quindi subiscono doppia violenza: la mancanza dei diritti e la sopraffazione del corpo. L'essere madri in molti casi diventa non solo irrilevante ma un'aggravante. La pressione per la salvezza di Amina oggi, deve diventare il segno visibile di un nostro impegno perche' i diritti delle donne siano considerati diritti umani ovunque secondo la piattaforma di Pechino del 1995. 8. LETTURE. NAOMI KLEIN: RECINTI E FIRENZE Naomi Klein, Recinti e finestre, Baldini & Castoldi, Milano 2003, pp. 254, euro 15,80. Una raccolta di interventi scritti tra il 1999 e il 2002 dall'autrice di No logo (un libro giornalistico-saggistico che ha avuto una circolazione e un'influenza assai ampia), appassionata militante, testimone e studiosa del "movimento dei movimenti" che si batte contro guerra e ingiustizie globali. 9. RILETTURE. FATEMA MERNISSI: ISLAM E DEMOCRAZIA Fatema Mernissi, Islam e democrazia, Giunti, Firenze 2002, pp. 222, euro 12. Segnaliamo ancora una volta questo libro di grande utilita', ne raccomandiamo vivamente la lettura. L'autrice, Fatema (ma il nome puo' essere traslitterato anche in Fatima) Mernissi, e' nata a Fez, in Marocco, nel 1940, docente di sociologia, studiosa del Corano, narratrice; tra i suoi libri disponibili in italiano: Le donne del Profeta, Ecig, 1992; Le sultane dimenticate, Marietti, 1992; Chahrazad non e' marocchina, Sonda, 1993; La terrazza proibita, Giunti, 1996; L'harem e l'Occidente, Giunti, 2000; Islam e democrazia, Giunti, 2002. 10. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 11. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it; angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 558 del 6 aprile 2003
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