La nonviolenza e' in cammino. 552



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 552 del 31 marzo 2003

Sommario di questo numero:
1. Coordinamento "Fermiamo la guerra" di Pisa: una lettera al sindaco
2. Luisa Muraro: non sono bandiere, sono parole
3. Renato Solmi, la dittatura di Saddam Hussein e la guerra in corso
4. Francesco Comina, questa e' la guerra
5. Alexander Langer, a proposito di Giona
6. Vandana Shiva, acqua
7. Francesco Piccioni intervista Jean Ziegler
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. APPELLI. COORDINAMENTO "FERMIAMO LA GUERRA" DI PISA: UNA LETTERA AL
SINDACO
[Ringraziamo Giovanni Mandorino (per contatti: g.mandorino at tiscali.it) per
averci inviato copia di questa lettera aperta del coordinamento "Fermiamo la
guerra" agli amministratori di Pisa che e` stata consegnata il 27 marzo in
occasione del Consiglio Comunale]
Al sindaco, alla giunta a tutte le consigliere ed i consiglieri comunali di
Pisa
"Ci  ostiniamo a volere la pace. Faremo tutto quello che e' in nostro potere
per ottenerla". Questa guerra "e' ingiusta, sbagliata e illegittima", priva
di consenso internazionale. Questa guerra "non ha nessuna giustificazione
etica, nessuna legittimazione nel diritto internazionale. Non e' dettata da
ragioni difensive ed e' un gravissimo errore politico. Puo' portare solo
altre guerre, scatenare nuova violenza, seminare nuovo terrore. Divide i
popoli, scredita le istituzioni, umilia il diritto, genera odio". "La
Toscana e' contro questa guerra. La democrazia si fonda sul dialogo, sul
confronto, sul rifiuto della violenza. La democrazia nasce per impedire la
violenza, l'arbitrio, la ragione del piu' forte. Difendere la pace significa
difendere la democrazia".
Sono queste le parole del presidente della Regione Toscana, Martini, il 20
marzo all'indomani dell'inizio dell'invasione dell'Iraq.
Otto giorni sono passati da allora, otto giorni segnati, in Iraq, da
crescenti scontri militari e bombardamenti anche sulle citta', e in Italia
come nella nostra citta', dalla prosecuzione e dalla crescita di quelle
grandi mobilitazioni di popolo che gia' da molti mesi si opponevano, in
concreto, spesso mettendo in gioco i propri corpi, al funzionamento della
grande macchina logistica che preparava la guerra utilizzando come retrovia
il territorio italiano e come maggiore deposito di esplosivi e munizioni
quello pisano in particolare.
A fronte di queste inequivocabili espressioni della volonta' di opposizione
alla guerra da parte delle cittadine e dei cittadini, ci duole constatare
come da parte degli enti locali (del Consiglio Comunale e del Sindaco di
Pisa in particolare) si sia evidenziato uno scarto sempre piu' evidente e
sempre meno spiegabile tra dichiarazioni di principio ed esercizio delle
proprie prerogative atto a dare un seguito alle dichiarazioni stesse.
Non si puo' aspettare ancora, il Sindaco, la Giunta e tutti i Consiglieri
possono e devono dimostrare che le loro dichiarazioni non sono meri esercizi
retorici, anche in vista della vicina campagna elettorale, ponendo mano ad
una serie di misure di tutela degli abitanti e del territorio di Pisa e di
attuazione del nostro dettato costituzionale che ripudia la guerra.
Il Sindaco ed il Consiglio Comunale devono pretendere ed attuare la massima
trasparenza sull'utilizzo che viene fatto del territorio comunale.
Il Sindaco puo', con sua ordinanza a tutela della sicurezza ed incolumita'
pubblica, porre fine all'uso di tutte le infrastrutture civili (aeroporto,
ferrovie, vie d'acqua, strade) presenti nel territorio comunale da parte di
mezzi e truppe di paesi combattenti e opporsi ad ogni estensione dell'uso a
fini militari del territorio, con particolare riferimento all'allargamento
del Canale dei Navicelli e della base statunitense di Camp Darby.
Una importante istituzione cittadina, l'Universita' degli Studi, ha preso
nei giorni scorsi una decisione in questo senso, negando il trasferimento di
terreni di sua proprieta' a quella base militare .
Gia' il 20 marzo, il sindaco del Comune di Falconara ha decretato il divieto
di scalo nell'aeroporto cittadino per tutti i velivoli impegnati in
operazioni militari "per prevenire ed eliminare i gravi pericoli che possono
minacciare l'incolumita' dei cittadini durante le fasi di belligeranza".
Il Sindaco ed il Consiglio possono immediatamente decretare e deliberare
questa ed altre misure che impediscano la prosecuzione dell'uso del nostro
territorio come base di partenza di una guerra illegale e criminale,
stragista e terrorista, delittuosa ed anticostituzionale ed in questo modo
contribuire alla sua fine.
Ogni ritardo nel prendere queste misure costituisce oggettivamente, al di
la' delle piu' belle parole di pace che possano essere pronunciate, al di
la' di questo o quel vessillo che possa essere esposto alla finestra, una
complicita' con il crimine della guerra in atto, una violazione palese del
dettato costituzionale e delle leggi della coscienza.
Ogni ritardo comporta l'assunzione di responsabilita' terribili da parte di
tutti coloro che, potendo, non hanno agito.

2. RIFLESSIONE. LUISA MURARO: NON SONO BANDIERE, SONO PAROLE
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riprendiamo questo articolo di Luisa Muraro apparso sul quotidiano
"L'Unita'" del 22 marzo 2003. Luisa Muraro insegna all'Universita' di
Verona, fa parte della comunita' filosofica femminile di "Diotima". Dal sito
delle sue "Lezioni sul femminismo" riportiamo una sua scheda
biobibliografica: "Luisa Muraro, sesta di undici figli, sei sorelle e cinque
fratelli, e' nata nel 1940 a Montecchio Maggiore (Vicenza), in una regione
allora povera. Si e' laureata in filosofia all'Universita' Cattolica di
Milano e la', su invito di Gustavo Bontadini, ha iniziato una carriera
accademica presto interrotta dal Sessantotto. Passata ad insegnare nella
scuola dell'obbligo, dal 1976 lavora nel dipartimento di filosofia
dell'Universita' di Verona. Ha partecipato al progetto conosciuto come Erba
Voglio, di Elvio Fachinelli. Poco dopo coinvolta nel movimento femminista
dal gruppo "Demau" di Lia Cigarini e Daniela Pellegrini e' rimasta fedele al
femminismo delle origini, che poi sara' chiamato femminismo della
differenza, al quale si ispira buona parte della sua produzione successiva:
La Signora del gioco (Feltrinelli, Milano 1976), Maglia o uncinetto (1981,
ristampato nel 1998 dalla Manifestolibri), Guglielma e Maifreda (La
Tartaruga, Milano 1985), L'ordine simbolico della madre (Editori Riuniti,
Roma 1991), Lingua materna scienza divina (D'Auria, Napoli 1995), La folla
nel cuore (Pratiche, Milano 2000). Con altre, ha dato vita alla Libreria
delle Donne di Milano (1975), che pubblica la rivista trimestrale "Via
Dogana" e il foglio "Sottosopra", ed alla comunita' filosofica Diotima
(1984), di cui sono finora usciti sei volumi collettanei (da Il pensiero
della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987, a Il profumo della
maestra, Liguori, Napoli 1999). E' diventata madre nel 1966 e nonna nel
1997"]
Non sono bandiere, sebbene abbiano questo nome, le bandiere della pace che
hanno cambiato l'aspetto delle citta' e anche, in fondo, il nostro modo di
abitarle. Sono parole di un linguaggio finalmente trovato per dire un
sentimento di vicinanza e comunicarlo, vicinanza di casa e di umanita' che
oltrepassa ogni tipo di barriere pur restando presso di se', senza invadere
ne' aggredire l'altro.
In extremis, non so come, si e' trovato un linguaggio per dire qualcosa che
sembrava perduto, il valore della convivenza che si apre allo scambio con
gli altri. Si e' trovato, imprevedibilmente, senza l'aiuto di intellettuali,
di politici, di mass-media, di partiti. Si e' trovato in occasione di una
guerra che pretendeva essere la risposta dell'Occidente al trauma dell'11
settembre. E che, invece, lo sappiamo, e' una reazione tremenda e cieca di
uomini in deficit di quasi tutto quello che occorre in politica, a
cominciare dall'autorita' morale. Per cui, fra gli altri disastri, c'e'
anche il fatto che nessuno e' stato in posizione di aiutare il popolo degli
Stati Uniti ad elaborare il senso di una fragilita' scoperta nella maniera
piu' traumatica, aiutarlo a non viverla come un'umiliazione e a rimettersi
in cammino sulla strada della civilta'.
Nessuno? Sbaglio, ora ci sono queste bandiere iridate che hanno cominciato a
fiorire sui muri, pian piano, prima rade, poi tante, in certe strade
tantissime, in altre ancora scarse e tanto piu' visibili, tutte esposte
senza arroganza, spesso in baruffa con il vento che le strapazza. E queste
bandiere mandano un messaggio agli Usa, sia pure da un paese periferico come
il nostro. Dicono che le case sono il riparo di corpi vivi e delle loro
cose, ma un riparo fragile ed esposto alla violenza, rispetto alla quale
esse offrono - ecco l'invenzione, ecco la novita', ecco la strada della
civilta' - il riparo simbolico di significare una volonta' di pace.
Sta capitando qualcosa di grande. Durera'? si sono chiesti alcuni
commentatori. Non lo sappiamo. Ma io penso che non sara' piu' come prima,
almeno per me e tante, tanti altri come me. Prima il campo era occupato da
un dilemma, tra le posizioni dei pacifisti e dei realisti, questi ultimi a
ripetere: in politica non si puo' stare senza l'argomento della forza e,
dunque, senza l'eventualita' della guerra, e gli altri a replicare: la
guerra e' sempre sbagliata, la guerra si mangia tutte le ragioni, anche le
migliori. Come se non ci fosse altro da dire e cosi' e' stato per molte e
molti di noi, che non sapevamo cosa dire. Adesso invece lo sappiamo: per noi
non c'e' la guerra/la pace, ma c'e' questo momento storico ingarbugliato di
problemi e di minacce, nel quale possiamo tentare di fare la pace, non in
generale, ma la pace possibile qui e ora. Come? Non so tutta la risposta, ma
l'inizio si', lo abbiamo trovato, e' il passaggio fuori dall'isolamento e
dal mutismo di una convivenza sempre piu' alienata, per significare,
insieme, la nostra reciproca vicinanza e la nostra comune vicinanza alle
donne e agli uomini colpiti o minacciati dalla violenza distruttiva. I
commentatori vedono la novita' di questo movimento, ma quasi non vedono che
e' politica, in un senso sorgivo: e' politica prima e riguarda la tessitura
del vivere associato.
Quelle bandiere sono parole e le parole sono mediazione. L'inizio della
risposta e', dunque, il lavoro della mediazione. Lavoro che non si limita e
neanche essenzialmente consiste nelle speciali missioni diplomatiche,
perche' la mediazione, come la lingua che parliamo, e' un continuum e, senza
soluzione di continuita', scorre dalla parola scambiata con la vicina di
casa alla possibilita' di un accordo risolutivo. Fare pace dove c'e' guerra
s'intitola una recentissima pubblicazione della Libreria delle donne di
Milano. E dice, parlando del 15 febbraio: questo "basta per sempre con la
guerra" espresso da milioni di donne e uomini, non si da' come progetto da
collocare in un orizzonte futuro, ne' resta sospeso in un tempo ideale, ma
e' gia' presente nelle pratiche quotidiane, nelle forme concrete di una
politica che e' orientata a fare la pace qui e ora.
Sono d'accordo, solo una cosa vorrei aggiungere. Nel cambiamento che Fare
pace descrive in termini di contestualita' dell'agire pacifico, quello che
traspare come fattore di cambiamento e' una presenza libera di donne.
Dovrei portare degli argomenti. Ci sono i numeri: nella grande maggioranza
di persone che sono contrarie a questa guerra, la stragrande maggioranza
sono donne. C'e', ancora, che i segni della pace, interdetti negli edifici
pubblici dello Stato, si moltiplicano sui davanzali delle abitazioni, luoghi
governati in passato e ancor oggi, di preferenza, dalle donne. E c'e' lo
stile delle manifestazioni di piazza, che sta cambiando. Si attenua il
bisogno reattivo di contrapporsi, per fare posto al senso di esserci con
altri, a condividere progetti e sentimenti.
Il primo a notare questo fatto collegandolo alla presenza di donne, e' stato
il direttore di questo giornale. Commentando la grandissima manifestazione
della Cgil, a Roma, ricordo che scriveva: e' una folla enorme, cosa che, di
suo, farebbe paura, ma non fa paura, grazie alla grande presenza di donne.
Accade forse perche' nella piazza una donna porta qualcosa che resta
associato alla vita domestica, non lo so, ma non lo considero deteriore,
anzi, mi pare un modo per riscattare la reclusione domestica di tante donne
nel passato.
Come si ricordera', l'Otto marzo di quest'anno e' stato dedicato alla lotta
per la pace e alcune femministe hanno espresso la preoccupazione che ne
uscisse rinforzato lo stereotipo della "donna uguale pace". A me sembra che
stia capitando giusto il contrario, che l'associazione forzata tra le donne
e la pace non scatti piu', sostituita da parole e gesti che parlano di un
legame tra liberta' e vita, troppo spesso ignorato e spezzato nella storia
degli uomini. Legame affidato al lavoro della mediazione come anche al gesto
di rottura, mai l'uno senza l'altro. Penso a Moretti che salta sul palco di
Piazza Navona. Penso, in questo momento, al papa che ha rotto con una
tradizione diplomatica di equidistanza, per fare tutto il suo possibile,
senza calcoli di potere. La differenza del nostro essere donne/uomini
diventa cosi' una risorsa di creativita' politica; gli uomini sono liberati
dal significato minaccioso della loro virilita'.
A noi che viviamo in Italia tocca portare il peso di essere contati fra
quelli che sostengono la guerra contro l'Iraq. Sappiamo che non e' vero, ma
dovremo dimostrarlo e, ancor prima, continuare a sapere che non e' vero:
saperlo dentro di noi e intorno a noi, nei rapporti con quelli che finiranno
per non voler saperne piu' niente. Lo spiega bene una donna coraggiosa della
ex-Jugoslavia: quando c'e' guerra, il linguaggio si militarizza per una
specie di contaminazione tanto piu' forte quanto meno si vuole sapere quello
che succede intorno a noi (Fare pace dove c'e' guerra).
Intorno a noi, insieme a una guerra che non abbiamo voluto, e' successo un
po' di pace, voluta, concepita, messa al mondo da donne e uomini. Che
rimanga fra noi, con la sua capacita' di metterci in rapporto gli uni con le
altre, quasi un patto sociale di una specie nuova e felice.

3. RIFLESSIONE. RENATO SOLMI: LA DITTATURA DI SADDAM HUSSEIN E LA GUERRA IN
CORSO
[Ringraziamo Renato Solmi (per contatti: rsolmi at tin.it) per questo
intervento. Renato Solmi e' uno dei massimi intellettuali italiani viventi,
e' stato tra i pilastri della casa editrice Einaudi, ha introdotto in Italia
opere fondamentali della scuola di Francoforte e del pensiero critico
contemporaneo, e' uno dei maestri autentici e profondi di generazioni di
persone impegnate per la democrazia e la dignita' umana, che attraverso i
suoi scritti e le sue traduzioni hanno costruito tanta parte della propria
strumentazione intellettuale]
Non c'e' dubbio, mi sembra, che si tratti di una dittatura politica
abbietta, e anche ridicola, paragonabile, per certi aspetti, a quella di
Mussolini in Italia (la coreografia esteriore, il culto della personalita',
il tentativo anacronistico di far rinascere la grandezza defunta). Si e'
avvalso degli aiuti americani, ai tempi di Reagan, per condurre una guerra
insensata e rovinosa contro l'Iran, dove aveva avuto luogo una rivoluzione,
che, per essersi svolta all'insegna del fanatismo religioso, presentava
aspetti altamente contraddittori (e quindi anche reazionari o addirittura
ripugnanti), ma aveva avuto tuttavia anche un ruolo liberatorio
indiscutibile, e per certi aspetti esemplare. Ha dato prova di una mancanza
assoluta di scrupoli nella sua gestione interna del potere, come
nell'impiego del gas contro i Curdi (che lo avvicina ancora una volta a
Mussolini: uso dell'iprite contro gli Abissini), e in altri episodi; e di
una assoluta imprevidenza nell'occupazione del Kuwait, che lo ha visto
completamente isolato in tutto il mondo arabo, e che ha permesso agli Stati
Uniti di insediarsi durevolmente, in una funzione di arbitro e di garante,
in tutta la regione mediorientale.
Non mi sento assolutamente di escludere che possieda ancora uno stock piu' o
meno consistente di armi chimiche e batteriologiche, anche se il parere
dell'ispettore Scott Ritter (per cui esse sarebbero state in tutto o in gran
parte distrutte) ha un peso certamente non trascurabile; ma mi sembra del
tutto convincente l'opinione dell'esperto americano Charles Pena, direttore
del Centro Studi per la Difesa del Cato Institute di Washington e gia'
consulente del Pentagono durante l'amministrazione Reagan, espressa in
un'intervista alla "Stampa" del 6 febbraio 2003, e fatta propria da molti
altri osservatori intelligenti (come Le Carre' e Vargas Llosa), secondo la
quale queste armi non potrebbero comunque rappresentare una minaccia per gli
Stati Uniti e neppure per i paesi vicini, dal momento che il loro eventuale
impiego susciterebbe una reazione immediata e completamente distruttiva per
il regime di Saddam e per tutto il paese. Saddam Hussein non e' un pazzo
irresponsabile, e non puo' certamente permettersi di compiere azioni
terroristiche come quelle progettate ed eseguite dai militanti di Al Qaeda
(che, del resto, fino a questo momento, non si sono mai serviti di questo
tipo di armi). Si potrebbe ritenere, forse, che egli si riservi di
avvalersene solo come extrema ratio nel corso di una lotta difensiva, anche
se e' chiaro che il loro impiego non farebbe che ritardare, ma renderebbe
definitiva e ineluttabile la sua rovina (esponenti del governo americano,
non meno spregiudicati e inumani di lui, hanno gia' dichiarato che, in
risposta al loro impiego, gli Stati Uniti non esiterebbero a servirsi delle
armi atomiche in loro possesso). Va da se' che un'eventualita' di questo
genere, se si verificasse, avrebbe l'effetto di riabilitare, in apparenza,
agli occhi dell'opinione pubblica mondiale, la condotta criminale del
governo degli Stati Uniti, che rimarrebbe tuttavia ugualmente tale alla luce
delle considerazioni che ho cercato di svolgere finora.
Vorrei stabilire un'analogia, discutibile come tutti i ragionamenti
ipotetici di questo tipo, ma che puo' gettare una certa luce sul problema di
cui ci stiamo occupando. Che cosa sarebbe accaduto se, nel 1935, invece di
limitarsi a imporre sanzioni del tutto inefficaci e largamente illusorie
contro l'Italia fascista in atto di aggredire l'Abissinia (le petroliere
indispensabili alla condotta della guerra in Africa Orientale hanno potuto
passare tranquillamente attraverso il canale di Suez per tutta la durata di
essa), la Societa' delle Nazioni avesse dato luogo, non gia' a un embargo
realmente efficace, ma a una vera e propria invasione del territorio
italiano finalizzata al rovesciamento del regime mussoliniano? Se si pensa
che alcuni dei maggiori esponenti dell'antifascismo rimasti all'interno del
paese, come Benedetto Croce, avevano sentito, in questa occasione, il
bisogno di manifestare la propria solidarieta' col governo nazionale
partecipando all'offerta degli ori famigliari alla patria, si puo'
facilmente immaginare quali sarebbero state le conseguenze di una politica
di questo genere. Il popolo si sarebbe stretto intorno a Mussolini, che
sarebbe diventato piu' popolare che mai, in nome dell'indipendenza nazionale
offesa, e dell'uguaglianza dei diritti fra le nazioni che possedevano ancora
vasti imperi coloniali e quelle che cercavano di procurarselo a loro volta
coi propri mezzi. Al giorno d'oggi, naturalmente, il contesto storico e
internazionale e' completamente mutato, la decolonizzazione integrale (o
quasi) del pianeta e' stata portata a compimento; e un'azione come
l'occupazione irachena del Kuwait ha avuto l'effetto di isolare
completamente il governo che l'aveva compiuta di fronte al resto del mondo
e, da ultimo, in seguito alla disastrosa sconfitta subita nella guerra del
Golfo, anche a vasti settori del proprio popolo e del proprio paese. Ma
l'aggressione angloamericana di oggi, che ha luogo solo in nome di vaghi
sospetti e di un'ostilita' irriducibile nei confronti di un governo non
allineato, e tenuto in uno stato di quarantena, insieme al suo popolo, per
oltre un decennio, non puo' che produrre un effetto analogo a quello che
avrebbe potuto produrre, nel 1935, una guerra preventiva e punitiva contro
l'Italia. Ed e' appena il caso di aggiungere che, al giorno d'oggi, le
velleita' nazionalistiche ed espansionistiche di un governo come quello
iracheno, sottoposto, per giunta, a una sorveglianza speciale e costretto ad
ospitare a tempo indefinito gli ispettori dell'Onu, non possono (o, per dir
meglio, non potevano) rappresentare nemmeno lontanamente un pericolo
paragonabile a quello che i regimi fascisti e militaristi del Tripartito
erano in grado di rappresentare per l'Europa e per il mondo della prima
meta' del secolo scorso.
La loro parte, infatti, e' stata presa oggi dalle due potenze anglosassoni,
che, con la loro aggressione deliberata e fermamente voluta all'Iraq, hanno
avanzato apertamente la loro candidatura al dominio del mondo (un obbiettivo
che Hitler, a ben vedere, non e' mai stato effettivamente in grado di
porsi). Ma c'e' qualcosa di comune fra la situazione che si era venuta a
determinare, nell'Europa e nel mondo, nella seconda meta' degli anni '30 e
quella che minaccia di crearsi oggi in seguito a questa nuova rottura
dell'ordine internazionale, che segna la fine della Organizzazione delle
Nazioni Unite come embrione di un governo mondiale basato sull'associazione
fra stati indipendenti allo stesso modo in cui le iniziative degli stati
fascisti avevano provocato la crisi e, in definitiva, la dissoluzione della
Societa' delle Nazioni.
Chi scrive e' tornato a provare da tempo, e precisamente dalla discesa in
campo di Berlusconi nei primi mesi del 1994, quel senso indefinibile di
oppressione che aveva provato, da ragazzo e da adolescente, nell'Italia
della seconda meta' degli anni '30, ma che era certamente comune, in varia
misura, a tutti i paesi dell'Europa e del mondo. Quando si spezzano gli
strumenti di cui ci si era serviti, o di cui ci si sarebbe dovuti servire,
per comporre le differenze e i contrasti fra le nazioni, e c'e' chi pensa di
poter risolvere con la forza tutti i problemi a cui si trova di fronte, si
dischiudono prospettive che non possono fare a meno di suscitare angoscia e
sgomento. Che gli avvenimenti di questi ultimi mesi abbiano dato luogo,
pero', a una presa di coscienza diffusa e a una mobilitazione imponente
delle nuove generazioni, e' un segnale di buon augurio, o almeno di
speranza, anche per chi non ha piu' molto tempo da vivere.

4. RIFLESSIONE. FRANCESCO COMINA: QUESTA E' LA GUERRA
[Ringraziamo Francesco Comina (per contatti: f.comina at ilmattinobz.it) per
averci messo a disposizione questo articolo gia' apparso sul quotidiano "Il
mattino di Bolzano". Francesco Comina, giornalista e saggista, pacifista
nonviolento, e' impegnato nel movimento di Pax Christi; nato a Bolzano nel
1967, laureatosi con una tesi su Raimundo Panikkar, collabora a varie
riviste. Opere di Francesco Comina: Non giuro a Hitler, Edizioni San Paolo,
Cinisello Balsamo (Mi) 2000; ha partecipato alla redazione del libro di AA.
VV., Le periferie della memoria, e a AA. VV., Giubileo purificato]
"Troppa luce abbaglia" (Blaise Pascal).
"This is the war", questa e' la guerra. La frase rimbalza da un generale
all'altro degli eserciti contro Saddam, mentre le immagini televisive
penetrano fra le rovine dei massacri di civili a Baghdad, Karbala e Najaf.
"This is the war".
Il sospetto che li', in mezzo alle case, ai mercati, alla vita, si
nascondano pezzi dell'artiglieria di regime, ha imposto alla tempesta di
bombe e missili di fare deserto, nel deserto di Baghdad. La mano di una
donna appare fra i cocci ancora fumanti dell'apocalisse nel quartiere di
Shaab. Quindici morti carbonizzati dicono i giornali, molti di piu'
sostengono gli abitanti di quel quartiere. Ma gia' altre trenta vittime
civili vengono contate nelle citta' periferiche. E all'ospedale di al Kindi
una bimba piange, da sola, il peccato di essere nata li', nell'Iraq del
dittatore Saddam al tempo dell'imperatore Bush jr. Immagini che Rumsfeld non
vorrebbe nemmeno vedere.
Eppure sappiamo che "questa e' la guerra" e che alla fine i morti saranno
migliaia e migliaia. Decine di migliaia. Perche' la grande battaglia deve
ancora incominciare, come dice serenamente il presidente Bush dal giardino
primaverile della Casa Bianca.
I nomi e i volti delle vittime irachene forse non li ricorderemo piu'. Anzi,
non li vedremo nemmeno se non fosse per le riprese coraggiose di cameramen
delle televisioni che di tanto in tanto riescono a penetrare nell'inferno di
fiamme e fuoco.
I soldati gettati nella battaglia rimarranno solo dei numeri, con la
differenza che qui, in occidente, sulle sponde dell'Atlantico, verranno
ricoperti di bandiere e medaglie, mentre la', nella sabbia del Paese
"maledetto", saranno sepolti con le unghie da un popolo sfinito e decimato.
Questa e' la folle realta' della guerra. E' stato sempre cosi'. Nella prima
tempesta nel deserto l'intento era quello di liberare il Kuwait attraverso i
bombardamenti dall'alto: e nessuno dimentica la colonna di diecimila soldati
iracheni colpita dalle lingue di fuoco degli elicotteri americani mentre
correva disperatamente in ritirata su quel nastro di cemento battezzato
"autostrada della morte". E nella guerra per la liberazione del Kosovo
nessuno ancora ha spiegato come mai tanti stupidi missili hanno colpito
treni, palazzi, fabbriche insignficanti dal punto di vista strategico. E i
volti? E le vittime? E i corpi uccisi per liberare altri corpi, altre
vittime, altri volti ricoperti dalla sabbia del macellaio Milosevic?
Che senso ha massacrare per estirpare altri massacri?
I reduci delle guerre del passato, in genere, non sopportano piu' le
immagini di conflitti. Chi ha combattuto durante la seconda guerra mondiale
oggi respira nauseato l'odore della terra calpestata dagli anfibi dei
soldati e si chiude le orecchie al suono delle bombe che cadono sulle
citta'. E in America i piu' grandi oppositori all'intervento di Bush oggi
sono gli ex combattenti del Vietnam e della prima guerra del Golfo. Migliaia
di soldati - fra l'altro - sono stati contaminati dall'uranio impoverito e
sono ammalati di leucemie e tumori. Molti - come conferma l'associazione di
reduci di "Desert Storm" - sono gia' morti.
Prima di partire per questa nuova missione nel Golfo Persico alcune giovani
reclute hanno pensato bene di congelare il seme della creazione per evitare
che al ritorno nascano bimbi deformi come e' accaduto innumerevoli volte ai
soldati tornati dalle ultime guerre tecnologiche degli anni '90. "This is
the war".
I "giovani delle Azzorre", Bush, Blair e Aznar - aveva detto papa Wojtyla -
non sanno cos'e' la guerra, non ci sono mai stati dentro, non hanno visto il
gemito di sofferenza che sale dalle case distrutte, dai palazzi sventrati,
dai mercati colpiti e infuocati. Se ne stanno li', a migliaia di chilometri
di distanza per raccogliere i dati sull'avanzata delle truppe del Bene
contro il Male. Ma mai e poi mai il crollo delle twin towers puo'
legittimare il massacro della guerra contro la popolazione inerme.
Ecco perche' la filosofia e l'etica del dopoguerra ha cercato, in tutti i
modi, di ribaltare l'intera cultura bellicista che dall'eta' moderna in
avanti ha esaltato "il sangue" come "salute etica dei popoli" (Hegel) o come
spirito divino del carnefice (de Maistre) o ancora come "innocenza del
divenire" (Nietzsche).
Con il "day after" di Hiroshima il pensiero umano ha dovuto fare i conti con
il tema del volto umano: "Un volto da stabilire in sede teorica, da
rispettare in sede morale, da accarezzare in sede affettiva" - scriveva
Italo Mancini, uno dei piu' grandi filosofi italiani contemporanei. E
proseguiva: "Il nostro mondo per viverci, amare e santificarci non e' dato
da una neutra teoria dell'essere che subordina a se' la libera e rocciosa
teoria dell'essere; non e' dato dagli eventi della storia o dai fenomeni
della natura, ma e' dato dall'esserci di questi inauditi centri di alterita'
che sono i volti, volti da guardare, da rispettare, da accarezzare (...).
Rispetto del volto e della grande morale che esso comporta, questo e' la
pace. Soppressione del volto o con l'uccisione fisica o con quella morale,
questo e' la guerra".
Se si vuole seguire questa linea di pensiero non e' lecito coprire la
tragedia del pianto umano con un semplice "This is the war". Sarebbe come
spianare la terra con una colata di cemento e dire che la vita individuale
non ha alcun senso.
Ecco perche' la violenza - da qualunque parte essa ci giunga, dalla mano di
Saddam come dai thank di mister Blair - e' una deriva umana inaccettabile.
Uccide i volti, nega l'essere nella sua dimensione unica e irripetibile, e
compie l'atto atroce dell'omicidio, condannato da tutte le leggi sacre e
profane.
Questa e' la guerra, certo, ma la saggezza non abita qui, la saggezza cerca
casa nel cuore dell'umanita' nonviolenta dove la guerra e' considerata non
solo illegale dal punto di vista giuridico, ma irrazionale dal punto di
vista umano. "Bellum alienum a ratione", la guerra fuori dalle categorie
della razionalita'. E quindi impossibile perche' impensabile: "This is the
peace", questa e' la pace.

5. RIFLESSIONE. ALEXANDER LANGER: A PROPOSITO DI GIONA
[Ringraziamo Mao Valpiana (per contatti: azionenonviolenta at sis.it) per
averci inviato questo scritto di Alexander Langer (da Alexander Langer, Il
viaggiatore leggero, Sellerio, Palermo 1996, pp. 321-324. Si tratta della
traduzione di appunti per una relazione tenuta, su invito del vescovo di
Bolzano Wilhelm Egger il 5 aprile 1991. Nel maggio '95 ha dedicato il testo
alla memoria di mons. Tonino Bello, da poco deceduto, aggiungendovi le parti
introduttive e conclusive). Mao Valpiana lo presenta con le seguenti parole:
"Cari amici, la guerra e' giunta anche a Mosul, l'antica citta' di Ninive,
di cui il profeta Giona annuncio' la distruzione; ma gli abitanti pregarono,
digiunarono e si convertirono. Il Signore, allora, ebbe compassione e non
fece il male che aveva minacciato. Alex Langer fece una bella rilettura di
questo brano dell'Antico Testamento. Come spesso accade con i suoi scritti,
e' di sconvolgente attualita'. Penso valga la pena farlo circolare. Un caro
saluto, Mao Valpiana". Alexander Langer e' nato a Sterzing (Vipiteno,
Bolzano) nel 1946, e si e' tolto la vita nella campagna fiorentina nel 1995.
Promotore di infinite iniziative per la pace, la convivenza, i diritti,
l'ambiente. Per una sommaria descrizione della vita cosi' intensa e delle
scelte cosi' generose di Langer rimandiamo ad una sua presentazione
autobiografica che e' stata pubblicata col titolo Minima personalia sulla
rivista "Belfagor" nel 1986 (poi ripresa in La scelta della convivenza).
Opere di Alexander Langer: Vie di pace. Rapporto dall'Europa, Arcobaleno,
Bolzano 1992; dopo la sua scomparsa sono state pubblicate due belle raccolte
di interventi: La scelta della convivenza, Edizioni e/o, Roma 1995; Il
viaggiatore leggero. Scritti 1961-1995, Sellerio, Palermo 1996. Segnaliamo
inoltre: Scritti sul Sudtirolo, Alpha&Beta, Bolzano 1996; Die Mehrheit der
Minderheiten, Wagenbach, Berlin 1996; Piu' lenti, piu' dolci, piu' profondi,
suppl. a "Notizie Verdi", Roma 1998. Opere su Alexander Langer: Roberto
Dall'Olio, Entro il limite. La resistenza mite di Alex Langer, La meridiana,
Molfetta 2000. Si sta ancora procedendo alla raccolta di tutti gli scritti e
gli interventi (Langer non fu scrittore da tavolino, ma generoso suscitatore
di iniziative e quindi la grandissima parte dei suoi interventi e' assai
variamente dispersa). Si veda comunque almeno il fascicolo monografico di
"Azione nonviolenta" di luglio-agosto 1996; l'opuscolo di presentazione de
La Fondazione Alexander Langer - Stiftung, suppl. a "Una citta'", Forli'
(per richieste: tel. 054321422; fax 054330421), ed il nuovo fascicolo edito
dalla Fondazione nel maggio 2000 (per richieste: tel. e fax 00390471977691).
La Casa per la nonviolenza di Verona ha pubblicato un CD-Rom su Alex Langer
(per informazioni: tel. 0458009803; fax 0458009212; e-mail:
azionenonviolenta at sis.it). Indirizzi utili: Fondazione Alexander Langer
Stiftung, via Portici 49 Lauben, 39100 Bolzano-Bozen, tel. e fax
00390471977691; e-mail: foundation at alexanderlanger.it; sito:
www.alexanderlanger.it]
E' un tempo, questo, in cui non passa giorno senza che si getti qualche
pietra sull'impegno pubblico, specie politico. Troppa e' la corruzione, la
falsita', il trionfo dell'apparenza e della volgarita'. Troppo accreditati i
finti rinnovamenti, moralismi abusivi, demagogia e semplicismo. Troppo
evidente la carica di eversione e deviazione che caratterizza mansioni che
dovevano essere di estrema responsabilita'. Troppo tracotanti si
riaffacciano durezza sociale, logica del piu' forte, competizione selvaggia.
Davvero non si sa dove trovare le risorse spirituali per cimentarsi su un
terreno sempre piu' impervio. Non sara' magari piu' saggio abbandonare un
campo talmente intossicato da non poter sperare in alcuna bonifica, e
coltivare - semmai - altrove nuovi appezzamenti, per modesti che siano?
O dobbiamo forse riandare alla storia di Giona, precettato per recarsi a
Ninive, a raccontare agli abitanti di quella citta' una novella pesante e
sgradevole, tanto da indurlo alla diserzione, imbarcandosi sulla prima nave
che andava in direzione lontana e contraria, pur di non portare il
messaggio?
Sappiamo com'e' andata a finire: la tempesta, il rischio di naufragio, Giona
scoperto, identificato come causa dell'ira degli elementi e gettato dalla
nave, inghiottito dal pesce enorme e riportato esattamente la' dove aveva
abbandonato e doveva quindi proseguire il suo compito (i dettagli e la fine
della storia conviene leggerli nell'originale).
1. Giona e' un "profeta contro-voglia", che deve essere assai faticosamente
convinto a portare a destinazione il messaggio che gli e' stato affidato.
Fatica ad accettare il suo mandato chi ha capito cose importanti e
necessarie anche agli altri e sa che sara' assai impopolare diffondere un
messaggio che non promette vantaggi e prebende, ma chiede cambiamenti
profondi e va controcorrente.
Quanta distanza dai tanti profeti auto-investiti! Si capisce che Giona non
corra per alcuna "nomination", ma anzi cerchi di sottrarsi. Si ha fame di
verita', di profeti il cui messaggio sia piu' importante del latore: la
persona del "profeta", gli interessi del "profeta", l'acquiescenza a gusti
facili ed alla demagogia, rendono spesso difficile percepire i messaggi
importanti e veri.
Si ha una acuta sensazione di non-verita' di fronte ai messaggi gridati dai
mass-media, dalla competizione politica, dalla pubblicita', dalla
convegnistica, dallo stesso sdegno di chi proclama ad alta voce la propria
opposizione ed alternativita'. E non si riesce a dar credito a
ricostruzioni, teoremi, ideologie che tutto spiegano, tutto inquadrano,
tutto giustificano, in tutto fanno tornare i conti. C'e' sete di messaggi
semplici e veri: verificati, cioe', dall'esperienza vissuta, non gonfiati o
aggiustati per colpire meglio l'attenzione o la curiosita'.
2. Quando il profeta finalmente la raggiunge e l'avvisa, la citta' di Ninive
prende le sue misure per obbedire all'avvertimento profetico. Eccelle, tra i
provvedimenti adottati per risanare e purificare la citta', il digiuno.
"Ognuno si converta dalla sua malvagia condotta e dall'iniquita' che e'
nelle sue mani". Gli animali, fratelli degli uomini, prendono parte al
digiuno. Viene emanato il "decreto del re": mostra che non basta la
conversione individuale, occorre anche cambiare qualcosa nelle regole della
citta', per cambiare strada.
Quante Chernobyl, quanti incendi nel Golfo, quante guerre, quanti attentati,
quanta deforestazione, quanti studi e previsioni catastrofiche ci
occorreranno per prendere le nostre misure e digiunare?
Nel digiuno si puo' ottimamente sintetizzare il cuore del messaggio anche
della "conversione ecologica": la corsa sfrenata al profitto,
all'espansione, alla crescita economica, alla dissipazione energetica ed
alimentare, alla super-motorizzazione, alla montagna ormai ingestibile dei
rifiuti... un digiuno, una scelta di autolimitazione, del "vivere meglio con
meno", e' oggi necessario ed urgente. Anche a costo di apparire impopolari.
3. Giona, il profeta "catastrofista", sembra quasi deluso che poi la
catastrofe non si avvera, e se la prende con Dio. Quasi sembra dire che "era
inutile obbligarmi alla missione profetica, tanto lo sapevo che non sarebbe
venuta cosi' grossa...".
Oggi, soprattutto in campo ambientale, e' tutta una profezia di sventura
(dal "Worldwatch Institute" al Wwf...; dall'ozono all'"effetto serra"...);
c'e' a volte il rischio di essere catastrofisti e di terrorizzare la gente,
la qual cosa non sempre aiuta a cambiare strada, ma puo' indurre a
rassegnarcisi. Piuttosto bisogna indicare strade di conversione, se si
vogliono evitare ragionamenti come "dopo di noi il diluvio", "tanto e' tutto
inutile e la corsa e' disperatamente persa...", "se io non inquino, ce ne
sono mille altri che invece lo fanno...".
La "conversione ecologica" e' cosa molto concreta. Esempi possibili si
trovano in tutti i campi, dall'uso di detersivi meno inquinanti alla
rinuncia frequente all'automobile, dalla sistematica separazione dei rifiuti
per recuperarne il massimo e non appesantire la terra con residui
"indigesti" alla riduzione dei nostri consumi energetici. Occorrono
comportamenti personali, ma anche "decreti del re".
Nelle nostre citta' anche un'altra conversione sembrerebbe importante: la
"conversione alla convivenza". Ai vecchi abitanti di Ninive se ne sono
aggiunti tanti nuovi, la citta' e' ancora troppo divisa e contrapposta,
mancano spazi comuni, occasioni comuni di incontro e di azione tra persone
di diversa provenienza.
4. Il profeta finalmente si ritira nei pressi della citta' per contemplare
gli effetti della sua missione. Una pianta di ricino gli spunta sopra la
testa per dargli ombra - e cosi' com'e' spuntata, si secca e scompare.
Qualcosa di completamente gratuito ed immeritato, come al profeta (che se ne
lamenta) sembra immeritata la sua scomparsa.
Abbiamo bisogno di occasioni ed opportunita' gratuite nella nostra vita,
nella vita delle citta' e delle campagne. Puo' bastare anche poco: spazi per
sedersi senza dover consumare, accesso alla natura, al mare, al verde, senza
dover pagare un biglietto, una fontana pubblica con l'acqua buona alla
portata di tutti, biciclette del Comune che si possono prendere in prestito
e restituire, un mercatino di scambio dell'usato... In una societa' dove
tutto e' diventato merce, e dove chi ha soldi puo comperare e stare meglio,
occorre la riabilitazione del "gratuito", di cio' che si puo' usare ma non
comperare: perche' non mettere a disposizione occasioni gratuite - modeste,
magari - per dormire, mangiare, rifornirsi di vestiti usati...?
Non so come don Tonino abbia deciso di fare il prete e il vescovo. Non so se
abbia mai sentito forti esitazioni, l'impulso di dimettersi, una sensazione
di inutilita' del suo mandato. Probabilmente non aveva mai bisogno della
tempesta e della balena per essere richiamato alla sua missione. Forse
sentiva intorno a se' una verita' e una semplicita' con radici profonde,
antiche e popolari. Beati i profeti che non devono passare per la pancia
della balena.

6. RIFLESSIONE. VANDANA SHIVA: ACQUA
[Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it)
riportiamo questi brani dal primo capitolo del nuovo libro di Vandana Shiva,
ripresi da "L'Unita'" del 5 marzo 2003, che cosi' li presentava: "Esce il 7
marzo da Feltrinelli Le guerre dell'acqua di Vandana Shiva (pp. 158, euro
13,50) fisica ed economista indiana, tra i massimi esperti internazionali di
economia sociale, attivista politica e ambientalista, ha ricevuto il Nobel
alternativo per la pace nel 1993". Vandana Shiva, scienziata e filosofa
indiana, direttrice di importanti istituti di ricerca e docente nelle
istituzioni universitarie delle Nazioni Unite, impegnata non solo come
studiosa ma anche come militante nella difesa dell'ambiente e delle culture
native, e' oggi tra i principali punti di riferimento dei movimenti
ecologisti, femministi, di liberazione dei popoli, di opposizione a modelli
di sviluppo oppressivi e distruttivi, e di denuncia di operazioni e
programmi scientifico-industriali dagli esiti pericolosissimi. Tra le opere
di Vandana Shiva: Sopravvivere allo sviluppo, Isedi, Torino 1990;
Monocolture della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1995; Biopirateria,
Cuen, Napoli 1999, 2001; Vacche sacre e mucche pazze, DeriveApprodi, Roma
2001; Terra madre, Utet, Torino 2002 (edizione riveduta di Sopravvivere allo
sviluppo); Il mondo sotto brevetto, Feltrinelli, Milano 2002]
A chi appartiene l'acqua? E' una proprieta' privata o un bene pubblico?
Quali diritti hanno, o dovrebbero avere, le persone? Quali sono i diritti
dello Stato? Quali quelle delle imprese e degli interessi commerciali? Nel
corso della storia tutte le societa' si sono poste questi interrogativi
fondamentali.
Oggi ci troviamo di fronte a una crisi planetaria dell'acqua, che minaccia
di aggravarsi nei prossimi decenni. Il peggioramento della crisi e'
accompagnato da nuove iniziative per ridefinire i diritti sull'acqua.
L'economia globalizzata sta cambiando la definizione di acqua da bene
pubblico a proprieta' privata, una merce che si puo' estrarre e commerciare
liberamente. L'ordine economico globale chiede la rimozione di tutti i
vincoli e le normative sull'uso dell'acqua e l'istituzione di un mercato di
questo bene. I sostenitori del libero commercio dell'acqua vedono i diritti
di proprieta' privata come unica alternativa alla liberta' statale e i
liberi mercati come il solo sostituto alla regolamentazione burocratica
delle risorse idriche.
Piu' di qualsiasi altra risorsa, l'acqua deve rimanere un bene pubblico e
necessita di una gestione comune. In effetti, in gran parte delle societa',
ne e' esclusa la proprieta' privata. Testi antichi come le Institutiones di
Giustiniano indicano che l'acqua e altre fonti naturali sono beni pubblici:
"Per legge di natura questi elementi sono comuni a tutta l'umanita': l'aria,
l'acqua dolce, il mare, e quindi le sponde del mare". In paesi come l'India,
lo spazio, l'aria, l'acqua e l'energia sono tradizionalmente considerati
esterni ai rapporti di proprieta'. Nelle tradizioni islamiche, la Sharia,
che originariamente connotava il "cammino verso l'acqua", fornisce la base
fondamentale per il diritto all'acqua. Gli stessi Stati Uniti hanno avuto
molti sostenitori dell'acqua come bene comune. "L'acqua e' un elemento
mobile, itinerante, e deve pertanto continuare a essere un bene comune per
legge di natura", scriveva William Blackstone, "cosi' che io posso averne
solo una proprieta' di carattere temporaneo, transitorio, usufruttuario".
L'introduzione delle moderne tecnologie di estrazione ha accresciuto il
ruolo dello stato nella gestione dell'acqua. Man mano che le nuove
tecnologie soppiantano i sistemi di autogestione, le strutture democratiche
di controllo da parte delle popolazioni si deteriorano e il loro ruolo nella
conservazione si riduce. Con la globalizzazione e la privatizzazione delle
risorse idriche, si rafforza il tentativo di erodere completamente i diritti
dei popoli e rimpiazzare la proprieta' collettiva con il controllo delle
grandi aziende. II fatto che al di la' dello stato e del mercato esistano
comunita' di persone in carne e ossa con bisogni concreti e' qualcosa che
nella corsa alla privatizzazione viene spesso dimenticata.
*
Diritti idrici e diritti naturali
In tutto il mondo, nel corso della storia, i diritti idrici hanno assunto la
loro forma prendendo in considerazione contemporaneamente i limiti degli
ecosistemi e le necessita' della popolazione. Il fatto che la radice del
termine urdu abadi, insediamento umano sia ab, acqua, riflette lo sviluppo
di insediamenti umani e civilta' lungo i corsi d'acqua. La dottrina del
diritto ripario - il diritto naturale all'uso dell'acqua da parte degli
abitanti che fanno capo per il sostentamento a un determinato sistema
idrico, soprattutto un sistema fluviale - nasce anch'essa da questo concetto
di ab. Storicamente, quello relativo all'acqua e' sempre stato trattato come
un diritto naturale - un diritto che deriva dalla natura umana, dalle
condizioni storiche, dalle esigenze elementari e dalle idee di giustizia. I
diritti all'acqua come i diritti naturali non nascono con lo stato:
scaturiscono da un dato consenso ecologico all'esistenza umana.
In quanto diritti naturali, quelli dell'acqua sono diritti di usufrutto;
l'acqua puo' essere utilizzata ma non posseduta. Gli esseri umani hanno il
diritto alla vita e alle risorse che la sostengono, e tra queste c'e'
l'acqua. Il suo essere indispensabile alla vita e' il motivo per cui,
secondo le leggi consuetudinarie, il diritto ad accedervi e' stato accettato
come un fatto naturale, sociale: "Il fatto che il diritto all'acqua sia
presente in tutte le legislazioni antiche, comprese le nostre dharmasastra e
le leggi islamiche, e il fatto che tali norme continuino a sussistere come
leggi consuetudinarie nell'epoca moderna, contraddicono l'idea che quelli
sull'acqua siano diritti puramente giuridici, ossia garantiti dallo stato o
dalla legge". (Chattarpati Singh, Water and law).
*
Diritti ripari
I diritti ripari, basati su concetti come il diritto usufruttuario, la
proprieta' comune e il ragionevole uso, hanno guidato gli insediamenti umani
in tutto il mondo. In India, i sistemi ripari, esistono da tempo
immemorabile lungo l'Himalaya. Il famoso Grand Anicut (canale) sul Kaveri
presso il fiume Ullar risale a mille anni fa ed e' ritenuta la piu' grande
struttura idraulica di controllo del flusso di un fiume esistente in India.
E' ancora in funzione. Nel nord-est, vecchi sistemi ripari noti come dong
governano l'uso dell'acqua. Nel Maharashtra, le strutture di conservazione
erano note con il nome di bandhara. Anche i sistemi ahar e pyne di Bihar, in
cui un canale di inondazione non arginato (pyne) trasferisce l'acqua da un
corso a un bacino di raccolta (ahar), rappresentano l'evoluzione di un
concetto ripario. A differenza dei canali Sone costruiti dai britannici, che
non hanno saputo andare incontro alle esigenze della popolazione, gli ahar e
i pyne continuano a fornire acqua ai contadini. Negli Stati Uniti i sistemi
ripari sono stati introdotti dagli spagnoli, che li avevano portati con se'
dalla penisola iberica. Questi sistemi sono stati adottati in Colorado, New
Mexico e Arizona, oltre che negli insediamenti orientali (...).
*
I principi della democrazia dell'acqua
(...) Quelli che seguono sono nove principi che stanno alla base della
democrazia dell'acqua:
1. L'acqua e' un dono della natura
Noi riceviamo l'acqua gratuitamente dalla natura. E' nostro dovere nei
confronti della natura usare questo dono secondo le nostre esigenze di
sostentamento, mantenerlo pulito e in quantita' adeguata. Le deviazioni che
creano regioni aride o allagate violano il principio della democrazia
ecologica.
2. L'acqua e' essenziale alla vita
L'acqua e' la fonte della vita per tutte le specie. Tutte le specie e tutti
gli ecosistemi hanno il diritto alla loro quota di acqua sul pianeta.
3. La vita e' interconnessa mediante l'acqua
L'acqua connette tutti gli esseri umani e ogni parte del pianeta attraverso
il suo ciclo. Noi tutti abbiamo il dovere di assicurare che le nostre azioni
non provochino danni ad altre specie e ad altre persone.
4. L'acqua dev'essere gratuita perle esigenze di sostentamento
Poiche' la natura ci concede l'uso gratuito dell'acqua, comprarla e venderla
per ricavarne profitto viola il nostro insito diritto al dono della natura e
sottrae ai poveri i loro diritti umani.
5. L'acqua e' limitata ed e' soggetta a esaurimento
L'acqua e' limitata e puo' esaurirsi se usata in maniera non sostenibile.
Nell'uso non sostenibile rientra il prelevarne dall'ecosistema piu' di
quanto la natura possa rifonderne (non-sostenibilita' ecologica) e il
consumarne piu' della propria legittima quota ai danni del diritto degli
altri a una giusta parte (non-sostenibilita sociale).
6. L'acqua dev'essere conservata
Ognuno ha il dovere di conservare l'acqua e usarla in maniera sostenibile,
entro limiti ecologici ed equi.
7. L'acqua e' un bene comune
L'acqua non e' un'invenzione umana. Non puo' essere confinata e non ha
confini. E' per natura un bene comune. Non puo' essere posseduta come
proprieta' privata e venduta come merce.
8. Nessuno ha il diritto di distruggerla
Nessuno ha il diritto di impiegare in eccesso, abusare, sprecare o inquinare
i sistemi di circolazione dell'acqua. I permessi di inquinamento
commerciabili violano il principio dell'uso equo e sostenibile.
9. L'acqua non e' sostituibile
L'acqua e' intrinsecamente diversa da altre risorse e prodotti. Non puo'
essere trattata come una merce.

7. RIFLESSIONE. FRANCESCO PICCIONI INTERVISTA JEAN ZIEGLER
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 27 marzo 2003. Jean Ziegler e' un
illustre sociologo da sempre impegnato per i diritti umani; in una scheda
annessa all'intervista, l'intervistatore cosi' presenta Ziegler e il suo
ultimo libro (in relazione alla cui presentazione Ziegler era in italia nei
giorni scorsi): "Autore di testi fortunati come La Svizzera lava piu' bianco
(1990), in cui denunciava la prassi disinvolta delle banche del suo paese
nel trattare i capitali di incerta origine, o La Svizzera, l'oro e i morti
(1998), sull'oro degli ebrei sequestrato dai nazisti e finito nei forzieri
della Confederazione, Jean Ziegler e' in questi giorni a Roma per presentare
la sua ultima fatica: La privatizzazione del mondo (Marco Tropea, pp. 316,
euro 15,50). Relatore speciale dell'Onu per il diritto all'alimentazione,
poliglotta (durante la trasmissione televisiva "Ballaro'" ha contestato in
diretta la traduttrice che gli "ammorbidiva" le espressioni piu' dure contro
l'amministrazione Bush), Ziegler illustra soggetti e tecniche della
"privatizzazione del mondo". Punta il dito sui "predatori" (i relativamente
pochi che manovrano il "capitale globalizzato"), portando a riprova della
loro voracita' senza limiti (tanto meno etici) le loro stesse dichiarazioni,
i loro atti, il loro modo d'agire nei quattro angoli del mondo. Al punto da
citare una vecchia definizione di Leon Bloy: "Il ricco e' un bruto
inesorabile che si e' costretti a fermare con un falce o una scarica di
mitraglia nel ventre". Ma non risparmia neppure i "mercenari", ossia la
"macchina da guerra" del Wto, la Banca mondiale, il Fondo monetario
internazionale (vero "piromane" dei paesi periferici - come l'Argentina -
che costringe a politiche interne suicide). Puo' sembrare curiosa, questa
definizione degli organismi generalmente ritenuti "potenti", ma se si tiene
conto che il Wto - per esempio - ha avuto nel 2002 un budget di 82 milioni
di dollari, con appena 350 persone che vi lavorano a tempo pieno, si puo'
cominciare a capire come il "potere vero" stia forse in altre stanze. Un
mondo di pazzi per il profitto in cui c'e' soltanto una speranza: la
possibile nascita di una "societa' civile planetaria", che sappia far vivere
concretamente un "principio di generosita'", contrastando agli "oligarchi"
palmo a palmo il terreno del consenso nella coscienza dei cittadini del
mondo. Un profilo che sembra ritagliato sulle caratteristiche salienti fin
qui mostrate dal "movimento dei movimenti". Che e' giovane, eterogeneo,
fragile e romantico. Ma e' anche l'unica speranza che abbia avuto la forza,
di nuovo, di presentarsi al mondo"]
"Il punto fondamentale e' questo: 'la mano invisibile del mercato non
funzionera' mai senza un pugno visibile. E il pugno visibile che garantisce
la sicurezza mondiale della tecnologia della Silicon Valley si chiama
esercito, aviazione, forza navale e corpo dei marines degli Stati Uniti'".
L'intervista a Jean Ziegler - sociologo, cittadino svizzero davvero atipico,
dall'eloquio torrenziale e assai poco attento agli stilemi del politically
correct - comincia con una citazione di Thomas Friedman, a suo tempo
consigliere speciale di Madeleine Albright, segretario di stato con Bill
Clinton. Un "falco" democratico, insomma, che teorizzava gia' nel '99, sul
"New York Times Magazine", quel che poi George Bush ha tradotto in pratica.
D'altronde, la tesi fondamentale di Ziegler e' che le "oligarchie" -
finanziarie e industriali - impongono le regole all'economia mondiale,
distruggendo gli stati a partire dalla possibilita' stessa di impostare una
politica economica che risponda agli interessi di un singolo paese, della
sua specificita'. Tesi sostenuta, con accenti diversi, anche da Juergen
Habermas e Ralf Dahrendorf, ma che Ziegler drammatizza evidenziando come
questa "distruzione" trascini con se' i fondamenti della modernita'
occidentale: il principio di sovranita', la legittimazione democratica delle
leadership, le regole valide erga omnes, i principi dello stato di diritto.
La liberta' individuale e l'autodeterminazione dei popoli, insomma.
- Francesco Piccioni: Partiamo proprio da qui, dai "capitali finanziari
senza patria" che destrutturano lo "stato-nazione".
- Jean Ziegler: Ho incontrato Lula, in Brasile. Un personaggio
straordinario, un vero leader popolare, eletto con una maggioranza
altrettanto straordinaria (oltre il 67%). Ha posto come priorita' del suo
governo la lotta alla fame che affligge 44 milioni di cittadini. Ma il
debito estero del Brasile equivale alla meta' del suo prodotto interno
lordo. Le possibilita' di manovra, per Lula, sono estremamente esigue. E la
stessa cosa si puo' dire di tutti i governi del mondo, anche se i paesi piu'
avanzati hanno naturalmente piu' possibilita' di autonomia rispetto a quelli
poveri. Ma tutti vivono in un ambiente in cui si guarda all'andamento delle
borse e dei mercati finanziari per capire quant'e' grande, giorno dopo
giorno, il loro margine di manovra. Alle oligarchie non interessa se il
sindaco di Roma e' Veltroni o qualcun altro, perche' sono loro a stabilire
fin dove potra' agire.
- F. P.: Ma se i governi - nazionali o locali - non possono determinare una
politica indipendente, cosa accade?
- J. Z.: Vengono progressivamente abolite le norme vincolanti, si allentano
i legami sociali e si polarizza verso gli estremi l'articolazione della
societa'. Alla concentrazione di potere e ricchezza nelle mani di pochi si
oppone la poverta' estrema di folle sterminate, impegnate solo nella ricerca
dei mezzi per la sopravvivenza, e al cui interno si rompono tutti i legami
di solidarieta'. In certe megalopoli del terzo mondo perdono stabilita'
persino i rapporti familiari, e si moltiplicano i "ragazzi di strada". Ma
secondo Wolfensohn e gli altri grandi capi del Wto e del Fmi questa
progressiva abolizione delle "restrizioni legali" al libero movimento dei
capitali serve a instaurare la stateless global governance, il mercato
globale autoregolato, senza piu' bisogno dello Stato. Dopo di che, dicono,
in virtu' del cosiddetto triple down effect, dell'"effetto a cascata", ci
sara' una redistribuzione del reddito tale da cancellare per sempre miseria
e disugualianze.
- F. P.: La "mano invisibile" del mercato secondo l'ideologia liberista.
- J. Z.: E' ideologia, appunto. Il problema e' che questo "effetto", come
dice anche Richard Sennett, vive solo come un'attesa messianica, ma non si
verifichera' mai. E' l'ideologia dei signori. E funziona, bisogna ammettere
che funziona. Si e' appropriata del mondo e lo fa andare secondo le proprie
regole. Ma per affermarsi ha bisogno del "pugno visibile", ossia della
potenza militare americana.
- F. P.: Ma questo implica che la guerra diventi "permanente".
- J. Z.: E' quello che sta avvenendo. La globalizzazione, del resto, non e'
affatto un processo pacifico. Basta pensare alla definizione di
"globalizzazione" che ha dato Percy Barnevick, alla testa di un impero della
metallurgia e dell'elettronica: "E' la liberta', per il mio gruppo, di
investire dove vuole, per il tempo che vuole, per produrre cio' che vuole,
approvvigionandosi e vendendo dove vuole e dovendo sottostare al minimo di
restrizioni possibile in materia di diritto del lavoro e di accordi
sociali". E' un'idea che vede nelle volonta' altrui soltanto un ostacolo per
la propria. Dei nemici, insomma.
- F. P.: La guerra in atto contro l'Iraq e' come le altre del passato o ha
caratteristiche tutte nuove?
- J. Z.: E' una rottura completa di tutto l'assetto che ha retto il
dopoguerra. La teorizzazione e la pratica della "guerra preventiva"
distrugge la funzione stessa dell'Onu. In questo modo ogni malfattore
potrebbe dire a sua volta "mi sento minacciato e quindi scateno una guerra",
invocando lo stesso principio. Ma la cosa piu' grave e' la rottura del
diritto internazionale, ossia di quel fragile equilibrio che fin qui ha
assicurato la salvezza del nostro pianeta.
- F. P.: Nemici, in questa teoria, diventano anche i sindacati e in genere i
rappresentanti di interessi diversi da quelli delle oligarchie.
- J. Z.: Certo. E anche tutti i movimenti che in questi anni si stanno
sviluppando, con una ricchezza di idee e una capacita' di rinnovamento
culturale veramente notevole. Ma le oligarchie non se ne curano affatto. Il
loro scopo e' semplicemente quello di massimizzare i profitti nel minor
tempo possibile. Per loro le legislazioni nazionali sui diritti dei
lavoratori sono soltanto ostacoli alla propria liberta' d'impresa. A loro
non importa se, come conseguenza della loro capacita' di arricchimento, ci
saranno conseguenze disastrose. In dieci anni, dal '90 al 2000, gli esseri
umani che vivono in poverta' assoluta sono aumentati. 100.000 persone
muoiono ogni giorno di fame, un bambino ogni 7 secondi. Ma i patrimoni
personali dei piu' ricchi, nello stesso periodo, sono cresciuti come mai
prima.
- F. P.: Lei ha dedicato il suo ultimo libro, tra gli altri, a Carlo
Giuliani, il ragazzo ucciso a Genova nel 2001. Quale ruolo possono avere i
movimenti?
- J. Z.: Le manifestazioni contro la guerra, i tre milioni di persone a
Roma, il milione a Londra e a Madrid, le decine di milioni in tutto il
mondo, hanno un'enorme importanza per il futuro del mondo. Disegnano la
prospettiva di un mondo multipolare contrapposto al tentativo di creare un
"impero americano"; un mondo regolato democraticamente, non dalla legge del
piu' forte. E l'emancipazione rispetto agli Usa e' la condizione perche'
l'Onu possa riprendere la via della civilta' e del diritto.
- F. P.: I movimenti hanno la possibilita' di fermare le oligarchie, di
batterle?
- J. Z.: E' difficile, e' molto difficile. C'e' sempre stata la speranza
romantica che il mondo, la storia, comunque va in avanti. A Porto Alegre,
per esempio, ne ho discusso con Chomsky, che sostiene che questa e' solo una
particolare fase del capitalismo. Ma io penso che ci troviamo davanti alla
possibilita' di un vero e proprio punto di rottura nella civilta' che
conosciamo. E' accaduto altre volte, nella storia. E' un rischio vero. Il
mio amico Regis Debray, addirittura, dice spesso che "dobbiamo prepararci a
tornare nelle catacombe".

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it

Numero 552 del 31 marzo 2003