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Venezuela: un Paese sull’orlo della crisi di nervi
- Subject: Venezuela: un Paese sull’orlo della crisi di nervi
- From: latta at free.fr (by way of Carlo Gubitosa <c.gubitosa at peacelink.it>)
- Date: Fri, 21 Mar 2003 14:54:50 +0100
Venezuela: un Paese sull’orlo della crisi di nervi DI Paola VallattaIl collasso sembra avvicinarsi: il Venezuela, messo in ginocchio dallo sciopero generale che ha paralizzato il paese per due mesi tra dicembre e febbraio, sta peggio di come ci si potesse aspettare. L’11 marzo il Banco Provincial, filiale venezuelana della spagnola Bbva (Banco Bilba Vizcaya Argentaria), ha fatto tremare i mercati con le sue previsioni: il Pil venezuelano subirà, secondo i suoi analisti, una contrazione record, pari al -42%, nel primo trimestre 2003. Anche se una flebile speranza sembra venire, paradossalmente, dagli Stati Uniti: l’ambasciatore americano a Caracas, Charles Shapiro, all’inizio di marzo aveva infatti sottolineato l’importante ruolo giocato dal Venezuela, uno dei principali fornitori di petrolio degli Usa insieme all’Arabia Saudita e al Messico, in caso di guerra contro l’Iraq. Un “conflitto generale nel Golfo implicherà problemi di approvvigionamento di petrolio e il Venezuela gioca un ruolo in tutto questo, dunque, certo, il Venezuela è importante” aveva dichiarato dopo essersi intrattenuto con il vice-presidente venezuelano José Vicente Rangel. Importante, forse, ma lacerato: il Paese è diviso tra chi odia il presidente Hugo Chavez e lo considera il responsabile di tutti i mali, e chi vede in lui e nella sua rivoluzione bolivariana l’unica possibilità per uscire dalla miseria. La frattura viene da lontano e lo squarcio sembra difficile da ricucire. “Chavista al 100%” si legge, per esempio, sul finestrino posteriore di un’auto in coda in uno strombazzante corteo che, tra bandiere del Venezuela e cappellini da basket, festeggia la presenza in città, cioè a Maracay, del presidente Chavez, di solito di stanza a Caracas. “Propaganda”, liquida un antichavista, di origine italiana, che lavora nell’industria petrolifera, “Chavez se ne deve andare. Ma vedrete, vedrete, a settembre lo manderemo via. Per forza. Così non si può più lavorare”. A settembre, per la verità, il fuoco covava ancora sotto la cenere e la situazione stagnava, ma appena tre mesi dopo, precisamente il 2 dicembre 2002, l’opposizione antichavista, un insieme composito di formazioni che comprende la confederazione degli industriali Fedecamaras, i sindacalisti della Confederación de trabajadores de Venezuela (Ctv) e la Coordinación Democrática (Cd), che a sua volta raggruppa una ventina di partiti di destra e di sinistra e diverse organizzazioni civili, indiceva lo sciopero generale (il quarto dal dicembre 2001). Per due mesi, mentre si raccoglievano centinaia di migliaia di firme per chiedere le dimissioni di Chavez, tra scontri e manifestazioni di piazza, durante le quali ci furono morti e feriti da entrambe le parti, gli oppositori riuscirono a bloccare l’industria petrolifera (molti dirigenti e funzionari della holding pubblica Petroleos de Venezuela, Pdvsa, si erano alleati ai manifestanti), che da sola rappresenta quasi il 30% del Pil venezuelano e, attraverso le tasse, oltre la metà delle entrate statali. Lo sciopero, durato 64 giorni, ha messo a dura prova l’economia del paese, ma non ha ottenuto le dimissioni del capo dello Stato. Oggi Chavez è sempre il presidente del Venezuela e il 13 marzo ha annunciato che si va verso il superamento della crisi dell’industria petrolifera. La produzione, crollata nel periodo dicembre-febbraio fino al livello minimo di 150 mila barili al giorno, è infatti tornata alla normalità: 2,9 milioni di barili al giorno. La Pdvsa ha raggiunto nuovamente il suo normale livello di produzione a dispetto del licenziamento dei quasi 16 mila dipendenti (su 38 mila) che avevano appoggiato lo sciopero contro la decisione del Tribunale supremo di giustizia del 19 gennaio che ordinava la ripresa delle attività. Intanto, tra i capi dell’opposizione, Carlos Fernandez, presidente della Federcamas, è in attesa di processo per “ribellione civile e incitazione alla delinquenza”, mentre il presidente della Ctv, Carlos Ortega, ricercato dalle autorità con le stesse motivazioni per l’azione nel corso dello sciopero generale, ha appena ottenuto l’asilo diplomatico all’ambasciata del Costa Rica. Facciamo allora un passo indietro. Chavez, che finì in prigione fino al 1994 per un tentato golpe nel ‘92, fu regolarmente eletto alla presidenza del Venezuela nel 1998 e confermato il 31 luglio 2001 con oltre il 59% dei voti. Tra un mandato e l’altro, precisamente nel dicembre 2000, il presidente ha promulgato un cambiamento della Costituzione, poi ratificato con un referendum, che ha abolito il Senato, esteso il mandato presidenziale da cinque a sei anni e permesso la rielezione di un presidente in carica. La nuova costituzione ha anche cambiato il nome ufficiale del Paese in Repubblica bolivariana del Venezuela in onore dell'eroe dell'indipendenza sudamericana Simon Bolivar. A meno di sei mesi dalla confermazione, Chavez si è trovato ad affrontare il primo sciopero generale (dicembre 2001) che aveva l’appoggio del sindacato, delle banche e dei media. Poi l’11 aprile 2002, dopo la proclamazione di un altro sciopero generale da parte della Ctv (300 mila persone in piazza e dieci morti), sono seguiti scontri a Caracas e il primo, chiaro, tentativo di golpe. Pedro Cardona, presidente degli industriali, viene allora proclamato capo del governo, ma per essere destituito meno di 48 ore dopo, quando Chavez torna a occupare il proprio posto al palazzo presidenziale di Miraflores, acclamato da migliaia di persone. Eppure guai a dire che il popolo è con Chavez. I giornali giurano che il suo consenso è crollato al 30%, mentre c’è chi fa sottili distinguo tra popolo e popolo, tra le “orde chaviste” o i “lumpen”, la plebaglia, come vengono spesso apostrofati i bolivariani in Tv o sulla stampa da una parte, e il popolo democratico dell’opposizione antichavista dall’altra. Manca poco che l’opposizione democratica si metta a citare Mario Vargas Llosa: “Il popolo ama i dittatori”. Forse perché Chavez è stato eletto regolarmente e, soprattutto, perché è difficile poterlo accusare di soffocare il dissenso: tutti i media venezuelani sostengono, quando non istigano, l’opposizione. E qui sta il punto. Di recente, è vero, è stata aperta una “procedura d’inchiesta amministrativa” nei confronti delle principali televisioni private venezuelane, cioè RCTV, Globovision, Televen et Venevision, attraverso la quale si potrebbe arrivare a una sospensione delle licenze. Ma, per citare un documentatissimo articolo apparso nell’agosto scorso su “Le Monde diplomatique”: “mai nella storia dell’America latina, la partecipazione dei mezzi di informazione a un colpo di Stato era stata così diretta. Dal momento che dispongono del 95% delle frequenze radio e Tv ed esercitano un quasi-monopolio sulla stampa scritta, questi ‘media dell’odio’ hanno giocato, in Venezuela, un ruolo maggiore nella preparazione e nell’esecuzione del tentativo di rovesciamento del presidente legittimo Hugo Chavez, l’11 aprile 2002”.
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