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La nonviolenza e' in cammino. 552
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 552
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Mon, 31 Mar 2003 23:36:29 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 552 del 31 marzo 2003 Sommario di questo numero: 1. Coordinamento "Fermiamo la guerra" di Pisa: una lettera al sindaco 2. Luisa Muraro: non sono bandiere, sono parole 3. Renato Solmi, la dittatura di Saddam Hussein e la guerra in corso 4. Francesco Comina, questa e' la guerra 5. Alexander Langer, a proposito di Giona 6. Vandana Shiva, acqua 7. Francesco Piccioni intervista Jean Ziegler 8. La "Carta" del Movimento Nonviolento 9. Per saperne di piu' 1. APPELLI. COORDINAMENTO "FERMIAMO LA GUERRA" DI PISA: UNA LETTERA AL SINDACO [Ringraziamo Giovanni Mandorino (per contatti: g.mandorino at tiscali.it) per averci inviato copia di questa lettera aperta del coordinamento "Fermiamo la guerra" agli amministratori di Pisa che e` stata consegnata il 27 marzo in occasione del Consiglio Comunale] Al sindaco, alla giunta a tutte le consigliere ed i consiglieri comunali di Pisa "Ci ostiniamo a volere la pace. Faremo tutto quello che e' in nostro potere per ottenerla". Questa guerra "e' ingiusta, sbagliata e illegittima", priva di consenso internazionale. Questa guerra "non ha nessuna giustificazione etica, nessuna legittimazione nel diritto internazionale. Non e' dettata da ragioni difensive ed e' un gravissimo errore politico. Puo' portare solo altre guerre, scatenare nuova violenza, seminare nuovo terrore. Divide i popoli, scredita le istituzioni, umilia il diritto, genera odio". "La Toscana e' contro questa guerra. La democrazia si fonda sul dialogo, sul confronto, sul rifiuto della violenza. La democrazia nasce per impedire la violenza, l'arbitrio, la ragione del piu' forte. Difendere la pace significa difendere la democrazia". Sono queste le parole del presidente della Regione Toscana, Martini, il 20 marzo all'indomani dell'inizio dell'invasione dell'Iraq. Otto giorni sono passati da allora, otto giorni segnati, in Iraq, da crescenti scontri militari e bombardamenti anche sulle citta', e in Italia come nella nostra citta', dalla prosecuzione e dalla crescita di quelle grandi mobilitazioni di popolo che gia' da molti mesi si opponevano, in concreto, spesso mettendo in gioco i propri corpi, al funzionamento della grande macchina logistica che preparava la guerra utilizzando come retrovia il territorio italiano e come maggiore deposito di esplosivi e munizioni quello pisano in particolare. A fronte di queste inequivocabili espressioni della volonta' di opposizione alla guerra da parte delle cittadine e dei cittadini, ci duole constatare come da parte degli enti locali (del Consiglio Comunale e del Sindaco di Pisa in particolare) si sia evidenziato uno scarto sempre piu' evidente e sempre meno spiegabile tra dichiarazioni di principio ed esercizio delle proprie prerogative atto a dare un seguito alle dichiarazioni stesse. Non si puo' aspettare ancora, il Sindaco, la Giunta e tutti i Consiglieri possono e devono dimostrare che le loro dichiarazioni non sono meri esercizi retorici, anche in vista della vicina campagna elettorale, ponendo mano ad una serie di misure di tutela degli abitanti e del territorio di Pisa e di attuazione del nostro dettato costituzionale che ripudia la guerra. Il Sindaco ed il Consiglio Comunale devono pretendere ed attuare la massima trasparenza sull'utilizzo che viene fatto del territorio comunale. Il Sindaco puo', con sua ordinanza a tutela della sicurezza ed incolumita' pubblica, porre fine all'uso di tutte le infrastrutture civili (aeroporto, ferrovie, vie d'acqua, strade) presenti nel territorio comunale da parte di mezzi e truppe di paesi combattenti e opporsi ad ogni estensione dell'uso a fini militari del territorio, con particolare riferimento all'allargamento del Canale dei Navicelli e della base statunitense di Camp Darby. Una importante istituzione cittadina, l'Universita' degli Studi, ha preso nei giorni scorsi una decisione in questo senso, negando il trasferimento di terreni di sua proprieta' a quella base militare . Gia' il 20 marzo, il sindaco del Comune di Falconara ha decretato il divieto di scalo nell'aeroporto cittadino per tutti i velivoli impegnati in operazioni militari "per prevenire ed eliminare i gravi pericoli che possono minacciare l'incolumita' dei cittadini durante le fasi di belligeranza". Il Sindaco ed il Consiglio possono immediatamente decretare e deliberare questa ed altre misure che impediscano la prosecuzione dell'uso del nostro territorio come base di partenza di una guerra illegale e criminale, stragista e terrorista, delittuosa ed anticostituzionale ed in questo modo contribuire alla sua fine. Ogni ritardo nel prendere queste misure costituisce oggettivamente, al di la' delle piu' belle parole di pace che possano essere pronunciate, al di la' di questo o quel vessillo che possa essere esposto alla finestra, una complicita' con il crimine della guerra in atto, una violazione palese del dettato costituzionale e delle leggi della coscienza. Ogni ritardo comporta l'assunzione di responsabilita' terribili da parte di tutti coloro che, potendo, non hanno agito. 2. RIFLESSIONE. LUISA MURARO: NON SONO BANDIERE, SONO PAROLE [Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo questo articolo di Luisa Muraro apparso sul quotidiano "L'Unita'" del 22 marzo 2003. Luisa Muraro insegna all'Universita' di Verona, fa parte della comunita' filosofica femminile di "Diotima". Dal sito delle sue "Lezioni sul femminismo" riportiamo una sua scheda biobibliografica: "Luisa Muraro, sesta di undici figli, sei sorelle e cinque fratelli, e' nata nel 1940 a Montecchio Maggiore (Vicenza), in una regione allora povera. Si e' laureata in filosofia all'Universita' Cattolica di Milano e la', su invito di Gustavo Bontadini, ha iniziato una carriera accademica presto interrotta dal Sessantotto. Passata ad insegnare nella scuola dell'obbligo, dal 1976 lavora nel dipartimento di filosofia dell'Universita' di Verona. Ha partecipato al progetto conosciuto come Erba Voglio, di Elvio Fachinelli. Poco dopo coinvolta nel movimento femminista dal gruppo "Demau" di Lia Cigarini e Daniela Pellegrini e' rimasta fedele al femminismo delle origini, che poi sara' chiamato femminismo della differenza, al quale si ispira buona parte della sua produzione successiva: La Signora del gioco (Feltrinelli, Milano 1976), Maglia o uncinetto (1981, ristampato nel 1998 dalla Manifestolibri), Guglielma e Maifreda (La Tartaruga, Milano 1985), L'ordine simbolico della madre (Editori Riuniti, Roma 1991), Lingua materna scienza divina (D'Auria, Napoli 1995), La folla nel cuore (Pratiche, Milano 2000). Con altre, ha dato vita alla Libreria delle Donne di Milano (1975), che pubblica la rivista trimestrale "Via Dogana" e il foglio "Sottosopra", ed alla comunita' filosofica Diotima (1984), di cui sono finora usciti sei volumi collettanei (da Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987, a Il profumo della maestra, Liguori, Napoli 1999). E' diventata madre nel 1966 e nonna nel 1997"] Non sono bandiere, sebbene abbiano questo nome, le bandiere della pace che hanno cambiato l'aspetto delle citta' e anche, in fondo, il nostro modo di abitarle. Sono parole di un linguaggio finalmente trovato per dire un sentimento di vicinanza e comunicarlo, vicinanza di casa e di umanita' che oltrepassa ogni tipo di barriere pur restando presso di se', senza invadere ne' aggredire l'altro. In extremis, non so come, si e' trovato un linguaggio per dire qualcosa che sembrava perduto, il valore della convivenza che si apre allo scambio con gli altri. Si e' trovato, imprevedibilmente, senza l'aiuto di intellettuali, di politici, di mass-media, di partiti. Si e' trovato in occasione di una guerra che pretendeva essere la risposta dell'Occidente al trauma dell'11 settembre. E che, invece, lo sappiamo, e' una reazione tremenda e cieca di uomini in deficit di quasi tutto quello che occorre in politica, a cominciare dall'autorita' morale. Per cui, fra gli altri disastri, c'e' anche il fatto che nessuno e' stato in posizione di aiutare il popolo degli Stati Uniti ad elaborare il senso di una fragilita' scoperta nella maniera piu' traumatica, aiutarlo a non viverla come un'umiliazione e a rimettersi in cammino sulla strada della civilta'. Nessuno? Sbaglio, ora ci sono queste bandiere iridate che hanno cominciato a fiorire sui muri, pian piano, prima rade, poi tante, in certe strade tantissime, in altre ancora scarse e tanto piu' visibili, tutte esposte senza arroganza, spesso in baruffa con il vento che le strapazza. E queste bandiere mandano un messaggio agli Usa, sia pure da un paese periferico come il nostro. Dicono che le case sono il riparo di corpi vivi e delle loro cose, ma un riparo fragile ed esposto alla violenza, rispetto alla quale esse offrono - ecco l'invenzione, ecco la novita', ecco la strada della civilta' - il riparo simbolico di significare una volonta' di pace. Sta capitando qualcosa di grande. Durera'? si sono chiesti alcuni commentatori. Non lo sappiamo. Ma io penso che non sara' piu' come prima, almeno per me e tante, tanti altri come me. Prima il campo era occupato da un dilemma, tra le posizioni dei pacifisti e dei realisti, questi ultimi a ripetere: in politica non si puo' stare senza l'argomento della forza e, dunque, senza l'eventualita' della guerra, e gli altri a replicare: la guerra e' sempre sbagliata, la guerra si mangia tutte le ragioni, anche le migliori. Come se non ci fosse altro da dire e cosi' e' stato per molte e molti di noi, che non sapevamo cosa dire. Adesso invece lo sappiamo: per noi non c'e' la guerra/la pace, ma c'e' questo momento storico ingarbugliato di problemi e di minacce, nel quale possiamo tentare di fare la pace, non in generale, ma la pace possibile qui e ora. Come? Non so tutta la risposta, ma l'inizio si', lo abbiamo trovato, e' il passaggio fuori dall'isolamento e dal mutismo di una convivenza sempre piu' alienata, per significare, insieme, la nostra reciproca vicinanza e la nostra comune vicinanza alle donne e agli uomini colpiti o minacciati dalla violenza distruttiva. I commentatori vedono la novita' di questo movimento, ma quasi non vedono che e' politica, in un senso sorgivo: e' politica prima e riguarda la tessitura del vivere associato. Quelle bandiere sono parole e le parole sono mediazione. L'inizio della risposta e', dunque, il lavoro della mediazione. Lavoro che non si limita e neanche essenzialmente consiste nelle speciali missioni diplomatiche, perche' la mediazione, come la lingua che parliamo, e' un continuum e, senza soluzione di continuita', scorre dalla parola scambiata con la vicina di casa alla possibilita' di un accordo risolutivo. Fare pace dove c'e' guerra s'intitola una recentissima pubblicazione della Libreria delle donne di Milano. E dice, parlando del 15 febbraio: questo "basta per sempre con la guerra" espresso da milioni di donne e uomini, non si da' come progetto da collocare in un orizzonte futuro, ne' resta sospeso in un tempo ideale, ma e' gia' presente nelle pratiche quotidiane, nelle forme concrete di una politica che e' orientata a fare la pace qui e ora. Sono d'accordo, solo una cosa vorrei aggiungere. Nel cambiamento che Fare pace descrive in termini di contestualita' dell'agire pacifico, quello che traspare come fattore di cambiamento e' una presenza libera di donne. Dovrei portare degli argomenti. Ci sono i numeri: nella grande maggioranza di persone che sono contrarie a questa guerra, la stragrande maggioranza sono donne. C'e', ancora, che i segni della pace, interdetti negli edifici pubblici dello Stato, si moltiplicano sui davanzali delle abitazioni, luoghi governati in passato e ancor oggi, di preferenza, dalle donne. E c'e' lo stile delle manifestazioni di piazza, che sta cambiando. Si attenua il bisogno reattivo di contrapporsi, per fare posto al senso di esserci con altri, a condividere progetti e sentimenti. Il primo a notare questo fatto collegandolo alla presenza di donne, e' stato il direttore di questo giornale. Commentando la grandissima manifestazione della Cgil, a Roma, ricordo che scriveva: e' una folla enorme, cosa che, di suo, farebbe paura, ma non fa paura, grazie alla grande presenza di donne. Accade forse perche' nella piazza una donna porta qualcosa che resta associato alla vita domestica, non lo so, ma non lo considero deteriore, anzi, mi pare un modo per riscattare la reclusione domestica di tante donne nel passato. Come si ricordera', l'Otto marzo di quest'anno e' stato dedicato alla lotta per la pace e alcune femministe hanno espresso la preoccupazione che ne uscisse rinforzato lo stereotipo della "donna uguale pace". A me sembra che stia capitando giusto il contrario, che l'associazione forzata tra le donne e la pace non scatti piu', sostituita da parole e gesti che parlano di un legame tra liberta' e vita, troppo spesso ignorato e spezzato nella storia degli uomini. Legame affidato al lavoro della mediazione come anche al gesto di rottura, mai l'uno senza l'altro. Penso a Moretti che salta sul palco di Piazza Navona. Penso, in questo momento, al papa che ha rotto con una tradizione diplomatica di equidistanza, per fare tutto il suo possibile, senza calcoli di potere. La differenza del nostro essere donne/uomini diventa cosi' una risorsa di creativita' politica; gli uomini sono liberati dal significato minaccioso della loro virilita'. A noi che viviamo in Italia tocca portare il peso di essere contati fra quelli che sostengono la guerra contro l'Iraq. Sappiamo che non e' vero, ma dovremo dimostrarlo e, ancor prima, continuare a sapere che non e' vero: saperlo dentro di noi e intorno a noi, nei rapporti con quelli che finiranno per non voler saperne piu' niente. Lo spiega bene una donna coraggiosa della ex-Jugoslavia: quando c'e' guerra, il linguaggio si militarizza per una specie di contaminazione tanto piu' forte quanto meno si vuole sapere quello che succede intorno a noi (Fare pace dove c'e' guerra). Intorno a noi, insieme a una guerra che non abbiamo voluto, e' successo un po' di pace, voluta, concepita, messa al mondo da donne e uomini. Che rimanga fra noi, con la sua capacita' di metterci in rapporto gli uni con le altre, quasi un patto sociale di una specie nuova e felice. 3. RIFLESSIONE. RENATO SOLMI: LA DITTATURA DI SADDAM HUSSEIN E LA GUERRA IN CORSO [Ringraziamo Renato Solmi (per contatti: rsolmi at tin.it) per questo intervento. Renato Solmi e' uno dei massimi intellettuali italiani viventi, e' stato tra i pilastri della casa editrice Einaudi, ha introdotto in Italia opere fondamentali della scuola di Francoforte e del pensiero critico contemporaneo, e' uno dei maestri autentici e profondi di generazioni di persone impegnate per la democrazia e la dignita' umana, che attraverso i suoi scritti e le sue traduzioni hanno costruito tanta parte della propria strumentazione intellettuale] Non c'e' dubbio, mi sembra, che si tratti di una dittatura politica abbietta, e anche ridicola, paragonabile, per certi aspetti, a quella di Mussolini in Italia (la coreografia esteriore, il culto della personalita', il tentativo anacronistico di far rinascere la grandezza defunta). Si e' avvalso degli aiuti americani, ai tempi di Reagan, per condurre una guerra insensata e rovinosa contro l'Iran, dove aveva avuto luogo una rivoluzione, che, per essersi svolta all'insegna del fanatismo religioso, presentava aspetti altamente contraddittori (e quindi anche reazionari o addirittura ripugnanti), ma aveva avuto tuttavia anche un ruolo liberatorio indiscutibile, e per certi aspetti esemplare. Ha dato prova di una mancanza assoluta di scrupoli nella sua gestione interna del potere, come nell'impiego del gas contro i Curdi (che lo avvicina ancora una volta a Mussolini: uso dell'iprite contro gli Abissini), e in altri episodi; e di una assoluta imprevidenza nell'occupazione del Kuwait, che lo ha visto completamente isolato in tutto il mondo arabo, e che ha permesso agli Stati Uniti di insediarsi durevolmente, in una funzione di arbitro e di garante, in tutta la regione mediorientale. Non mi sento assolutamente di escludere che possieda ancora uno stock piu' o meno consistente di armi chimiche e batteriologiche, anche se il parere dell'ispettore Scott Ritter (per cui esse sarebbero state in tutto o in gran parte distrutte) ha un peso certamente non trascurabile; ma mi sembra del tutto convincente l'opinione dell'esperto americano Charles Pena, direttore del Centro Studi per la Difesa del Cato Institute di Washington e gia' consulente del Pentagono durante l'amministrazione Reagan, espressa in un'intervista alla "Stampa" del 6 febbraio 2003, e fatta propria da molti altri osservatori intelligenti (come Le Carre' e Vargas Llosa), secondo la quale queste armi non potrebbero comunque rappresentare una minaccia per gli Stati Uniti e neppure per i paesi vicini, dal momento che il loro eventuale impiego susciterebbe una reazione immediata e completamente distruttiva per il regime di Saddam e per tutto il paese. Saddam Hussein non e' un pazzo irresponsabile, e non puo' certamente permettersi di compiere azioni terroristiche come quelle progettate ed eseguite dai militanti di Al Qaeda (che, del resto, fino a questo momento, non si sono mai serviti di questo tipo di armi). Si potrebbe ritenere, forse, che egli si riservi di avvalersene solo come extrema ratio nel corso di una lotta difensiva, anche se e' chiaro che il loro impiego non farebbe che ritardare, ma renderebbe definitiva e ineluttabile la sua rovina (esponenti del governo americano, non meno spregiudicati e inumani di lui, hanno gia' dichiarato che, in risposta al loro impiego, gli Stati Uniti non esiterebbero a servirsi delle armi atomiche in loro possesso). Va da se' che un'eventualita' di questo genere, se si verificasse, avrebbe l'effetto di riabilitare, in apparenza, agli occhi dell'opinione pubblica mondiale, la condotta criminale del governo degli Stati Uniti, che rimarrebbe tuttavia ugualmente tale alla luce delle considerazioni che ho cercato di svolgere finora. Vorrei stabilire un'analogia, discutibile come tutti i ragionamenti ipotetici di questo tipo, ma che puo' gettare una certa luce sul problema di cui ci stiamo occupando. Che cosa sarebbe accaduto se, nel 1935, invece di limitarsi a imporre sanzioni del tutto inefficaci e largamente illusorie contro l'Italia fascista in atto di aggredire l'Abissinia (le petroliere indispensabili alla condotta della guerra in Africa Orientale hanno potuto passare tranquillamente attraverso il canale di Suez per tutta la durata di essa), la Societa' delle Nazioni avesse dato luogo, non gia' a un embargo realmente efficace, ma a una vera e propria invasione del territorio italiano finalizzata al rovesciamento del regime mussoliniano? Se si pensa che alcuni dei maggiori esponenti dell'antifascismo rimasti all'interno del paese, come Benedetto Croce, avevano sentito, in questa occasione, il bisogno di manifestare la propria solidarieta' col governo nazionale partecipando all'offerta degli ori famigliari alla patria, si puo' facilmente immaginare quali sarebbero state le conseguenze di una politica di questo genere. Il popolo si sarebbe stretto intorno a Mussolini, che sarebbe diventato piu' popolare che mai, in nome dell'indipendenza nazionale offesa, e dell'uguaglianza dei diritti fra le nazioni che possedevano ancora vasti imperi coloniali e quelle che cercavano di procurarselo a loro volta coi propri mezzi. Al giorno d'oggi, naturalmente, il contesto storico e internazionale e' completamente mutato, la decolonizzazione integrale (o quasi) del pianeta e' stata portata a compimento; e un'azione come l'occupazione irachena del Kuwait ha avuto l'effetto di isolare completamente il governo che l'aveva compiuta di fronte al resto del mondo e, da ultimo, in seguito alla disastrosa sconfitta subita nella guerra del Golfo, anche a vasti settori del proprio popolo e del proprio paese. Ma l'aggressione angloamericana di oggi, che ha luogo solo in nome di vaghi sospetti e di un'ostilita' irriducibile nei confronti di un governo non allineato, e tenuto in uno stato di quarantena, insieme al suo popolo, per oltre un decennio, non puo' che produrre un effetto analogo a quello che avrebbe potuto produrre, nel 1935, una guerra preventiva e punitiva contro l'Italia. Ed e' appena il caso di aggiungere che, al giorno d'oggi, le velleita' nazionalistiche ed espansionistiche di un governo come quello iracheno, sottoposto, per giunta, a una sorveglianza speciale e costretto ad ospitare a tempo indefinito gli ispettori dell'Onu, non possono (o, per dir meglio, non potevano) rappresentare nemmeno lontanamente un pericolo paragonabile a quello che i regimi fascisti e militaristi del Tripartito erano in grado di rappresentare per l'Europa e per il mondo della prima meta' del secolo scorso. La loro parte, infatti, e' stata presa oggi dalle due potenze anglosassoni, che, con la loro aggressione deliberata e fermamente voluta all'Iraq, hanno avanzato apertamente la loro candidatura al dominio del mondo (un obbiettivo che Hitler, a ben vedere, non e' mai stato effettivamente in grado di porsi). Ma c'e' qualcosa di comune fra la situazione che si era venuta a determinare, nell'Europa e nel mondo, nella seconda meta' degli anni '30 e quella che minaccia di crearsi oggi in seguito a questa nuova rottura dell'ordine internazionale, che segna la fine della Organizzazione delle Nazioni Unite come embrione di un governo mondiale basato sull'associazione fra stati indipendenti allo stesso modo in cui le iniziative degli stati fascisti avevano provocato la crisi e, in definitiva, la dissoluzione della Societa' delle Nazioni. Chi scrive e' tornato a provare da tempo, e precisamente dalla discesa in campo di Berlusconi nei primi mesi del 1994, quel senso indefinibile di oppressione che aveva provato, da ragazzo e da adolescente, nell'Italia della seconda meta' degli anni '30, ma che era certamente comune, in varia misura, a tutti i paesi dell'Europa e del mondo. Quando si spezzano gli strumenti di cui ci si era serviti, o di cui ci si sarebbe dovuti servire, per comporre le differenze e i contrasti fra le nazioni, e c'e' chi pensa di poter risolvere con la forza tutti i problemi a cui si trova di fronte, si dischiudono prospettive che non possono fare a meno di suscitare angoscia e sgomento. Che gli avvenimenti di questi ultimi mesi abbiano dato luogo, pero', a una presa di coscienza diffusa e a una mobilitazione imponente delle nuove generazioni, e' un segnale di buon augurio, o almeno di speranza, anche per chi non ha piu' molto tempo da vivere. 4. RIFLESSIONE. FRANCESCO COMINA: QUESTA E' LA GUERRA [Ringraziamo Francesco Comina (per contatti: f.comina at ilmattinobz.it) per averci messo a disposizione questo articolo gia' apparso sul quotidiano "Il mattino di Bolzano". Francesco Comina, giornalista e saggista, pacifista nonviolento, e' impegnato nel movimento di Pax Christi; nato a Bolzano nel 1967, laureatosi con una tesi su Raimundo Panikkar, collabora a varie riviste. Opere di Francesco Comina: Non giuro a Hitler, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2000; ha partecipato alla redazione del libro di AA. VV., Le periferie della memoria, e a AA. VV., Giubileo purificato] "Troppa luce abbaglia" (Blaise Pascal). "This is the war", questa e' la guerra. La frase rimbalza da un generale all'altro degli eserciti contro Saddam, mentre le immagini televisive penetrano fra le rovine dei massacri di civili a Baghdad, Karbala e Najaf. "This is the war". Il sospetto che li', in mezzo alle case, ai mercati, alla vita, si nascondano pezzi dell'artiglieria di regime, ha imposto alla tempesta di bombe e missili di fare deserto, nel deserto di Baghdad. La mano di una donna appare fra i cocci ancora fumanti dell'apocalisse nel quartiere di Shaab. Quindici morti carbonizzati dicono i giornali, molti di piu' sostengono gli abitanti di quel quartiere. Ma gia' altre trenta vittime civili vengono contate nelle citta' periferiche. E all'ospedale di al Kindi una bimba piange, da sola, il peccato di essere nata li', nell'Iraq del dittatore Saddam al tempo dell'imperatore Bush jr. Immagini che Rumsfeld non vorrebbe nemmeno vedere. Eppure sappiamo che "questa e' la guerra" e che alla fine i morti saranno migliaia e migliaia. Decine di migliaia. Perche' la grande battaglia deve ancora incominciare, come dice serenamente il presidente Bush dal giardino primaverile della Casa Bianca. I nomi e i volti delle vittime irachene forse non li ricorderemo piu'. Anzi, non li vedremo nemmeno se non fosse per le riprese coraggiose di cameramen delle televisioni che di tanto in tanto riescono a penetrare nell'inferno di fiamme e fuoco. I soldati gettati nella battaglia rimarranno solo dei numeri, con la differenza che qui, in occidente, sulle sponde dell'Atlantico, verranno ricoperti di bandiere e medaglie, mentre la', nella sabbia del Paese "maledetto", saranno sepolti con le unghie da un popolo sfinito e decimato. Questa e' la folle realta' della guerra. E' stato sempre cosi'. Nella prima tempesta nel deserto l'intento era quello di liberare il Kuwait attraverso i bombardamenti dall'alto: e nessuno dimentica la colonna di diecimila soldati iracheni colpita dalle lingue di fuoco degli elicotteri americani mentre correva disperatamente in ritirata su quel nastro di cemento battezzato "autostrada della morte". E nella guerra per la liberazione del Kosovo nessuno ancora ha spiegato come mai tanti stupidi missili hanno colpito treni, palazzi, fabbriche insignficanti dal punto di vista strategico. E i volti? E le vittime? E i corpi uccisi per liberare altri corpi, altre vittime, altri volti ricoperti dalla sabbia del macellaio Milosevic? Che senso ha massacrare per estirpare altri massacri? I reduci delle guerre del passato, in genere, non sopportano piu' le immagini di conflitti. Chi ha combattuto durante la seconda guerra mondiale oggi respira nauseato l'odore della terra calpestata dagli anfibi dei soldati e si chiude le orecchie al suono delle bombe che cadono sulle citta'. E in America i piu' grandi oppositori all'intervento di Bush oggi sono gli ex combattenti del Vietnam e della prima guerra del Golfo. Migliaia di soldati - fra l'altro - sono stati contaminati dall'uranio impoverito e sono ammalati di leucemie e tumori. Molti - come conferma l'associazione di reduci di "Desert Storm" - sono gia' morti. Prima di partire per questa nuova missione nel Golfo Persico alcune giovani reclute hanno pensato bene di congelare il seme della creazione per evitare che al ritorno nascano bimbi deformi come e' accaduto innumerevoli volte ai soldati tornati dalle ultime guerre tecnologiche degli anni '90. "This is the war". I "giovani delle Azzorre", Bush, Blair e Aznar - aveva detto papa Wojtyla - non sanno cos'e' la guerra, non ci sono mai stati dentro, non hanno visto il gemito di sofferenza che sale dalle case distrutte, dai palazzi sventrati, dai mercati colpiti e infuocati. Se ne stanno li', a migliaia di chilometri di distanza per raccogliere i dati sull'avanzata delle truppe del Bene contro il Male. Ma mai e poi mai il crollo delle twin towers puo' legittimare il massacro della guerra contro la popolazione inerme. Ecco perche' la filosofia e l'etica del dopoguerra ha cercato, in tutti i modi, di ribaltare l'intera cultura bellicista che dall'eta' moderna in avanti ha esaltato "il sangue" come "salute etica dei popoli" (Hegel) o come spirito divino del carnefice (de Maistre) o ancora come "innocenza del divenire" (Nietzsche). Con il "day after" di Hiroshima il pensiero umano ha dovuto fare i conti con il tema del volto umano: "Un volto da stabilire in sede teorica, da rispettare in sede morale, da accarezzare in sede affettiva" - scriveva Italo Mancini, uno dei piu' grandi filosofi italiani contemporanei. E proseguiva: "Il nostro mondo per viverci, amare e santificarci non e' dato da una neutra teoria dell'essere che subordina a se' la libera e rocciosa teoria dell'essere; non e' dato dagli eventi della storia o dai fenomeni della natura, ma e' dato dall'esserci di questi inauditi centri di alterita' che sono i volti, volti da guardare, da rispettare, da accarezzare (...). Rispetto del volto e della grande morale che esso comporta, questo e' la pace. Soppressione del volto o con l'uccisione fisica o con quella morale, questo e' la guerra". Se si vuole seguire questa linea di pensiero non e' lecito coprire la tragedia del pianto umano con un semplice "This is the war". Sarebbe come spianare la terra con una colata di cemento e dire che la vita individuale non ha alcun senso. Ecco perche' la violenza - da qualunque parte essa ci giunga, dalla mano di Saddam come dai thank di mister Blair - e' una deriva umana inaccettabile. Uccide i volti, nega l'essere nella sua dimensione unica e irripetibile, e compie l'atto atroce dell'omicidio, condannato da tutte le leggi sacre e profane. Questa e' la guerra, certo, ma la saggezza non abita qui, la saggezza cerca casa nel cuore dell'umanita' nonviolenta dove la guerra e' considerata non solo illegale dal punto di vista giuridico, ma irrazionale dal punto di vista umano. "Bellum alienum a ratione", la guerra fuori dalle categorie della razionalita'. E quindi impossibile perche' impensabile: "This is the peace", questa e' la pace. 5. RIFLESSIONE. ALEXANDER LANGER: A PROPOSITO DI GIONA [Ringraziamo Mao Valpiana (per contatti: azionenonviolenta at sis.it) per averci inviato questo scritto di Alexander Langer (da Alexander Langer, Il viaggiatore leggero, Sellerio, Palermo 1996, pp. 321-324. Si tratta della traduzione di appunti per una relazione tenuta, su invito del vescovo di Bolzano Wilhelm Egger il 5 aprile 1991. Nel maggio '95 ha dedicato il testo alla memoria di mons. Tonino Bello, da poco deceduto, aggiungendovi le parti introduttive e conclusive). Mao Valpiana lo presenta con le seguenti parole: "Cari amici, la guerra e' giunta anche a Mosul, l'antica citta' di Ninive, di cui il profeta Giona annuncio' la distruzione; ma gli abitanti pregarono, digiunarono e si convertirono. Il Signore, allora, ebbe compassione e non fece il male che aveva minacciato. Alex Langer fece una bella rilettura di questo brano dell'Antico Testamento. Come spesso accade con i suoi scritti, e' di sconvolgente attualita'. Penso valga la pena farlo circolare. Un caro saluto, Mao Valpiana". Alexander Langer e' nato a Sterzing (Vipiteno, Bolzano) nel 1946, e si e' tolto la vita nella campagna fiorentina nel 1995. Promotore di infinite iniziative per la pace, la convivenza, i diritti, l'ambiente. Per una sommaria descrizione della vita cosi' intensa e delle scelte cosi' generose di Langer rimandiamo ad una sua presentazione autobiografica che e' stata pubblicata col titolo Minima personalia sulla rivista "Belfagor" nel 1986 (poi ripresa in La scelta della convivenza). Opere di Alexander Langer: Vie di pace. Rapporto dall'Europa, Arcobaleno, Bolzano 1992; dopo la sua scomparsa sono state pubblicate due belle raccolte di interventi: La scelta della convivenza, Edizioni e/o, Roma 1995; Il viaggiatore leggero. Scritti 1961-1995, Sellerio, Palermo 1996. Segnaliamo inoltre: Scritti sul Sudtirolo, Alpha&Beta, Bolzano 1996; Die Mehrheit der Minderheiten, Wagenbach, Berlin 1996; Piu' lenti, piu' dolci, piu' profondi, suppl. a "Notizie Verdi", Roma 1998. Opere su Alexander Langer: Roberto Dall'Olio, Entro il limite. La resistenza mite di Alex Langer, La meridiana, Molfetta 2000. Si sta ancora procedendo alla raccolta di tutti gli scritti e gli interventi (Langer non fu scrittore da tavolino, ma generoso suscitatore di iniziative e quindi la grandissima parte dei suoi interventi e' assai variamente dispersa). Si veda comunque almeno il fascicolo monografico di "Azione nonviolenta" di luglio-agosto 1996; l'opuscolo di presentazione de La Fondazione Alexander Langer - Stiftung, suppl. a "Una citta'", Forli' (per richieste: tel. 054321422; fax 054330421), ed il nuovo fascicolo edito dalla Fondazione nel maggio 2000 (per richieste: tel. e fax 00390471977691). La Casa per la nonviolenza di Verona ha pubblicato un CD-Rom su Alex Langer (per informazioni: tel. 0458009803; fax 0458009212; e-mail: azionenonviolenta at sis.it). Indirizzi utili: Fondazione Alexander Langer Stiftung, via Portici 49 Lauben, 39100 Bolzano-Bozen, tel. e fax 00390471977691; e-mail: foundation at alexanderlanger.it; sito: www.alexanderlanger.it] E' un tempo, questo, in cui non passa giorno senza che si getti qualche pietra sull'impegno pubblico, specie politico. Troppa e' la corruzione, la falsita', il trionfo dell'apparenza e della volgarita'. Troppo accreditati i finti rinnovamenti, moralismi abusivi, demagogia e semplicismo. Troppo evidente la carica di eversione e deviazione che caratterizza mansioni che dovevano essere di estrema responsabilita'. Troppo tracotanti si riaffacciano durezza sociale, logica del piu' forte, competizione selvaggia. Davvero non si sa dove trovare le risorse spirituali per cimentarsi su un terreno sempre piu' impervio. Non sara' magari piu' saggio abbandonare un campo talmente intossicato da non poter sperare in alcuna bonifica, e coltivare - semmai - altrove nuovi appezzamenti, per modesti che siano? O dobbiamo forse riandare alla storia di Giona, precettato per recarsi a Ninive, a raccontare agli abitanti di quella citta' una novella pesante e sgradevole, tanto da indurlo alla diserzione, imbarcandosi sulla prima nave che andava in direzione lontana e contraria, pur di non portare il messaggio? Sappiamo com'e' andata a finire: la tempesta, il rischio di naufragio, Giona scoperto, identificato come causa dell'ira degli elementi e gettato dalla nave, inghiottito dal pesce enorme e riportato esattamente la' dove aveva abbandonato e doveva quindi proseguire il suo compito (i dettagli e la fine della storia conviene leggerli nell'originale). 1. Giona e' un "profeta contro-voglia", che deve essere assai faticosamente convinto a portare a destinazione il messaggio che gli e' stato affidato. Fatica ad accettare il suo mandato chi ha capito cose importanti e necessarie anche agli altri e sa che sara' assai impopolare diffondere un messaggio che non promette vantaggi e prebende, ma chiede cambiamenti profondi e va controcorrente. Quanta distanza dai tanti profeti auto-investiti! Si capisce che Giona non corra per alcuna "nomination", ma anzi cerchi di sottrarsi. Si ha fame di verita', di profeti il cui messaggio sia piu' importante del latore: la persona del "profeta", gli interessi del "profeta", l'acquiescenza a gusti facili ed alla demagogia, rendono spesso difficile percepire i messaggi importanti e veri. Si ha una acuta sensazione di non-verita' di fronte ai messaggi gridati dai mass-media, dalla competizione politica, dalla pubblicita', dalla convegnistica, dallo stesso sdegno di chi proclama ad alta voce la propria opposizione ed alternativita'. E non si riesce a dar credito a ricostruzioni, teoremi, ideologie che tutto spiegano, tutto inquadrano, tutto giustificano, in tutto fanno tornare i conti. C'e' sete di messaggi semplici e veri: verificati, cioe', dall'esperienza vissuta, non gonfiati o aggiustati per colpire meglio l'attenzione o la curiosita'. 2. Quando il profeta finalmente la raggiunge e l'avvisa, la citta' di Ninive prende le sue misure per obbedire all'avvertimento profetico. Eccelle, tra i provvedimenti adottati per risanare e purificare la citta', il digiuno. "Ognuno si converta dalla sua malvagia condotta e dall'iniquita' che e' nelle sue mani". Gli animali, fratelli degli uomini, prendono parte al digiuno. Viene emanato il "decreto del re": mostra che non basta la conversione individuale, occorre anche cambiare qualcosa nelle regole della citta', per cambiare strada. Quante Chernobyl, quanti incendi nel Golfo, quante guerre, quanti attentati, quanta deforestazione, quanti studi e previsioni catastrofiche ci occorreranno per prendere le nostre misure e digiunare? Nel digiuno si puo' ottimamente sintetizzare il cuore del messaggio anche della "conversione ecologica": la corsa sfrenata al profitto, all'espansione, alla crescita economica, alla dissipazione energetica ed alimentare, alla super-motorizzazione, alla montagna ormai ingestibile dei rifiuti... un digiuno, una scelta di autolimitazione, del "vivere meglio con meno", e' oggi necessario ed urgente. Anche a costo di apparire impopolari. 3. Giona, il profeta "catastrofista", sembra quasi deluso che poi la catastrofe non si avvera, e se la prende con Dio. Quasi sembra dire che "era inutile obbligarmi alla missione profetica, tanto lo sapevo che non sarebbe venuta cosi' grossa...". Oggi, soprattutto in campo ambientale, e' tutta una profezia di sventura (dal "Worldwatch Institute" al Wwf...; dall'ozono all'"effetto serra"...); c'e' a volte il rischio di essere catastrofisti e di terrorizzare la gente, la qual cosa non sempre aiuta a cambiare strada, ma puo' indurre a rassegnarcisi. Piuttosto bisogna indicare strade di conversione, se si vogliono evitare ragionamenti come "dopo di noi il diluvio", "tanto e' tutto inutile e la corsa e' disperatamente persa...", "se io non inquino, ce ne sono mille altri che invece lo fanno...". La "conversione ecologica" e' cosa molto concreta. Esempi possibili si trovano in tutti i campi, dall'uso di detersivi meno inquinanti alla rinuncia frequente all'automobile, dalla sistematica separazione dei rifiuti per recuperarne il massimo e non appesantire la terra con residui "indigesti" alla riduzione dei nostri consumi energetici. Occorrono comportamenti personali, ma anche "decreti del re". Nelle nostre citta' anche un'altra conversione sembrerebbe importante: la "conversione alla convivenza". Ai vecchi abitanti di Ninive se ne sono aggiunti tanti nuovi, la citta' e' ancora troppo divisa e contrapposta, mancano spazi comuni, occasioni comuni di incontro e di azione tra persone di diversa provenienza. 4. Il profeta finalmente si ritira nei pressi della citta' per contemplare gli effetti della sua missione. Una pianta di ricino gli spunta sopra la testa per dargli ombra - e cosi' com'e' spuntata, si secca e scompare. Qualcosa di completamente gratuito ed immeritato, come al profeta (che se ne lamenta) sembra immeritata la sua scomparsa. Abbiamo bisogno di occasioni ed opportunita' gratuite nella nostra vita, nella vita delle citta' e delle campagne. Puo' bastare anche poco: spazi per sedersi senza dover consumare, accesso alla natura, al mare, al verde, senza dover pagare un biglietto, una fontana pubblica con l'acqua buona alla portata di tutti, biciclette del Comune che si possono prendere in prestito e restituire, un mercatino di scambio dell'usato... In una societa' dove tutto e' diventato merce, e dove chi ha soldi puo comperare e stare meglio, occorre la riabilitazione del "gratuito", di cio' che si puo' usare ma non comperare: perche' non mettere a disposizione occasioni gratuite - modeste, magari - per dormire, mangiare, rifornirsi di vestiti usati...? Non so come don Tonino abbia deciso di fare il prete e il vescovo. Non so se abbia mai sentito forti esitazioni, l'impulso di dimettersi, una sensazione di inutilita' del suo mandato. Probabilmente non aveva mai bisogno della tempesta e della balena per essere richiamato alla sua missione. Forse sentiva intorno a se' una verita' e una semplicita' con radici profonde, antiche e popolari. Beati i profeti che non devono passare per la pancia della balena. 6. RIFLESSIONE. VANDANA SHIVA: ACQUA [Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riportiamo questi brani dal primo capitolo del nuovo libro di Vandana Shiva, ripresi da "L'Unita'" del 5 marzo 2003, che cosi' li presentava: "Esce il 7 marzo da Feltrinelli Le guerre dell'acqua di Vandana Shiva (pp. 158, euro 13,50) fisica ed economista indiana, tra i massimi esperti internazionali di economia sociale, attivista politica e ambientalista, ha ricevuto il Nobel alternativo per la pace nel 1993". Vandana Shiva, scienziata e filosofa indiana, direttrice di importanti istituti di ricerca e docente nelle istituzioni universitarie delle Nazioni Unite, impegnata non solo come studiosa ma anche come militante nella difesa dell'ambiente e delle culture native, e' oggi tra i principali punti di riferimento dei movimenti ecologisti, femministi, di liberazione dei popoli, di opposizione a modelli di sviluppo oppressivi e distruttivi, e di denuncia di operazioni e programmi scientifico-industriali dagli esiti pericolosissimi. Tra le opere di Vandana Shiva: Sopravvivere allo sviluppo, Isedi, Torino 1990; Monocolture della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1995; Biopirateria, Cuen, Napoli 1999, 2001; Vacche sacre e mucche pazze, DeriveApprodi, Roma 2001; Terra madre, Utet, Torino 2002 (edizione riveduta di Sopravvivere allo sviluppo); Il mondo sotto brevetto, Feltrinelli, Milano 2002] A chi appartiene l'acqua? E' una proprieta' privata o un bene pubblico? Quali diritti hanno, o dovrebbero avere, le persone? Quali sono i diritti dello Stato? Quali quelle delle imprese e degli interessi commerciali? Nel corso della storia tutte le societa' si sono poste questi interrogativi fondamentali. Oggi ci troviamo di fronte a una crisi planetaria dell'acqua, che minaccia di aggravarsi nei prossimi decenni. Il peggioramento della crisi e' accompagnato da nuove iniziative per ridefinire i diritti sull'acqua. L'economia globalizzata sta cambiando la definizione di acqua da bene pubblico a proprieta' privata, una merce che si puo' estrarre e commerciare liberamente. L'ordine economico globale chiede la rimozione di tutti i vincoli e le normative sull'uso dell'acqua e l'istituzione di un mercato di questo bene. I sostenitori del libero commercio dell'acqua vedono i diritti di proprieta' privata come unica alternativa alla liberta' statale e i liberi mercati come il solo sostituto alla regolamentazione burocratica delle risorse idriche. Piu' di qualsiasi altra risorsa, l'acqua deve rimanere un bene pubblico e necessita di una gestione comune. In effetti, in gran parte delle societa', ne e' esclusa la proprieta' privata. Testi antichi come le Institutiones di Giustiniano indicano che l'acqua e altre fonti naturali sono beni pubblici: "Per legge di natura questi elementi sono comuni a tutta l'umanita': l'aria, l'acqua dolce, il mare, e quindi le sponde del mare". In paesi come l'India, lo spazio, l'aria, l'acqua e l'energia sono tradizionalmente considerati esterni ai rapporti di proprieta'. Nelle tradizioni islamiche, la Sharia, che originariamente connotava il "cammino verso l'acqua", fornisce la base fondamentale per il diritto all'acqua. Gli stessi Stati Uniti hanno avuto molti sostenitori dell'acqua come bene comune. "L'acqua e' un elemento mobile, itinerante, e deve pertanto continuare a essere un bene comune per legge di natura", scriveva William Blackstone, "cosi' che io posso averne solo una proprieta' di carattere temporaneo, transitorio, usufruttuario". L'introduzione delle moderne tecnologie di estrazione ha accresciuto il ruolo dello stato nella gestione dell'acqua. Man mano che le nuove tecnologie soppiantano i sistemi di autogestione, le strutture democratiche di controllo da parte delle popolazioni si deteriorano e il loro ruolo nella conservazione si riduce. Con la globalizzazione e la privatizzazione delle risorse idriche, si rafforza il tentativo di erodere completamente i diritti dei popoli e rimpiazzare la proprieta' collettiva con il controllo delle grandi aziende. II fatto che al di la' dello stato e del mercato esistano comunita' di persone in carne e ossa con bisogni concreti e' qualcosa che nella corsa alla privatizzazione viene spesso dimenticata. * Diritti idrici e diritti naturali In tutto il mondo, nel corso della storia, i diritti idrici hanno assunto la loro forma prendendo in considerazione contemporaneamente i limiti degli ecosistemi e le necessita' della popolazione. Il fatto che la radice del termine urdu abadi, insediamento umano sia ab, acqua, riflette lo sviluppo di insediamenti umani e civilta' lungo i corsi d'acqua. La dottrina del diritto ripario - il diritto naturale all'uso dell'acqua da parte degli abitanti che fanno capo per il sostentamento a un determinato sistema idrico, soprattutto un sistema fluviale - nasce anch'essa da questo concetto di ab. Storicamente, quello relativo all'acqua e' sempre stato trattato come un diritto naturale - un diritto che deriva dalla natura umana, dalle condizioni storiche, dalle esigenze elementari e dalle idee di giustizia. I diritti all'acqua come i diritti naturali non nascono con lo stato: scaturiscono da un dato consenso ecologico all'esistenza umana. In quanto diritti naturali, quelli dell'acqua sono diritti di usufrutto; l'acqua puo' essere utilizzata ma non posseduta. Gli esseri umani hanno il diritto alla vita e alle risorse che la sostengono, e tra queste c'e' l'acqua. Il suo essere indispensabile alla vita e' il motivo per cui, secondo le leggi consuetudinarie, il diritto ad accedervi e' stato accettato come un fatto naturale, sociale: "Il fatto che il diritto all'acqua sia presente in tutte le legislazioni antiche, comprese le nostre dharmasastra e le leggi islamiche, e il fatto che tali norme continuino a sussistere come leggi consuetudinarie nell'epoca moderna, contraddicono l'idea che quelli sull'acqua siano diritti puramente giuridici, ossia garantiti dallo stato o dalla legge". (Chattarpati Singh, Water and law). * Diritti ripari I diritti ripari, basati su concetti come il diritto usufruttuario, la proprieta' comune e il ragionevole uso, hanno guidato gli insediamenti umani in tutto il mondo. In India, i sistemi ripari, esistono da tempo immemorabile lungo l'Himalaya. Il famoso Grand Anicut (canale) sul Kaveri presso il fiume Ullar risale a mille anni fa ed e' ritenuta la piu' grande struttura idraulica di controllo del flusso di un fiume esistente in India. E' ancora in funzione. Nel nord-est, vecchi sistemi ripari noti come dong governano l'uso dell'acqua. Nel Maharashtra, le strutture di conservazione erano note con il nome di bandhara. Anche i sistemi ahar e pyne di Bihar, in cui un canale di inondazione non arginato (pyne) trasferisce l'acqua da un corso a un bacino di raccolta (ahar), rappresentano l'evoluzione di un concetto ripario. A differenza dei canali Sone costruiti dai britannici, che non hanno saputo andare incontro alle esigenze della popolazione, gli ahar e i pyne continuano a fornire acqua ai contadini. Negli Stati Uniti i sistemi ripari sono stati introdotti dagli spagnoli, che li avevano portati con se' dalla penisola iberica. Questi sistemi sono stati adottati in Colorado, New Mexico e Arizona, oltre che negli insediamenti orientali (...). * I principi della democrazia dell'acqua (...) Quelli che seguono sono nove principi che stanno alla base della democrazia dell'acqua: 1. L'acqua e' un dono della natura Noi riceviamo l'acqua gratuitamente dalla natura. E' nostro dovere nei confronti della natura usare questo dono secondo le nostre esigenze di sostentamento, mantenerlo pulito e in quantita' adeguata. Le deviazioni che creano regioni aride o allagate violano il principio della democrazia ecologica. 2. L'acqua e' essenziale alla vita L'acqua e' la fonte della vita per tutte le specie. Tutte le specie e tutti gli ecosistemi hanno il diritto alla loro quota di acqua sul pianeta. 3. La vita e' interconnessa mediante l'acqua L'acqua connette tutti gli esseri umani e ogni parte del pianeta attraverso il suo ciclo. Noi tutti abbiamo il dovere di assicurare che le nostre azioni non provochino danni ad altre specie e ad altre persone. 4. L'acqua dev'essere gratuita perle esigenze di sostentamento Poiche' la natura ci concede l'uso gratuito dell'acqua, comprarla e venderla per ricavarne profitto viola il nostro insito diritto al dono della natura e sottrae ai poveri i loro diritti umani. 5. L'acqua e' limitata ed e' soggetta a esaurimento L'acqua e' limitata e puo' esaurirsi se usata in maniera non sostenibile. Nell'uso non sostenibile rientra il prelevarne dall'ecosistema piu' di quanto la natura possa rifonderne (non-sostenibilita' ecologica) e il consumarne piu' della propria legittima quota ai danni del diritto degli altri a una giusta parte (non-sostenibilita sociale). 6. L'acqua dev'essere conservata Ognuno ha il dovere di conservare l'acqua e usarla in maniera sostenibile, entro limiti ecologici ed equi. 7. L'acqua e' un bene comune L'acqua non e' un'invenzione umana. Non puo' essere confinata e non ha confini. E' per natura un bene comune. Non puo' essere posseduta come proprieta' privata e venduta come merce. 8. Nessuno ha il diritto di distruggerla Nessuno ha il diritto di impiegare in eccesso, abusare, sprecare o inquinare i sistemi di circolazione dell'acqua. I permessi di inquinamento commerciabili violano il principio dell'uso equo e sostenibile. 9. L'acqua non e' sostituibile L'acqua e' intrinsecamente diversa da altre risorse e prodotti. Non puo' essere trattata come una merce. 7. RIFLESSIONE. FRANCESCO PICCIONI INTERVISTA JEAN ZIEGLER [Dal quotidiano "Il manifesto" del 27 marzo 2003. Jean Ziegler e' un illustre sociologo da sempre impegnato per i diritti umani; in una scheda annessa all'intervista, l'intervistatore cosi' presenta Ziegler e il suo ultimo libro (in relazione alla cui presentazione Ziegler era in italia nei giorni scorsi): "Autore di testi fortunati come La Svizzera lava piu' bianco (1990), in cui denunciava la prassi disinvolta delle banche del suo paese nel trattare i capitali di incerta origine, o La Svizzera, l'oro e i morti (1998), sull'oro degli ebrei sequestrato dai nazisti e finito nei forzieri della Confederazione, Jean Ziegler e' in questi giorni a Roma per presentare la sua ultima fatica: La privatizzazione del mondo (Marco Tropea, pp. 316, euro 15,50). Relatore speciale dell'Onu per il diritto all'alimentazione, poliglotta (durante la trasmissione televisiva "Ballaro'" ha contestato in diretta la traduttrice che gli "ammorbidiva" le espressioni piu' dure contro l'amministrazione Bush), Ziegler illustra soggetti e tecniche della "privatizzazione del mondo". Punta il dito sui "predatori" (i relativamente pochi che manovrano il "capitale globalizzato"), portando a riprova della loro voracita' senza limiti (tanto meno etici) le loro stesse dichiarazioni, i loro atti, il loro modo d'agire nei quattro angoli del mondo. Al punto da citare una vecchia definizione di Leon Bloy: "Il ricco e' un bruto inesorabile che si e' costretti a fermare con un falce o una scarica di mitraglia nel ventre". Ma non risparmia neppure i "mercenari", ossia la "macchina da guerra" del Wto, la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale (vero "piromane" dei paesi periferici - come l'Argentina - che costringe a politiche interne suicide). Puo' sembrare curiosa, questa definizione degli organismi generalmente ritenuti "potenti", ma se si tiene conto che il Wto - per esempio - ha avuto nel 2002 un budget di 82 milioni di dollari, con appena 350 persone che vi lavorano a tempo pieno, si puo' cominciare a capire come il "potere vero" stia forse in altre stanze. Un mondo di pazzi per il profitto in cui c'e' soltanto una speranza: la possibile nascita di una "societa' civile planetaria", che sappia far vivere concretamente un "principio di generosita'", contrastando agli "oligarchi" palmo a palmo il terreno del consenso nella coscienza dei cittadini del mondo. Un profilo che sembra ritagliato sulle caratteristiche salienti fin qui mostrate dal "movimento dei movimenti". Che e' giovane, eterogeneo, fragile e romantico. Ma e' anche l'unica speranza che abbia avuto la forza, di nuovo, di presentarsi al mondo"] "Il punto fondamentale e' questo: 'la mano invisibile del mercato non funzionera' mai senza un pugno visibile. E il pugno visibile che garantisce la sicurezza mondiale della tecnologia della Silicon Valley si chiama esercito, aviazione, forza navale e corpo dei marines degli Stati Uniti'". L'intervista a Jean Ziegler - sociologo, cittadino svizzero davvero atipico, dall'eloquio torrenziale e assai poco attento agli stilemi del politically correct - comincia con una citazione di Thomas Friedman, a suo tempo consigliere speciale di Madeleine Albright, segretario di stato con Bill Clinton. Un "falco" democratico, insomma, che teorizzava gia' nel '99, sul "New York Times Magazine", quel che poi George Bush ha tradotto in pratica. D'altronde, la tesi fondamentale di Ziegler e' che le "oligarchie" - finanziarie e industriali - impongono le regole all'economia mondiale, distruggendo gli stati a partire dalla possibilita' stessa di impostare una politica economica che risponda agli interessi di un singolo paese, della sua specificita'. Tesi sostenuta, con accenti diversi, anche da Juergen Habermas e Ralf Dahrendorf, ma che Ziegler drammatizza evidenziando come questa "distruzione" trascini con se' i fondamenti della modernita' occidentale: il principio di sovranita', la legittimazione democratica delle leadership, le regole valide erga omnes, i principi dello stato di diritto. La liberta' individuale e l'autodeterminazione dei popoli, insomma. - Francesco Piccioni: Partiamo proprio da qui, dai "capitali finanziari senza patria" che destrutturano lo "stato-nazione". - Jean Ziegler: Ho incontrato Lula, in Brasile. Un personaggio straordinario, un vero leader popolare, eletto con una maggioranza altrettanto straordinaria (oltre il 67%). Ha posto come priorita' del suo governo la lotta alla fame che affligge 44 milioni di cittadini. Ma il debito estero del Brasile equivale alla meta' del suo prodotto interno lordo. Le possibilita' di manovra, per Lula, sono estremamente esigue. E la stessa cosa si puo' dire di tutti i governi del mondo, anche se i paesi piu' avanzati hanno naturalmente piu' possibilita' di autonomia rispetto a quelli poveri. Ma tutti vivono in un ambiente in cui si guarda all'andamento delle borse e dei mercati finanziari per capire quant'e' grande, giorno dopo giorno, il loro margine di manovra. Alle oligarchie non interessa se il sindaco di Roma e' Veltroni o qualcun altro, perche' sono loro a stabilire fin dove potra' agire. - F. P.: Ma se i governi - nazionali o locali - non possono determinare una politica indipendente, cosa accade? - J. Z.: Vengono progressivamente abolite le norme vincolanti, si allentano i legami sociali e si polarizza verso gli estremi l'articolazione della societa'. Alla concentrazione di potere e ricchezza nelle mani di pochi si oppone la poverta' estrema di folle sterminate, impegnate solo nella ricerca dei mezzi per la sopravvivenza, e al cui interno si rompono tutti i legami di solidarieta'. In certe megalopoli del terzo mondo perdono stabilita' persino i rapporti familiari, e si moltiplicano i "ragazzi di strada". Ma secondo Wolfensohn e gli altri grandi capi del Wto e del Fmi questa progressiva abolizione delle "restrizioni legali" al libero movimento dei capitali serve a instaurare la stateless global governance, il mercato globale autoregolato, senza piu' bisogno dello Stato. Dopo di che, dicono, in virtu' del cosiddetto triple down effect, dell'"effetto a cascata", ci sara' una redistribuzione del reddito tale da cancellare per sempre miseria e disugualianze. - F. P.: La "mano invisibile" del mercato secondo l'ideologia liberista. - J. Z.: E' ideologia, appunto. Il problema e' che questo "effetto", come dice anche Richard Sennett, vive solo come un'attesa messianica, ma non si verifichera' mai. E' l'ideologia dei signori. E funziona, bisogna ammettere che funziona. Si e' appropriata del mondo e lo fa andare secondo le proprie regole. Ma per affermarsi ha bisogno del "pugno visibile", ossia della potenza militare americana. - F. P.: Ma questo implica che la guerra diventi "permanente". - J. Z.: E' quello che sta avvenendo. La globalizzazione, del resto, non e' affatto un processo pacifico. Basta pensare alla definizione di "globalizzazione" che ha dato Percy Barnevick, alla testa di un impero della metallurgia e dell'elettronica: "E' la liberta', per il mio gruppo, di investire dove vuole, per il tempo che vuole, per produrre cio' che vuole, approvvigionandosi e vendendo dove vuole e dovendo sottostare al minimo di restrizioni possibile in materia di diritto del lavoro e di accordi sociali". E' un'idea che vede nelle volonta' altrui soltanto un ostacolo per la propria. Dei nemici, insomma. - F. P.: La guerra in atto contro l'Iraq e' come le altre del passato o ha caratteristiche tutte nuove? - J. Z.: E' una rottura completa di tutto l'assetto che ha retto il dopoguerra. La teorizzazione e la pratica della "guerra preventiva" distrugge la funzione stessa dell'Onu. In questo modo ogni malfattore potrebbe dire a sua volta "mi sento minacciato e quindi scateno una guerra", invocando lo stesso principio. Ma la cosa piu' grave e' la rottura del diritto internazionale, ossia di quel fragile equilibrio che fin qui ha assicurato la salvezza del nostro pianeta. - F. P.: Nemici, in questa teoria, diventano anche i sindacati e in genere i rappresentanti di interessi diversi da quelli delle oligarchie. - J. Z.: Certo. E anche tutti i movimenti che in questi anni si stanno sviluppando, con una ricchezza di idee e una capacita' di rinnovamento culturale veramente notevole. Ma le oligarchie non se ne curano affatto. Il loro scopo e' semplicemente quello di massimizzare i profitti nel minor tempo possibile. Per loro le legislazioni nazionali sui diritti dei lavoratori sono soltanto ostacoli alla propria liberta' d'impresa. A loro non importa se, come conseguenza della loro capacita' di arricchimento, ci saranno conseguenze disastrose. In dieci anni, dal '90 al 2000, gli esseri umani che vivono in poverta' assoluta sono aumentati. 100.000 persone muoiono ogni giorno di fame, un bambino ogni 7 secondi. Ma i patrimoni personali dei piu' ricchi, nello stesso periodo, sono cresciuti come mai prima. - F. P.: Lei ha dedicato il suo ultimo libro, tra gli altri, a Carlo Giuliani, il ragazzo ucciso a Genova nel 2001. Quale ruolo possono avere i movimenti? - J. Z.: Le manifestazioni contro la guerra, i tre milioni di persone a Roma, il milione a Londra e a Madrid, le decine di milioni in tutto il mondo, hanno un'enorme importanza per il futuro del mondo. Disegnano la prospettiva di un mondo multipolare contrapposto al tentativo di creare un "impero americano"; un mondo regolato democraticamente, non dalla legge del piu' forte. E l'emancipazione rispetto agli Usa e' la condizione perche' l'Onu possa riprendere la via della civilta' e del diritto. - F. P.: I movimenti hanno la possibilita' di fermare le oligarchie, di batterle? - J. Z.: E' difficile, e' molto difficile. C'e' sempre stata la speranza romantica che il mondo, la storia, comunque va in avanti. A Porto Alegre, per esempio, ne ho discusso con Chomsky, che sostiene che questa e' solo una particolare fase del capitalismo. Ma io penso che ci troviamo davanti alla possibilita' di un vero e proprio punto di rottura nella civilta' che conosciamo. E' accaduto altre volte, nella storia. E' un rischio vero. Il mio amico Regis Debray, addirittura, dice spesso che "dobbiamo prepararci a tornare nelle catacombe". 8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 9. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it; angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 552 del 31 marzo 2003
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