La nonviolenza e' in cammino. 537



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 537 del 16 marzo 2003

Sommario di questo numero:
1. Edoarda Masi ricorda Ruth Leiser Fortini
2. Ali Rashid ricorda Ruth Leiser Fortini
3. Maria G. Di Rienzo, la democrazia e il petrolio sono antitetici?
4. Jean Marie Muller, momenti e metodi dell'azione nonviolenta (parte prima)
5. Mani tese: i costi della guerra e i costi dello sviluppo
6. Letture: Giorgio Bocca, Piccolo Cesare
7. Riletture: Gregory Bateson, Mary Catherine Bateson, Dove gli angeli
esitano
8. La "Carta" del Movimento Nonviolento
9. Per saperne di piu'

1. LUTTI. EDOARDA MASI RICORDA RUTH LEISER FORTINI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 15 marzo 2003. Edoarda Masi e' nata a
Roma nel 1927, bibliotecaria nelle biblioteche nazionali di Firenze, Roma e
Milano, ha insegnato letteratura cinese nell'Istituto Universitario
Orientale di Napoli; ha vissuto a Pechino e a Shangai, dove ha insegnato
lingua italiana all'Istituto Universitario di Lingue Straniere. Ha
collaborato a numerose riviste, italiane e straniere, tra cui "Quaderni
rossi", "Quaderni piacentini", "Kursbuch", "Les temps modernes".
Intellettuale della sinistra critica, di straordinaria lucidita'. Opere di
Edoarda Masi: La contestazione cinese, Torino 1968; Per la Cina, Milano
1978; Breve storia della Cina contemporanea, Bari 1979; Il libro da
nascondere, Casale Monferrato 1985; Cento trame di capolavori della
letteratura cinese, Milano 1991. Tra le sue traduzioni dal cinese in
italiano: una raccolta di saggi di Lu Xun, La falsa liberta', Torino; e
Confucio, I dialoghi, Milano. Ruth Leiser Fortini, intellettuale, terapeuta,
militante per i diritti umani e la liberazione dei popoli, e' stata anche la
compagna di vita, di scelte morali, di lotte politiche e di lavoro
intellettuale di Franco Fortini]
A ogni sia pur debole tentativo di difesa del secolo trascorso (diciamo
meglio: i cento anni fra i settanta del XIX e i settanta del XX) Ruth
rispondeva con decisione: no, e' stata un'epoca orribile, di sangue e di
massacri insensati. Eppure al secolo di speranza e di liberazione,
attraverso e contro il sangue sparso e i massacri, ella e' appartenuta per
intero.
La Ruth degli anni recenti con quella condanna categorica ci diceva la
disperazione di quanti si sono identificati in quei cento anni (percorsi in
parte dai genitori) quando si e' visto distruggere la speranza e annientare
la liberazione - il senso stesso delle vite nostre e di milioni e milioni di
donne e uomini. La diceva senza aggiungere fronzoli, con l'immediatezza e la
semplicita' che erano sue.
Cosi' come con immediatezza e semplicita' proclamava il disprezzo per i
politicanti italiani - aggiungendo subito dopo: ma gli italiani sono un
popolo meraviglioso. Un popolo che ha saputo amare pur senza mai rinnegare
le sue origini svizzere; quando vecchia, dopo la morte del marito Franco
Fortini, avrebbe potuto ritornare nel proprio paese, ha scelto di restare in
Italia, nella sua casa di Milano.
Con immediatezza e semplicita' proclamava il suo laicismo: una volta che,
forse per scherzo e un po' per gusto del paradosso, in un incontro
conviviale con alti prelati milanesi Franco disse: "Mia moglie sostiene che
Gesu' non e' Dio", lei confermo' senza scomporsi: "Certo, e' stato una
personalita' di immensa grandezza, ma non certo Dio". Chiunque l'ha
conosciuta sa con quanta franchezza - e coraggio - sapesse dire a ciascuno
quello che gli spettava, nelle cose piccole e nelle grandi. Ma non si
confonda questa franchezza con la "semplicita'" dell'incolto.
Dai genitori modesti artigiani socialdemocratici, dalla Zurigo centro
internazionale di cultura durante la guerra, dal colloquio ininterrotto col
marito - uno dei pochissimi intellettuali italiani di statura europea - ha
tratto gli elementi per la sua formazione di donna libera e spregiudicata:
lontanissima dal provincialismo di tante donne italiane di sfera colta e
magari femminista, vera cittadina del mondo, capace di parlare e scrivere
cinque lingue, ha saputo coltivare pure una propria sfera indipendente di
rapporti e di conoscenze e ha inventato un proprio lavoro di terapeuta,
oltre quello di traduttrice in collaborazione col marito.
Ad alcune, quasi sue coetanee, poteva apparire troppo rigidamente legata a
principi etici tradizionali, quasi appartenesse a una generazione
precedente. In realta' essa era ben stretta ai precetti di morale e di
civismo di eredita' a un tempo illuministica e romantica, di tradizione
anche ottocentesca. Gliene veniva una forza, una capacita' di fedelta' e di
costanza sconosciute ai molti che nell'ultimo trentennio considerano cosa
naturale, per esempio, il passaggio dall'una all'altra formazione politica
di opposto colore. Al di la' della disperazione, fedelta' e costanza l'hanno
vista impegnata nei suoi ultimi anni in una delle ultime lotte per la
speranza e la liberazione, quella dei palestinesi per la loro terra.

2. LUTTI. ALI RASHID RICORDA RUTH LEISER FORTINI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 15 marzo 2003. Ali Rashid e' il primo
segretario della delegazione palestinese in Italia. Fine intellettuale di
profonda cultura, conoscitore minuzioso degli aspetti storici, politici,
economici e culturali della situazione nell'area mediorientale, esperto di
questioni internazionali, ed anche acuto osservatore della vita italiana. E'
figura di grande autorevolezza per rigore intellettuale e morale, ed e' una
delle piu' qualificate voci della grande tradizione culturale laica
palestinese. Suoi scritti appaiono sovente nel nostro paese sui principali
quotidiani democratici e sulle maggiori riviste di cultura e politica]
Ruth Leiser Fortini se n'e' andata mercoledi', faticosamente, dopo un lungo
commiato da un corpo stremato che non rendeva giustizia alla sua anima
giovane e combattiva.
Era una piccola donna il cui coraggio smisurato riusciva ancora a stupire
Franco Fortini, suo marito, dopo tanti anni di ritratti e scritti a lei
dedicati e di passione militante con lei condivisa.
Nemica implacabile della disonesta' intellettuale, soffriva assistendo al
generale deterioramento della cultura, alla progressiva banalizzazione dei
diritti fondamentali dell'uomo, a un'informazione che non si da' nemmeno
piu' la pena di creare delle menzogne per nascondere la verita'.
Soffriva per tutte le ingiustizie del mondo, tutte, grandi o piccole che
fossero. E tra le grandi ingiustizie del mondo di oggi, nessuna faceva male
a Ruth piu' della sofferenza del popolo palestinese, assurda e devastante
come l'olocausto del popolo ebraico, che l'aveva toccata cosi' da vicino
negli anni della guerra.
Durante i nostri incontri, spesso amava ricordare qualche aneddoto legato a
un piccolo porto nascosto alla foce di un fiume che separa la Liguria e la
Toscana, alle bagnarole arrugginite che da qui sono salpate per la Terra
Promessa, cariche di profughi ebrei, ma in quella terra non sono mai
arrivate. Ed e' proprio vicino a quel porto di dolore e di speranza che Ruth
ha voluto essere seppellita, per finire il suo viaggio in un luogo della
memoria, collettiva e individuale, e diventarne in qualche modo testimone.
Ruth credeva nell'impegno individuale e non aveva paura di farsi carico
personalmente di pesi onerosi come le grandi questioni morali del nostro
tempo, prima fra tutte la Palestina, non delegava la lotta, lottava con noi.
E come noi credeva nell'importanza di difendere la cultura palestinese, di
aiutarla a crescere sulle sue radici millenarie, di non permettere che
l'umiliazione dell'occupazione la inquini e la impoverisca fino ad
annullarla. Come noi credeva che fosse importante sostenere il popolo
palestinese nella sua lotta per la vita attraverso iniziative di
solidarieta' diretta e concreta, ma anche restituire alla gente, soprattutto
ai giovani, gli strumenti per vincere l'isolamento e le aberrazioni imposte
dall'orrore e dalla disperazione.
Per questo ha voluto con grande forza e determinazione il progetto di
ricostruzione del centro culturale e ricreativo per i ragazzi del campo di
Jenin, il centro "Franco Fortini", per questo legheremo il suo nome agli
altri progetti che permetteranno a piu' di cento bambini del campo di avere
altrettante famiglie adottive in Italia e a un gruppo di donne di Jenin,
riunite in una cooperativa, di cuocere il pane per tutta la gente del campo.
Ruth e' ancora con noi, restera' con noi, a resistere alla morte con
progetti di vita, a rispondere alla devastazione con la ricostruzione, a
lottare contro l'annichilimento con la creativita', strappando i ragazzi di
Jenin alla cultura dell'odio e della vendetta per portarli in uno spazio
dove sia ancora possibile parlare di verita', di pace e, forse domani, di
riconciliazione.

3. RIFLESSIONE. MARIA G. DI RIENZO: LA DEMOCRAZIA E IL PETROLIO SONO
ANTITETICI?
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
questo intervento. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici
di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista,
giornalista, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto
rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento
di Storia Economica dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel
movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta'
e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza]
I cinque paesi con le maggiori riserve di petrolio sono gli Emirati Arabi
Uniti, l'Iran, il Kuwait, l'Iraq e l'Arabia Saudita. Nessuno dei loro
governi puo' essere definito "democratico".
Dieci dei ventuno paesi al mondo in cui il rispetto dei diritti umani e'
fortemente mancante sono produttori di petrolio; solo otto non sono
significativi per l'industria petrolifera internazionale.
Gli oligarchi del petrolio includono personaggi molto diversi dal punto di
vista ideologico, dal Sultano del Brunei alla nomenclatura post-comunista
del Kazakhistan. Poiche' crea diseguaglianza, il petrolio incoraggia
ideologie antidemocratiche (nazionalismo secolare o estremismo religioso)
anche in aperto contrasto fra loro, il cui sogno comune e' pero'
l'acquisizione della ricchezza relativa al petrolio stesso. L'oligarchia
petrolifera caratterizza sia il possesso nazionalizzato che quello privato.
La nazionalizzazione del petrolio non ha mai aumentato i benefici sociali,
ne' ridotto il danno ambientale provocato dalle estrazioni.
Gli oligarchi del petrolio sono flessibili rispetto alla questione del
possesso pubblico o privato delle riserve, ma non rispetto alle questioni
ambientali, specialmente quando gli ambientalisti e l'opposizione
democratica formano un'alleanza. Prevedibilmente, essi si oppongono
all'emergere della democrazia nei paesi produttori di petrolio, perche' il
movimento ecologista all'interno di un sistema democratico ha maggiori
possibilita' di contrastare con successo i loro interessi. Un parlamentare
eletto e' comunque ritenuto responsabile dai suoi elettori preoccupati per
l'ambiente, che possono esercitare pressioni, ritirare il proprio sostegno,
ecc., ma gli oligarchi del petrolio devono preoccuparsi solo del controllo
delle riserve, le sorgenti da cui sgorgano i loro proventi ed i fondi
necessari a mantenere dispendiosi apparati di sicurezza: percio' sostengono
uno sviluppo economico insostenibile, misurato sugli eserciti, gli armamenti
e su una ristretta elite di ricchi. Le compagnie petrolifere si uniscono a
loro incoraggiando il consumo di petrolio, vagheggiando un'automobile
produttrice di scarichi inquinanti per ciascun abitante del pianeta.
L'"indice di sviluppo umano" proposto dall'Onu, che si basa non solo sulla
ricchezza economica dei paesi, ma anche sull'aspettativa di vita, la
mortalita' infantile, la possibilita' di accesso all'istruzione e le misure
per l'eliminazione della poverta', mostra la scarsa riuscita degli oligarchi
del petrolio: i loro paesi sono fra le 25 nazioni piu' ricche, ma
precipitano agli ultimi posti per quanto riguarda l'assistenza medica,
l'istruzione, la cura dei bambini.
Sostenendo dittature petrolifere, le multinazionali perpetuano anche
condizioni oppressive per le donne: i livelli piu' bassi di scolarizzazione
femminile si trovano in paesi diretti dagli oligarchi del petrolio o dove le
fazioni al potere sono strettamente legate al sostegno militare. Nella
Nigeria del nord, il boom del petrolio ha aumentato, anziche' diminuire, la
miseria della regione salvo che per un ristrettissimo gruppo elitario:
l'aspettativa di vita, per un uomo del luogo, e' di 46 anni; per una donna
e' di 36, soprattutto a causa dell'alta mortalita' di madri adolescenti.
L'economia basata sul petrolio spende incomparabilmente di piu' per
l'apparato militare che per servizi sanitari o educativi. La Corea del Nord
e', in percentuale rispetto al proprio prodotto interno lordo, l'attuale
campione mondiale della spesa militare (ed ha alle spalle in questo processo
gli Usa che tramite il gruppo Carlyle, in cui i Bush padre e figlio hanno
pesanti interessi, controllano in loco la KorAm Bank e la compagnia di
telecomunicazioni Mercury). L'Iran ha un'alleanza con la Cina per il proprio
programma nucleare e dal 1989 ha comprato armi cinesi per oltre un miliardo
di dollari. L'Iran ha anche un programma militare in accordo con la Corea
del Nord per la produzione di missili. La spesa militare cresce
esponenzialmente nelle zone delle dittature petrolifere (Golfo Persico, Mar
Caspio) e decresce ogni qualvolta un processo di transizione verso la
democrazia si completi.
La compravendita d'armi e' il sostegno del sistema automotivato basato sul
petrolio: un sistema distruttivo per l'ambiente, antidemocratico,
liberticida. La ricchezza derivata dal petrolio viene trasferita ai
commercianti d'armi europei e statunitensi, e cosi' si incoraggia il consumo
dei combustibili fossili, si incrementa la distruzione di ozono, aumenta
l'inquinamento derivato dalla produzione e dall'uso di armi.
Le dittature del petrolio creano le condizioni per guerre civili, reprimono
movimenti ecologisti e pacifisti, esaltano nazionalismi e fondamentalismi,
promuovono consumi non necessari e dannosi. Il possesso delle riserve di
petrolio e' oggi la "causa prima" non solo della minaccia di guerra
all'Iraq, ma di altre guerre in corso.
Il dominio del petrolio e' ovviamente piu' facile da rovesciare ove non vi
siano pressanti interessi ad esso relativi: l'Olanda, che non ha
un'industria automobilistica, puo' essere la terra delle biciclette pio'
agevolmente di Detroit. Un investimento sul riscaldamento a pannelli solari
ha piu' probabilita' di "passare" in un paese non produttore di petrolio che
a Dallas.
E tuttavia solo la sottrazione del nostro consenso, l'insistenza su processi
trasparenti, di democrazia diretta, puo' liberarci da questo dominio.
Vogliamo sapere, e vogliamo scegliere.

4. MATERIALI. JEAN MARIE MULLER: MOMENTI E METODI DELL'AZIONE NONVIOLENTA
(PARTE PRIMA)
[Riproponiamo ancora una volta la prima parte del testo di un opuscolo edito
dal Movimento nonviolento che a sua volta riproduceva anastaticamente un
capitolo di una piu' ampia opera. L'opuscolo e': Jean Marie Muller, Momenti
e metodi dell'azione nonviolenta, Edizioni del Movimento Nonviolento, s. i.
l. 1981; il libro e' Jean Marie Muller, Strategia dell'azione nonviolenta,
Marsilio, Venezia-Padova 1975 (il capitolo e' il settimo, alle pp. 73-99).
Noi riproduciamo qui il testo di Muller senza le note dell'autore e senza la
presentazione del traduttore Matteo Soccio (uno dei maggiori studiosi ed
amici della nonviolenza in Italia), rinviando per la lettura del testo
integrale all'acquisto dell'opuscolo, disponibile presso il Movimento
nonviolento, via Spagna 8, 37123 Verona, tel. 0458009803, fax 0458009212,
e-mail: azionenonviolenta at sis.it. Jean Marie Muller e' nato nel 1939 a
Vesoul in Francia, docente, ricercatore, e' tra i più importanti studiosi
del pacifismo e delle alternative nonviolente, oltre che attivo militante
nonviolento e fondatore del  MAN (Mouvement pour une Alternative
Non-violente). Opere di Jean-Marie Muller: Strategia della nonviolenza,
Marsilio, Venezia 1975; Il vangelo della nonviolenza, Lanterna, Genova 1977;
Significato della nonviolenza, Movimento Nonviolento, Torino 1980; Metodi e
momenti dell'azione nonviolenta, Movimento Nonviolento, Perugia 1981;
Lessico della nonviolenza, Satyagraha, Torino 1992; Simone Weil. L'esigenza
della nonviolenza, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1994; Le principe de
non-violence. Parcours philosophique, Desclee de Brouwer, Paris 1995;
Vincere la guerra, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1999. Ovviamente, ed i
nostri lettori abituali lo sanno, essendo la nonviolenza un campo di
ricerche, di riflessioni ed esperienze di straordinaria ampiezza ed
apertura, le tesi di Muller costituiscono uno degli approcci possibili,
altri autori propongono definizioni e percezioni della nonviolenza anche
assai differenziate e su taluni punti fin confliggenti rispetto alle
formulazioni proposte da Muller]
In questo capitolo vorremmo precisare quali sono i diversi momenti di una
campagna di azione nonviolenta tipo, e quali sono le modalita' di ognuno di
questi momenti. Anche se non abbiamo intenzione di dare delle ricette che
basterebbe applicare alla lettera in ogni situazione per raggiungere il
successo, non ci sembra inutile riunire gli insegnamenti tratti dalle azioni
compiute in passato e classificarli secondo un ordine che risponde a una
certa logica. Non si rende sterile l'immaginazione se le offriamo uno schema
in cui essa, come ci ha dimostrato l'esperienza, abbia le maggiori
possibilita' di esercitarsi utilmente. Se anche queste indicazioni non ci
garantissero il successo dell'azione, esse almeno dovrebbero evitarci
numerosi errori che ci assicurerebbero il fallimento.

1. Analisi della situazione
E' essenziale che prima di decidere l'azione si abbia una conoscenza esatta
della situazione in cui s'inserisce quell'ingiustizia che si vuole
denunciare e combattere. Se i responsabili dell'azione dimostrassero di non
essere sufficientemente a conoscenza dei fatti, cio' discrediterebbe
gravemente il movimento. Inoltre, e' molto importante esprimere sui fatti un
giudizio razionale e coerente che miri alla maggiore obiettivita' possibile.
Sappiamo quanto grande sia la tentazione d'ingigantire i fatti e di
esagerarne la gravita', nella presentazione che ne viene data, fino al punto
di rendere ridicola la posizione dell'avversario. Credere pero' che questo
stratagemma possa avere una qualche efficacia e' un'illusione. Al contrario,
sara' allora facile all'avversario far valere, servendosi di argomenti
convincenti, l'aspetto esagerato delle accuse mosse contro di lui, e dare
cosi' l'apparenza di potersi giustificare totalmente. Invece la conoscenza
rigorosa dei fatti e la loro esatta presentazione costituiscono una carta
vincente per la posizione dei responsabili del movimento. La possibilita' di
giustificare ogni volta, con prove alla mano, le affermazioni addotte e' un
elemento di prim'ordine nel rapporto di forze che si va creando tra gli
avversari.
Si tratta percio' di fare un'inchiesta e di preparare un dossier sui fatti
per essere sicuri della fondatezza di tutte le informazioni ricevute sui
motivi delle lamentele sollevate e tener conto solo di quelle che hanno
potuto essere verificate. In questo lavoro, non e' sufficiente limitarsi ai
fatti: e' importante capirli al fine di sapere come e perche' l'ingiustizia
si e' manifestata e si e' mantenuta. Conviene in particolare conoscere quali
sono le forze sociali, politiche ed economiche implicate nella situazione,
quali sono gli atteggiamenti pratici delle parti in gioco e quali le
giustificazioni teoriche che ne vengono date. E' importante analizzare la
struttura di potere che predomina nelle relazioni tra le diverse parti allo
scopo di individuare chi detiene il potere di decisione. Inoltre, e'
opportuno sapere cosa dice la legge a proposito delle controversie che
oppongono le parti in causa. A questo proposito non si potra' fare a meno di
consultare un giurista competente.
Quest'analisi deve permetterci di fare con cognizione di causa una scelta
politica con cui si potra' decidere quali saranno i nostri alleati e quali i
nostri avversari nel conflitto in corso.

2. Scelta dell'obiettivo
In base all'analisi della situazione, si dovra' scegliere l'obiettivo da
raggiungere attraverso l'azione. La scelta dell'obiettivo e' essenziale
poiche' da essa soltanto puo' dipendere la riuscita o l'insuccesso del
movimento. Converra' scegliere un obiettivo preciso, limitato e possibile.
Nella scelta di questo obiettivo bisognera' tenere conto dei diritti
dell'avversario e fare in modo - per quanto e' possibile - che egli non
debba perdere la faccia nell'accettare le rivendicazioni che gli sono state
fatte. L'obiettivo deve essere determinato in modo tale da iscriversi in una
prospettiva futura che permetta se non proprio una reale riconciliazione -
questa, secondo ogni verosimiglianza, non potra' raggiungersi che piu'
tardi -, per lo meno una coesistenza pacifica tra le due parti. L'obiettivo
deve apparire allora come un contributo positivo per l'avvenire di tutta la
comunita'.
Le rivendicazioni del movimento devono essere realistiche e suscettibili di
essere accettate dall'avversario. Conviene percio' distinguere cio' che
sarebbe auspicabile da cio' che e' possibile. Il successo di un'azione e'
raggiunto solo quando si sia ottenuto cio' che si e' rivendicato; chiedere
l'impossibile significa inevitabilmente andare incontro al fallimento. Una
sola campagna di azioni non bastera' a sopprimere un'ingiustizia
profondamente radicata nelle strutture e nelle mentalita'. Saranno
necessarie in seguito altre campagne con obiettivi via via piu' ambiziosi.
E' importante, nel momento iniziale, che la campagna d'azione non si trovi
ridotta a una campagna di proteste a causa di un obiettivo sproporzionato
rispetto ai mezzi di cui dispone il movimento. E' essenziale per questo
movimento vincere il confronto, soprattutto per poter dare piena coscienza
della loro forza e piena fiducia a quelli che fino a quel momento sono stati
le vittime rassegnate dell'ingiustizia. E' opportuno quindi stabilire cio'
che deve essere preteso in modo che non si debba fare alcuna concessione nel
corso dei futuri negoziati. La strategia della nonviolenza non e' una
strategia di mutue concessioni. Il piu' delle volte, si pretende piu' di
quanto si vuole, per essere certi di raggiungere cio' che si vuole. In
questo caso invece ci si sforza di fissare sin dall'inizio cio' che deve e
puo' essere richiesto, e si resta fermi su questa posizione per tutta la
durata della lotta, senza fare concessioni.  Nella lotta nonviolenta,
sottolinea Gandhi, "il minimo e' anche il massimo, e siccome e' un minimo
irriducibile, non si puo' parlare di ritirata. Il solo movimento possibile
e' un avanzamento". Qui pertanto, non si tratta di esigere l'impossibile per
ottenere il possibile ma si tratta di esigere il possibile e di attenersi ad
esso senza mai transigere, a meno che non si debbano riconoscere e
soddisfare certe eventuali rivendicazioni dell'avversario che, durante il
conflitto, fossero comprese come giuste.

3. Primi negoziati
Conviene entrare al piu' presto possibile in contatto diretto con
l'avversario, prima di portare la controversia sulla pubblica piazza, allo
scopo di tentare tutto cio' che e' possibile per risolvere il conflitto
senza dover ricorrere alla prova di forza. Si tratta allora di far conoscere
ai rappresentanti della parte avversa le conclusioni a cui l'analisi della
situazione ha condotto e di far valere le rivendicazioni del movimento
precisando l'obiettivo che questo ha deciso di raggiungere. Sin da questo
momento e' importante dar prova della piu' rigorosa cortesia nei confronti
dell'avversario. In particolare e' opportuno evitare di far pesare sui
propri interlocutori minacce destinate a "incutere paura". Conviene invece
sforzarsi di far capire che il cambiamento della situazione cosi' com'e'
ricercato e', tutto sommato, meno minaccioso per l'avversario del
mantenimento dello status quo. Il clima che si istaurera' durante questi
primi negoziati determinera' in buona parte il clima di tutto il conflitto.
E' percio' essenziale impegnarsi a crearlo in modo tale che disponga
l'avversario non ad inasprire gli antagonismi, ma a ridurli. Questi primi
negoziati devono permettere alle due parti di conoscersi meglio. Conviene a
questo proposito osservare attentamente le reazioni dei propri interlocutori
e gli argomenti che adducono in risposta alle accuse mosse.
Nel momento stesso in cui si da' prova della piu' stretta cortesia e'
importante anche dare prova della massima fermezza e della massima
determinazione. Le manifestazioni di "comprensione", le assicurazioni "di
studiare seriamente il dossier" e magari le promesse di fare "tutto cio' che
e' possibile", che possono essere formulate dall'avversario nel corso di
questi negoziati e' opportuno siano accolte senza processi alle intenzioni.
Nessuna necessita' strategica obbliga a sospettare di malafede queste
manifestazioni di "buona volonta'". La fermezza e il rifiuto di transigere
non guadagnano affatto in forza puntando sulla sistematica diffidenza nei
confronti dell'avversario. Ma deve essere chiaro che il movimento non si
accontenta in nessun momento di promesse, ma che aspetta invece delle
decisioni. Esso accettera' di sospendere la sua azione solo quando sara'
raggiunto un accordo definitivo che metta fine al conflitto.
Cosi', nel corso dei negoziati tra i neri e i bianchi, durante il
boicottaggio degli autobus di Montgomery, "alcuni membri del comitato bianco
ci suggerirono di ritornare a servirci degli autobus e di rimandare la
discussione per un possibile accordo a dopo le feste natalizie, assicurando
che la comunita' avrebbe accolto con maggior simpatia le nostre richieste,
se la protesta fosse stata intanto sospesa. La nostra risposta fu ancora una
volta negativa. Tutti i nostri sforzi, infatti, sarebbero stati vani, se
avessimo sospeso la protesta in seguito ad una vaga promessa di futuri
accordi" (M. L. King).
E' raro che un accordo possa concludersi gia' con i primi negoziati. Questi,
quando si trovano ad un punto morto, devono essere sospesi ma non rotti
definitivamente, perche' e' proprio fine dell'azione diretta la ripresa dei
negoziati. Conviene pertanto, nei limiti del possibile, mantenere continui
contatti con l'avversario per tutta la durata dei conflitto.
Secondo un principio fondamentale della strategia, il tempo dei negoziati
deve essere pure il tempo della preparazione alla prova di forza. I
negoziati devono essere leali, e d'altronde e' interesse del movimento che
essi riescano. Ma si tratta anche di prevedere l'avvenire e di prepararsi.

4. Appello all'opinione pubblica
In seguito al fallimento dei primi negoziati, bisognera' sforzarsi di fare
esplodere l'ingiustizia di fronte all'opinione pubblica con tutti i mezzi di
informazione di cui puo' disporre il movimento. Si tratta di ricercare il
massimo di "pubblicita'" nel senso tecnico della parola, e cioe' di
raggiungere il pubblico per fargli conoscere le ragioni e gli obiettivi dei
movimento. E' molto importante mantenere l'iniziativa dell'informazione e di
vigilare affinche' il senso dell'azione non venga ne' deformato ne'
falsificato. Certo la pubblicita' nasconde tranelli da cui bisognera'
guardarsi, ma non per questo essa, in quanto strumento di comunicazione con
il pubblico, e' meno indispensabile. Facciamo notare che si tratta di
mettere l'opinione pubblica di fronte alle proprie responsabilita', ma non
si tratta di colpevolizzare. Si tratta di farle prendere coscienza
dell'ingiustizia e non invece di attribuirle cattiva coscienza di fronte ad
essa. La cattiva coscienza paralizza piu' di quanto non mobiliti.
Bisognera' cercare di creare un "fatto di cronaca" e redigere a tal fine
comunicati nei quali verranno esposte le ragioni e gli obiettivi dei
movimento. Si trattera' quindi di informare i partiti, i movimenti, le
organizzazioni e le personalita' suscettibili di dare il loro sostegno
all'azione progettata. Si potra' organizzare una distribuzione di volantini
e potra' essere molto efficace "far parlare i muri" per mezzo di scritte e
di manifesti che espongono in poche parole i dati della situazione e le
soluzioni previste per porvi rimedio.
Sara' opportuno, per dare forza a questa affermazione, organizzare delle
manifestazioni che sono un confronto diretto con il pubblico, allo scopo di
informarlo e di farlo reagire di fronte agli argomenti sostenuti dai
manifestanti. Queste manifestazioni dovrebbero, inoltre, permettere a quelli
che sono disposti a partecipare all'azione, di contarsi, di conoscersi e di
organizzarsi. E' essenziale che quelli che sono vittime dirette
dell'ingiustizia denunciata possano partecipare a queste manifestazioni.
Questa dovrebbe essere per loro l'occasione di prendere coscienza della
propria forza, di vincere la paura e di sviluppare la volonta' di
resistenza.
Questo confronto del pubblico con le posizioni sostenute dal movimento deve
permettere di correggere cio' che deve essere corretto e di individuare
meglio gli argomenti sui quali e' piu' opportuno insistere. Percio' e'
importante osservare attentamente e registrare le reazioni degli spettatori.
Queste sono delle preziose indicazioni che devono permettere di capire
meglio i rapporti di forza esistenti tra il movimento e la popolazione, e di
orientare meglio l'evoluzione del conflitto.
Nel corso di tutte queste manifestazioni pubbliche, la scelta degli slogan
deve essere compiuta anticipatamente dai responsabili del movimento. Gli
slogan non devono essere numerosi. I partecipanti devono sottomettersi
rigorosamente alla scelta che sara' stata effettuata e in nessun caso
dovranno introdurre nella manifestazione altri slogan di loro scelta. Nella
scelta degli slogan e' un'esigenza strategica quella di cercare la parola
giusta che nomini e qualifichi le situazioni che si cerca di correggere.
L'impatto della parola deriva dalla sua giustezza e non dalla sua violenza.
A questo proposito Danilo Dolci rievoca un fatto tanto minuscolo quanto
significativo. Con un gruppo eterogeneo di giovani, egli aveva promosso una
marcia da Milano a Roma, per manifestare soprattutto la loro opposizione
alla guerra nel Vietnam. Nel raccontare questa marcia, Dolci scrive:
"Poiche' alcuni gruppetti di ragazzi a tratti scandiscono "Johnson torna
alle tue vacche" molti contadini dei borghi che attraversiamo, soprattutto
in Emilia, non sembrano affatto persuasi; sono come offesi: "le vacche non
sono forse importanti?", mormorano. I ragazzi cominciano a comprendere
chilometro dopo chilometro la distinzione tra sfogo rabbioso e capacita' di
penetrare nelle popolazioni affinche' ciascuno si muova ad assumere una
posizione cosciente ed esplicita di fronte alla guerra". Cosi', quando
giungeranno a Roma, gli slogan scelti si riveleranno piu' incisivi e piu'
efficaci.
Conviene sottolineare l'importanza, nel corso di queste manifestazioni
pubbliche, dell'atteggiamento esteriore dei manifestanti che e' un mezzo
essenziale di espressione e di comunicazione. "Al di la' delle parole
scritte e pronunciate, il corpo umano e' impiegato per testimoniare in modo
drammatico i fatti e le verita' legati al problema in questione" (Hildegard
Gos-Mayr). Soltanto un atteggiamento calmo e disciplinato da parte dei
manifestanti potra' dare alla manifestazione un carattere di nobilta' e di
dignita' che le dara' una maggiore forza. Al contrario, un atteggiamento
rilassato e disordinato dei manifestanti non potrebbe non incidere
negativamente sugli spettatori.
Queste prime manifestazioni pubbliche devono essere innanzitutto strumenti
di persuasione capaci di far valere la giustezza della causa sostenuta, ma
esse costituiscono gia' dei mezzi di pressione che preparano la messa in
opera dei mezzi di costrizione.
Senza pretendere di essere esaurienti, citiamo alcuni metodi di
manifestazione pubblica:
- Comunicati. La presa di posizione pubblica di diverse personalita'
attraverso un comunicato rilasciato alla stampa puo' fornire una preziosa
garanzia a questa o a quella rivendicazione. Tuttavia un tale metodo e'
efficace solo se il testo dei comunicato e' sufficientemente forte e preciso
in modo che il fatto di sottoscriverlo sia gia' di per se stesso un impegno.
Purtroppo cio' non e' il caso della maggior parte dei comunicati a cui siamo
abituati, soprattutto in Francia. Troppi intellettuali e artisti "di
sinistra" - in pratica sempre gli stessi - si accontentano di firmare
regolarmente comunicati che protestano per principio contro questo o
quell'attentato alla democrazia, senza che cio' abbia in genere la minima
incidenza sul fatto in questione. Precisiamo tuttavia che non si deve
rimproverare a questa elite di fare questo, ma le si deve rimproverare di
far soltanto questo.
- Petizioni. Promuovere una petizione significa raccogliere il maggior
numero di firme in fondo a un testo che denunci una certa ingiustizia e
richieda una certa soluzione appropriata. Questo testo verra'
successivamente spedito, o consegnato direttamente da una delegazione, a
quelli che hanno il potere di decidere in merito al problema posto. Questa
procedura puo' rivelarsi efficace nel caso in cui sia possibile raccogliere
un numero rilevante di firme. Tuttavia la facilita' con cui si firma un
testo rischia di ridurre la portata di una tale iniziativa.
Facciamo notare a questo punto che le due prime azioni politiche di Gandhi
furono appunto la redazione e l'invio di due petizioni. Infatti, nel 1894
quando Gandhi, su proposta dei compatrioti residenti nel Sud-Africa,
accetto' di rinviare il suo ritorno in India per condurre sul posto la lotta
contro il razzismo che gravava sulla comunita' indiana, la prima decisione
che egli prende e' di redigere una petizione, rivolta all'Assemblea
legislativa del Natal, per chiedere di respingere il progetto di legge che
privava gli indiani del diritto di voto. "I giornali - ricorda Gandhi nella
sua autobiografia - la riportarono con commenti favorevoli, impressiono'
anche l'assemblea, fu discussa alla Camera. (...) Pero' la legge fu
approvata". Questa prima petizione fu dunque un insuccesso. Ma essa permise
agli indiani, fino allora rassegnati e passivi, di mobilitarsi in difesa dei
loro diritti. "Questa petizione - scrive Gandhi - fu la prima ad essere mai
stata spedita dagli Indiani ai legislatori sudafricani. Era il primo
tentativo da parte degli indiani di usare una tale procedura e un'ondata di
entusiasmo attraverso' tutta la comunita'".
Allora Gandhi non si scoraggio' e decise di far giungere al governo inglese
"una petizione fiume". Bisogna tuttavia sottolineare che Gandhi decise "di
non accettare una sola firma se il firmatario non avesse prima capito a
pieno il significato esatto della petizione". In quindici giorni furono
raccolte diecimila firme: un successo considerevole. La petizione fu spedita
a Lord Ripon, allora segretario di Stato alle Colonie. Inoltre, "ne erano
state stampate un migliaio di copie per farle circolare e per distribuirle;
era la prima volta che si informava la popolazione indiana di quali fossero
le sue condizioni nel Natal. Inviai copie a tutti i pubblicisti di mia
conoscenza. "The Times of India", in un articolo di fondo sulla petizione,
difendeva a spada tratta le richieste indiane. Furono inviate copie anche ai
periodici e pubblicisti di diversi partiti in Inghilterra: il "Times" di
Londra si dichiaro' favorevole alle nostre rivendicazioni e cominciammo a
sperare che alla legge fosse posto il veto". Infatti il governo di Londra,
impressionato dalla campagna di Gandhi, oppose il veto al progetto di legge
ritenendo che esso stabiliva una discriminazione razziale nei confronti di
una minoranza dell'Impero. Gandhi otteneva cosi' il suo primo successo.
Tuttavia questo non fu che parziale, perche', alla fine, i bianchi del Natal
seppero aggirare l'ostacolo che Londra aveva messo sulla loro strada: essi
formularono la loro legge in termini che non potevano piu' essere
qualificati come razzisti. Questo progetto di legge, cosi' emendato, ma che
portava agli stessi risultati pratici, fu approvato e votato. Gandhi doveva
riprendere la lotta ma era sicuro, questa volta, di poter contare sulla
determinazione dei suoi compatrioti che avevano preso coscienza della loro
forza e vinto la loro paura.
- Sfilata. Si parla di sfilata quando i manifestanti formano un corteo e
percorrono a piedi la citta' da un punto all'altro. Cartelli e slogans
informano gli spettatori sulle ragioni obiettive della manifestazione. La
sfilata e' il metodo piu' classico della manifestazione pubblica. Cosi',
quando viene annunciato che il tal partito, il tal sindacato o il tale
movimento invita la popolazione a partecipare ad una manifestazione, si
tratta generalmente di una sfilata.
Facciamo solo presente che, dal punto di vista della strategia della
nonviolenza, l'organizzazione di una sfilata deve soddisfare le esigenze
caratteristiche dell'azione nonviolenta. Si puo' ragionevolmente pensare che
queste esigenze non saranno soddisfatte se non sara' in precedenza deciso
che debbano esserlo, e se non vengano prese precauzioni particolari perche'
lo siano effettivamente. Pensiamo in particolare alla scelta degli slogan e
all'atteggiamento dei manifestanti nei confronti delle forze di polizia.
- Marcia. Si parlera' di marcia quando i manifestanti percorrono a piedi
lunghe distanze da una citta' all'altra attraverso uno o piu' paesi. Il fine
e' di sensibilizzare la popolazione delle regioni attraversate
sull'ingiustizia che si vuole denunciare. Cartelli e striscioni con qualche
semplice scritta e volantini che diano maggiori spiegazioni devono
permettere agli spettatori di essere informati sulle ragioni e sugli
obiettivi della marcia. In ciascuna citta'-tappa si possono organizzare
delle riunioni pubbliche per informare gli abitanti e per provocare un
dibattito pubblico sul problema in questione. Sara' utile stabilire dei
contatti con le personalita' e i movimenti capaci di prendere posizione in
favore dei manifestanti e di promuovere a loro volta delle manifestazioni.
Delegazioni possono chiedere di essere ricevute dalle autorita' locali per
far valere nei loro confronti il punto di vista dei manifestanti.
La marcia puo' avere il fine preciso di richiamare l'attenzione dei pubblico
su un'azione che avverra' al termine di essa. Un esempio particolare e' dato
dalla famosa "marcia del sale" intrapresa da Gandhi allo scopo di preparare
il popolo indiano a violare la legge con la quale il governo faceva pagare
ad ogni indiano una forte tassa per ogni acquisto di sale. Dopo aver
percorso a piedi 380 chilometri attraverso l'India prendendo la parola in
ogni villaggio attraversato per invitare la popolazione alla resistenza
contro la legge ingiusta, giunse in riva al mare e compi' il gesto simbolico
di raccogliere un po' di sale. Da quel momento Gandhi diventava ribelle
dell'impero britannico. Per effetto della marcia, tutta l'India aveva gli
occhi puntati su di lui ed era pronta a ribellarsi.
Nel 1971 venne promossa, dal leader nonviolento spagnolo Gonzalo Arias e da
numerosi suoi compatrioti, una "marcia sul carcere", da Ginevra a Madrid,
allo scopo di esprimere la propria solidarieta' con l'obiettore Jose' Beunza
detenuto allora a Valenzia, e di far pressione sul governo perche' venisse
riconosciuto uno statuto legale a lui e agli altri obiettori. La marcia, a
cui partecipavano pure manifestanti di diversi paesi, dovette interrompersi
al posto di frontiera di Bourg-Madame dove gli spagnoli furono arrestati e
gli altri marciatori respinti verso la Francia. Ma la stampa riferi'
abbondantemente dell'avvenimento e il fine dell'azione, che era innanzitutto
quello di informare l'opinione pubblica sulla situazione degli obiettori
spagnoli, fu raggiunto.
- Sciopero della fame limitato. Quando lo sciopero della fame si iscrive
nella strategia dell'azione nonviolenta ripugna chiamarlo con il suo nome:
si preferisce allora parlare di digiuno. Ma pensiamo che cio' sia un errore.
Ci sembra importante distinguere il digiuno intrapreso per motivi di ordine
religioso o terapeutico dallo sciopero della fame intrapreso per motivi di
ordine politico. Di conseguenza, il digiuno e' un'azione privata, mentre lo
sciopero della fame e' un'azione pubblica.
Lo sciopero della fame limitato a qualche giorno, tra i 3 e i 20 giorni,
mira a denunciare pubblicamente un'ingiustizia e ad informare l'opinione
pubblica su di essa. Si tratta di un'azione di protesta che di per se stessa
non potra' generalmente pretendere di sopprimere l'ingiustizia. Ma essa puo'
avere un effetto considerevole sull'opinione pubblica e cio' in particolare
se la personalita' di chi la compie e' importante. Facciamo pero' notare che
il moltiplicarsi sconsiderato degli scioperi della fame rischia di stancare
l'opinione pubblica e di screditare questo mezzo.  Percio' e' opportuno
ricorrervi con molta cautela.
Al termine di queste manifestazioni, converra' ripresentare all'avversario
delle proposte precise in vista di un regolamento negoziato dei conflitto.
E' possibile che la pressione esercitata dall'opinione pubblica sia
abbastanza forte da costringere l'avversario a non portare avanti uno
scontro di cui puo' temere che torni a suo svantaggio. In un regime
democratico (certo, tutto e' relativo, e si potrebbe avanzare che nessun
regime e' veramente democratico, ma diversi confronti che si impongono
permettono di dire che certi lo sono e certi non lo sono affatto), la "forza
dell'opinione pubblica" e' reale e puo' far maturare certi problemi fino a
che le soluzioni desiderabili diventino possibili. Ci sembra pero' che molti
liberali, a cui ripugna per temperamento il ricorso all'azione diretta,
tendano a sopravvalutare questa forza. Quando si tratta di opporsi a una
decisione del governo, non basta il piu' delle volte che l'opinione pubblica
si esprima perche' la pressione esercitata su di esso sia abbastanza forte
per costringerlo a cedere. Sara' allora necessario ricorrere all'azione
diretta, o almeno lasciar capire chiaramente che si e' decisi a farlo.

5. Invio di un ultimatum
Di fronte al fallimento degli ultimi tentativi di negoziato, diventa
necessario fissare all'avversario un ultimo termine al di la' del quale
saranno date disposizioni di ricorrere all'azione diretta. L'ultimatum, che
ricorda le ragioni e gli obiettivi dei movimento, i tentativi precedenti di
negoziare e i loro fallimenti, puo' essere considerato come l'ultimo passo
in vista di un accordo negoziato. Effettivamente, la prova di forza
incomincia con l'ultimatum. Questo in effetti e' piu' un mezzo di
costrizione che un mezzo di persuasione. E' d'altronde verosimile che
l'avversario si rifiuti di cedere di fronte a cio' che bisogna pur chiamare
una minaccia e che egli considerera' un "inammissibile ricatto". Egli
rifiutera' l'ultimatum sostenendo di non temere la prova di forza. Inoltre,
l'ultimatum e' un appello all'opinione pubblica per invitarla a mobilitarsi
in vista dell'azione. Conviene percio' rendere pubblico il testo
dell'ultimatum e, a questo scopo, farlo pervenire alla stampa, ai movimenti
e alle personalita' suscettibili di solidarizzare con quelli che sono decisi
ad agire.
Nel racconto della lotta condotta nel Sudafrica, Gandhi spiega a lungo in
quali condizioni, nel 1908, egli spedi' un ultimatum al generale Smuts.
L'azione che stava conducendo allora era diretta contro l'Atto asiatico,
detto anche l'"Atto Nero", che rendeva obbligatorio a tutti gli indiani di
iscriversi nei registri del governo. Questa legge stabiliva che "quasi in
ogni momento o luogo, gli indiani potevano essere invitati ad esibire il
certificato di registrazione; gli esperti di polizia potevano entrare nelle
case degli Indiani per esaminare i permessi". Gandhi giudico' questa legge
contraria alla dignita' degli indiani e invito' i suoi compatrioti a
combatterla fino a che non fosse abolita. Dopo una prima prova di forza,
durante la quale gli indiani si erano rifiutati di farsi registrare, Gandhi
accetto' il compromesso un po' paradossale propostogli dal generale Smuts a
nome del governo. Questo permetteva di abolire l'Atto asiatico se gli
indiani si fossero impegnati a iscriversi volontariamente. Gandhi ci tenne a
iscriversi per primo e chiese ai suoi compatrioti di fare altrettanto in
conformita' agli impegni presi. Gandhi aveva pero' commesso l'errore di
accettare un accordo sospendendo l'azione diretta davanti ad una semplice
promessa: infatti il generale Smuts non mantenne il suo impegno e rifiuto'
ostinatamente di abolire l'"Atto Nero". A quel punto Gandhi si trovo'
costretto a riprendere l'offensiva rilanciando l'azione diretta. Egli si
decise allora a spedire un ultimatum al generale Smuts. "Infine - riferisce
nel suo racconto - fu spedito un ultimatum al governo. Non adoperammo la
parola "ultimatum", ma fu cosi' che il generale Smuts chiamo' la lettera che
gli spedimmo in cui veniva espressa la determinazione della comunita'". Il
testo dell'ultimatum ricordava l'accordo raggiunto precedentemente e
precisava: "La comunita' ha spedito numerosi comunicati al generale Smuts e
preso tutte le iniziative legali possibili per ottenere giustizia, ma esse
finora non hanno portato ad alcun risultato. Siamo spiacenti di dover
affermare che se l'Atto asiatico non verra' abolito in conformita'
all'accordo, e se la decisione del governo a riguardo non sara' comunicata
agli indiani entro una data stabilita (la data fu fissata per il 16 agosto),
i certificati ritirati dagli indiani verranno bruciati e gli stessi ne
sopporteranno le conseguenze umilmente ma con fierezza".
Gandhi e i suoi esitarono molto prima di spedire questo ultimatum: "Ci
furono molte discussioni - egli racconta - quando fu spedito l'ultimatum. La
richiesta di una risposta entro un termine stabilito non sarebbe stata
considerata insolente? Non avrebbero avuto l'effetto di irrigidire il
governo e di portarlo a respingere i nostri termini che altrimenti avrebbe
potuto accettare?". Ma alla fine tutti gli indiani della comunita' africana
decisero di spedire l'ultimatum: "Dovemmo - continua Gandhi - correre il
rischio di essere accusati di mancanza di cortesia, e pure quello di vedere
il governo rifiutare, per risentimento, cio' che altrimenti avrebbe potuto
accordare. (...) Dovemmo adottare un atteggiamento diretto senza esitazione.
(...) Il linguaggio dell'ultimatum si inseriva in una progressione naturale
e appropriata".
Per il giorno in cui doveva scadere l'ultimatum, Gandhi organizzo' una
manifestazione per bruciare i certificati nel caso in cui il governo si
fosse ostinato a rinnegare l'impegno che aveva assunto. Smuts respinse
l'ultimatum con disprezzo: "Quelli - egli disse allora - che hanno rivolto
una simile minaccia al governo non si rendono conto della sua potenza. Mi
dispiace che qualche agitatore stia tentando di eccitare dei poveri indiani,
che si troveranno sul lastrico se soccomberanno ai loro incitamenti". Quando
la manifestazione stava per incominciare, Gandhi ricevette un telegramma nel
quale era detto che "il governo si doleva della decisione della comunita'
indiana, ma non poteva cambiare la propria linea di condotta". La
manifestazione incomincio' e Gandhi insistette sulle gravi conseguenze che
potevano derivare dal fatto di bruciare il proprio certificato e chiese ai
presenti di calcolare i rischi che stavano per assumersi. Ma i partecipanti
furono unanimi nel decidere di passare ai fatti e piu' di duemila
certificati furono bruciati. Infine, dopo molte altre peripezie, l'"Atto
Nero" venne annullato.
(1 - continua)

5. DOCUMENTAZIONE. MANI TESE: I COSTI DELLA GUERRA E I COSTI DELLO SVILUPPO
[Dall'ufficio stampa della Rete Lilliput (tel. 3396675294, e-mail:
ufficiostampa at retelilliput.org) e dall'ufficio stampa di Mani Tese (tel.
3389960030, e-mail: ufficiostampa at manitese.it) riceviamo e diffondiamo
questo comunicato]
Mani Tese, organismo non governativo di cooperazione allo sviluppo, tra i
fondatori di Rete Lilliput, opera dal 1964 per promuovere nuovi rapporti fra
i popoli, fondati sulla giustizia, la solidarieta', il rispetto delle
diverse identita' culturali. Per questo realizza progetti di solidarieta'
nel sud del mondo e svolge una costante opera di informazione, di educazione
allo sviluppo e di pressione politica. Con questo comunicato rendiamo
pubblica parte di una ricerca sui costi della guerra e sui costi dello
sviluppo. Rimaniamo a disposizione per eventuali approfondimenti.
*
Costi per la guerra:
839 miliardi di dollari: spesa militare mondiale nel 2001.
364.6 miliardi di dollari: spesa a bilancio per il 2003 negli Stati Uniti
per la difesa.
379.9 miliardi di dollari: spesa a bilancio per il 2004 negli Stati Uniti
per la difesa.
2.1 miliardi di dollari: costo di un bombardiere B2.
750 milioni di dollari: costo dei missili Tomahawk lanciati dagli Usa dal
1991 ad oggi (Iraq, Bosnia, Sudan, Afghanistan).
45 milioni di dollari: costo di un aereo F117 Stealth Fighter.
(Fonti: Onu; Dipartimento della difesa Usa; Raytheon; Le Monde).
*
Italia:
19 miliardi di euro: spesa per la difesa nel 2002
1.15 miliardi di euro: il costo previsto per l'acquisizione della nuova
portaerei "Andrea Doria".
1.75 miliardi di euro: il costo previsto per l'industrializzazione e
l'acquisizione di 56 elicotteri NH90 (modello compatibile con la portaerei).
900 milioni di euro: il costo previsto per l'acquisizione di 16 elicotteri
EH101 (modello compatibile con la portaerei).
(Fonti: Ministero della Difesa).
*
Costi per lo sviluppo:
Che cosa si dovrebbe fare, per raggiungere gli obiettivi internazionali:
50 miliardi di dollari: spesa annuale stimata dall'Onu necessaria a
conseguire gli obiettivi internazionali di sviluppo.
Di cui ad esempio:
10 miliardi di dollari: spesa annuale stimata dall'Unicef per garantire
l'accesso universale all'istruzione primaria.
7/10 miliardi di dollari: spesa annua necessaria stimata da Unaids per
rispondere efficacemente all'epidemia dell'aids.
(Fonti: Undp; Unaids; Unicef).
*
Un esempio da un paese africano:
22mila euro: il costo per la costruzione di una scuola in Burkina Faso.
8mila euro: il costo per la costruzione di un pozzo in Burkina Faso.
Il 71% della popolazione del Burkina Faso non ha accesso all'acqua potabile.
Il 76.1% della popolazione del Burkina Faso non ha accesso all'istruzione
primaria.

6. LETTURE. GIORGIO BOCCA: PICCOLO CESARE
Giorgio Bocca, Piccolo Cesare, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 190, euro 15.
Una fenomenologia della resistibile ascesa di Berlusconi, "segnale di
un'involuzione politica piu' generale che coinvolge non solo l'Italia, ma
tutte le democrazie occidentali".

7. RILETTURE: GREGORY BATESON, MARY CATHERINE BATESON: DOVE GLI ANGELI
ESITANO
Gregory Bateson, Mary Catherine Bateson, Dove gli angeli esitano, Adelphi,
Milano 1989, 1993, pp. 342, lire 38.000. A cura di Mary Catherine Bateson
una raccolta di scritti di lei e del padre.

8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

9. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it

Numero 537 del 16 marzo 2003