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La nonviolenza e' in cammino. 536
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 536
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Fri, 14 Mar 2003 22:59:40 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 536 del 15 marzo 2003 Sommario di questo numero: 1. Maria G. Di Rienzo, propaganda bellica e inquinamento linguistico 2. A Tuscania e a Gubbio ricordata Marianella Garcia 3. Benito D'Ippolito, ai partecipanti all'incontro di Assisi 4. I sei punti del "Manifesto 2000 per una cultura della pace e della nonviolenza" 5. Aspetti psicologici dell'impegno nonviolento 6. Giobbe Santabarbara, senza girarci intorno 7. Laura Fortini presenta "Il centro della cattedrale" di Monica Farnetti 8. Luciana Viviani presenta "Volevamo cambiare il mondo" 9. Alfonso Cortagarganta, sei utilissime raccomandazioni al movimento pacifista (ovvero breve corso di masochismo collettivo ad uso di brillanti carriere individuali) 10. La "Carta" del Movimento Nonviolento 11. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. MARIA G. DI RIENZO: PROPAGANDA BELLICA E INQUINAMENTO LINGUISTICO [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per questo intervento. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza] L'influenza che il linguaggio ha sui nostri schemi e processi di pensiero e' un dato sostenuto da oltre trenta anni di ricerche linguistiche. Siamo meno consapevoli, pero', del fatto che il tipo di linguaggio che usiamo influenza in modi significativi anche il nostro comportamento. La militarizzazione della lingua italiana si e' sedimentata in un lungo periodo di tempo ed il risultato e' che noi formuliamo concetti con un linguaggio atto ad impedire, piuttosto che a conseguire, la costruzione di pace. Le metafore militari applicano a situazioni non militari il loro significante. Ovviamente non sono le sole: noi usiamo metafore che appartengono al lavoro della terra ("mettere il carro davanti ai buoi") o ad altri mestieri umani ("battere il ferro finche' e' caldo"). Si potrebbe dire che le metafore militari sono altrettanto innocue, e che servono a rendere la comunicazione piu' "colorata", piu' vivace (ma sono tutte metafore di morte e violenza), o a portare nuove prospettive nel discorso. Cio' che preoccupa chi studia i loro effetti non e' il loro uso in se', ma gli schemi che esso produce a livello metacognitivo. Una delle metafore che intride la nostra vita quotidiana e': "discutere e' uguale a combattere": "La tua posizione e' indifendibile", "Ho ancora qualche arma da usare", "Hai colpito il bersaglio", "Se usi questa strategia, verrai spazzato via", "Abbiamo serrato i ranghi e loro hanno dovuto battere in ritirata", "Non sei d'accordo? Va bene, spara", "Il nostro schieramento ha vinto", "Lo hanno fatto fuori", e cosi' via. E sebbene siano a nostra disposizione molte espressioni alternative, noi ci riferiamo all'amore come se fosse una guerra ("in guerra e in amore tutto e' lecito"): "Ha combattuto per lui, ma ha vinto sua moglie", "L'ho vinta con fatica", "E' assediata dagli spasimanti", "E' un vero conquistatore", "Sto guadagnando terreno con lei", "Ha aperto una breccia nel suo cuore". Dunque: discutere e' guerra, amare e' guerra, ma non basta: la politica e' guerra ("Questa legge manca il bersaglio", "L'attacco dell'opposizione", "Abbiamo combattuto per le modifiche", "La disfatta della coalizione"), le elezioni sono guerra, l'economia e' guerra, il mercato e' guerra e persino la protezione dell'ambiente e' guerra ("Le battaglie ambientaliste"). Si tratta di metafore strutturali, che tendono a divenire l'ossatura del nostro modo di concepire i valori: ovvero, non esistono come idee separate, ma sono legate l'una all'altra e organizzate sistematicamente ad un livello ideologico. Il linguaggio dei giornalisti, dei politici e frequentemente persino dei diplomatici, accetta e promuove la guerra come atto normale, quotidiano, per regolare i conflitti (legittimazione); promuove attitudini ed incoraggia azioni che creano le condizioni per arrivare ad una guerra (propagazione); crea l'immagine tipo del "nemico" essenziale a far nascere e a mantenere l'ostilita' che rende accettabile la guerra (giustificazione). * Una volta che si sia divenuti coscienti del tipo di metafore che usiamo, dovremmo fare lo sforzo di educarci ad usarne altre, sviluppando la nostra abilita' nel decodificare il linguaggio metaforico e il nostro pensiero critico su di esso: 1) Riconoscendo le limitazioni delle metafore. Certo, sono utili per ampliare la nostra comprensione e possono esserci familiari, ma se noi pensiamo che "discutere e' uguale a combattere", questo concetto non e' neutro: nasconde in se' l'attitudine con cui ci presenteremo a discutere e ci fa perdere l'opportunita' di cooperare, di condividere, di imparare dai punti di vista espressi da un'altra persona. 2) Diventando piu' autocritici allo scopo di migliorare le nostre capacita' comunicative. Molti discorsi usano un linguaggio metaforico che non si accorda allo scopo di chi li fa. Articoli medici, di medicina tradizionale o alternativa, usano una profusione di metafore concettuali a sostegno di quella strutturale "prevenire la malattia e' una guerra". Il lettore/la lettrice che concorda con tali testi e' mentalmente predisposto/a a "combattere" per la propria salute. Pero' gli stessi testi terminano spesso con un consiglio del genere: "Gli studi hanno provato che i sentimenti di ostilita', producendo stress, riducono i livelli del sistema immunitario. Percio' essere in pace ed armonia con il vostro mondo effettivamente aumenta la capacita' del vostro corpo di resistere alle infezioni". E allora? Devo combattere o stare in pace? Dobbiamo assicurarci che il linguaggio che usiamo sia conseguente al messaggio che desideriamo mandare all'esterno. 3) Incoraggiando la creativita' attraverso l'uso di metafore alternative. Supponete che, anziche' pensare ad una discussione in termini di guerra, noi la si pensi come una danza ("conversare" significa etimologicamente "danzare insieme"): quali grappoli concettuali deriverebbero da tale metafora? In quali differenti modi esporremmo le nostre argomentazioni? Potremmo dire: "Non eravamo in sintonia, allora ho provato a cambiare passo", "Abbiamo organizzato l'incontro in modo che tutte e tutti potessero muoversi liberamente", "A un certo punto mi ha pestato un piede, cosi' abbiamo capito che dovevamo riposizionarci rispetto allo spazio della discussione". Puo' essere difficile all'inizio accettare un cambiamento creativo di questo tipo, quando tutte le metafore gia' presenti non concepiscono un dialogo se non in termini di guerra, e potremmo concludere, osservando i concetti derivanti dalla metafora-danza che essi non sembrano affatto descrivere una discussione quale noi la conosciamo: perche' questo e' un potere delle metafore, ovvero quello di controllare, definire e limitare il nostro pensiero. Ma esse detengono anche il potere di rinnovarlo e ricostruirlo. * L'ipocrisia con cui si sostiene la necessita' della guerra e della violenza e' una sorta di malattia culturale delle nostre vite. Si presuppone che essa ci lasci desensibilizzati, muti, ciechi e passivi. Soprattutto, ci incastra nell'esaltazione dei "valori" militari: una lotta per la liberta', per la giustizia sociale, per la pace, diventa una battaglia, un "piano di guerra": letteralmente, i giornalisti stanno usando questo paragone rispetto alle prossime azioni pacifiste in programma. Ho letto di come vorremmo "alzare il livello dello scontro", di come vorremmo "abbandonare la lentezza delle azioni nonviolente per passare a sit-in e occupazioni" (e qui si rivela tutta la colpevole ignoranza di chi scrive, che non sa neppure cosa sia un'azione diretta nonviolenta), delle nostre "tattiche e strategie", di come si allarga o si restringe il nostro "schieramento", del nostro "esercito" con i suoi "capi" e i relativi "ordini". Allora, a beneficio dei lavoratori dei media e di noi stessi, ricordiamo loro e ricordiamoci che: 1) l'azione diretta nonviolenta e' un tecnica di azione politica e sociale che non usa violenza fisica, verbale o simbolica. E' protesta, persuasione, non-cooperazione ed intervento. Non ha nulla a che fare con linguaggio e simbolico militari, che sono la sua negazione; 2) l'azione diretta nonviolenta non ha neppure nulla a che fare con la passivita', non dipende dal presupposto che chi la usa sia intrinsecamente piu' "buono" degli altri, non e' limitata alla gestione dei conflitti interni ad un sistema democratico: ora come nel passato l'azione diretta nonviolenta viene usata contro regimi dittatoriali o totalitari, occupazioni militari, ecc. 3) l'azione diretta nonviolenta non implica necessariamente il produrre risultati in un tempo piu' lungo rispetto ad un'azione violenta. In una gran varieta' di casi la lotta nonviolenta ha raggiunto i propri scopi in tempi assai brevi. Eserciti, militanti/militari, guerrieri e piani strategici non sono parte della nostra visione: sono cio' a cui ci opponiamo. La loro funzione e' prepararci alla guerra, insediarla nelle nostre menti e nelle nostre relazioni, renderla cifra inevitabile ed onorevole cimento. Queste parole ci "arruolano" involontariamente, oliano le ruote della macchina militare, e pretendono di non significare cio' che significano. 2. MEMORIA. A TUSCANIA E A GUBBIO RICORDATA MARIANELLA GARCIA Ricorrendo il 13 marzo il ventesimo anniversario dell'uccisione di Marianella Garcia Villas, martire nonviolenta della lotta per i diritti umani nel Salvador, nei giorni scorsi nell'ambito dei corsi di educazione alla pace che si svolgono sia presso l'Istituto professionale di Tuscania (Vt), sia presso l'Istituto tecnico sperimentale di Gubbio (Pg), e' stata commemorata la sua figura. Nata nel 1949, attivista per i diritti umani salvadoregna, collaboratrice di monsignor Romero, amica della nonviolenza, "avvocato dei poveri, compagna degli oppressi, voce degli scomparsi", Marianella Garcia fu assassinata il 13 marzo del 1983 dai soldati del regime. La sua vita e' narrata nel bel libro (ampiamente basato sulla registrazione di conversazioni con lei svoltesi nel 1981 e nel 1982) di Raniero La Valle e Linda Bimbi, Marianella e i suoi fratelli, Feltrinelli, Milano 1983. Il ricordo di Marianella Garcia ha dato luogo ad un'intesa riflessione e a un appassionato dialogo. 3. INCONTRI. BENITO D'IPPOLITO: AI PARTECIPANTI ALL'INCONTRO DI ASSISI [Riportiamo l'indirizzo di saluto inviato a nome del Centro di ricerca per la pace di Viterbo dal nostro collaboratore Benito D'Ippolito ai partecipanti all'incontro del 14-16 marzo ad Assisi promosso dalla Tavola della pace (per informazioni e contatti: e-mail: segreteria at perlapace.it, sito: www.perlapace.it] Nella polvere e nel vento queste parole volino e giungano a voi, persone amiche riunite in questi giorni per la pace ad Assisi, cuore del mondo. In questa ora di sforzo e di sgomento prima del fumo e delle ceneri, vi giungano queste parole, amici della pace e della nonviolenza e quindi amici dell'umanita' intera che si incarna in ogni esistenza di donna e di uomo. Possa anche questo incontro edificare un riparo dal buio, un riparo dall'orco, una difesa che la belva della guerra non possa varcare. Possa anche questo incontro dare mano alla comune intrapresa la piu' urgente: fare del mondo un luogo in cui convivere, tutte le donne e tutti gli uomini in concordia. Possa essere l'agire di noi tutti coltivazione di pace, frutto di ragione, salvezza per l'umanita', vittoria - cosi' amava dire Vinoba - al mondo. Riconoscimento di tutti i diritti umani a tutti gli esseri umani. 4. DOCUMENTI. I SEI PUNTI DEL "MANIFESTO 2000 PER UNA CULTURA DELLA PACE E DELLA NONVIOLENZA" [Riportiamo ancora una volta i sei punti del "Manifesto 2000 per una cultura della pace e della nonviolenza" promosso tre anni fa da alcune prestigiose personalita' gia' insignite del premio Nobel per la pace] 1. Rispettare ogni vita. Rispettare la vita e la dignita' di ogni essere umano senza alcuna discriminazione ne' pregiudizio. 2. Rifiutare la violenza. Praticare la nonviolenza attiva, rifiutando la violenza in tutte le sue forme: fisica, sessuale, psicologica, economica e sociale, in particolare nei confronti dei piu' deboli e vulnerabili, come i bambini e gli adolescenti. 3. Condividere con gli altri. Condividere il mio tempo e le risorse materiali coltivando la generosita', allo scopo di porre fine all'esclusione, all'ingiustizia e all'oppressione politica ed economica. 4. Ascoltare per capire. Difendere la liberta' di espressione e la diversita' culturale, privilegiando sempre l'ascolto e il dialogo senza cedere al fanatismo, alla maldicenza e al rifiuto degli altri. 5. Preservare il pianeta. Promuovere un consumo responsabile e un modo di sviluppo che tengano conto dell'importanza di tutte le forme di vita e preservino l'equilibrio delle risorse naturali del pianeta. 6. Riscoprire la solidarieta'. Contribuire allo sviluppo della mia comunita', con la piena partecipazione delle donne e nel rispetto dei principi democratici, al fine di creare, insieme, nuove forme di solidarieta'. 5. MATERIALI. ASPETTI PSICOLOGICI DELL'IMPEGNO NONVIOLENTO [Il seguente testo, che ancora una volta riproponiamo, e' estratto dal nostro lavoro La nonviolenza contro la guerra (del 2000 ma composto raccogliendo alcuni degli interventi scritti nel 1999 come versante pubblicistico e ortativo dell'azione concreta di opposizione nonviolenta alla guerra)] 1. Premessa Rispetto ad altre forme di impegno culturale, politico o sociale, la scelta della nonviolenza ha, secondo la nostra interpretazione, alcune caratteristiche peculiari: a) si fonda sulla ragione e non sull'entusiasmo: naturalmente valorizza le emozioni ma sempre ricondotte ad un impegno critico; b) implica una limpida rigorizzazione del ragionamento e della condotta: richiede una severa coerenza intellettuale e morale, e quindi necessariamente anche una grande capacita' di ascolto ed una incondizionata disponibilita' ad apprendere; c) non offre garanzie ne' consolazioni: ne' certezze di vittoria o di salvezza, ne' autorita' ed automatismi che fungano da cinture di sicurezza; tuttavia, facendo appello a un forte sentimento di integrita' personale intimamente connesso al piu' vasto slancio di solidarieta' e di riconoscimento della comune umanita', consente di gestire le ansie e relativizzare gli scacchi in una piu' profonda ed insieme piu' ampia prospettiva di impegno orientato al bene comune ed all'affermazione della propria dignita' (bene comune e dignita' personale intesi come un inscindibile insieme); d) propone un impegno di lotta che non terminera' che con la morte: ma questa lotta (contro l'ingiustizia, contro la violenza, contro la menzogna; e quindi: contro la sofferenza, contro il male, contro la morte stessa) e' ineludibile, ed e' coessenziale alla nostra vita di senzienti e pensanti; e) impone quindi una dialettica tra coscienza e mondo esterno (naturale e culturale) particolarmente impegnativa: ad ogni passo chiede di assumere responsabilita', di giudicare, e quindi di agire; ad ogni passo ci impone un difficile confronto tra liberta' e regole, tra creativita' e necessita', tra dovere morale e condizioni (e codificazioni) date. In breve, la scelta della nonviolenza richiede studio, preparazione, addestramento, disponibilita' a soffrire, saldezza nel perseverare in cio' che e' giusto ad una analisi onesta, e saldezza nel perseverare in una condotta costantemente benevola, leale e responsabile anche di fronte a condotte scorrette, inique e violente da parte di altri. Infine richiede altresi' una ridiscussione costante della propria condotta ed una continua reinterpretazione e reinvenzione di regole, orizzonti, abitudini, percorsi di ricerca; rileggendo incessantemente la propria esperienza cosi' come faceva Gandhi che non casualmente intitolo' la sua autobiografia "storia dei miei esperimenti con la verita'". 2. Una sintetica definizione preliminare 2.1. Per nonviolenza intenderemo qui un insieme di valori morali, di tecniche di lotta e di proposte politiche organizzate in una coerente, seppur aperta e sperimentale, teoria-prassi. 2.2. Definiamo tale teoria-prassi col termine di nonviolenza, ed usiamo tale grafia per distinguerla dalla mera assenza di violenza (la quale assenza di violenza e' peraltro concettualmente una nozione assai ambigua e sfuggente, e praticamente una condotta semplicemente impossibile) ed indicarne invece la natura positiva e l'impegno attivo; col quale termine di nonviolenza traduciamo due distinti termini gandhiani: ahimsa (che potremmo tradurre liberamente come ripudio della violenza, opposizione alla violenza; che designa la nonviolenza dal punto di vista concettuale, come valore morale e come oggetto logico-ontologico); e satyagraha (che potremmo tradurre liberamente come forza della verita' o anche adesione alla verita'; che designa la nonviolenza dal punto di vista operativo e metodologico, come campo di condotte empiriche, di tecniche pratiche, di orientamenti strategici; ma anche come inveramento effettuale di una scelta morale che per esser tale non puo' restare inoperante nel mero ambito teoretico ma richiede di essere realizzata ed autenticata in un impegno personale immediato, politicamente ed esistenzialmente qualificato). 2.3. La nonviolenza cosi' definita si fonda su un ragionamento, una scelta e una condotta improntati a responsabilita', verita', amore, apertura all'umanita'. 2.4. La nonviolenza cosi' definita si caratterizza per alcuni precisi principi: rifiuto di uccidere e di provocare lesioni fisiche; rifiuto della menzogna; rifiuto di commettere ingiustizia, di subire ingiustizia, di collaborare con l'ingiustizia; coerenza tra mezzi e fini; esemplarita' della condotta e coscienza del costante riflesso educativo dei nostri atti; compiere solo quelle azioni su cui si possa fondare la civile convivenza. 2.5. La nonviolenza cosi' definita si realizza nel conflitto (e non nella quiete); nella comunicazione (e non nella solitudine); nella trasformazione (ne' nella conservazione, ne' nella distruzione); i tre termini indicati: conflitto, comunicazione, trasformazione, costituiscono per la nonviolenza una necessaria unita'. 3. Scelte morali e coesione psicologica Poiche' la nonviolenza e' eminentemente opposizione all'ingiustizia, chi la sceglie sa di impegnarsi in una lotta consapevole e quindi intransigente, meditata e quindi assai impegnativa sotto molti profili. Occorre dunque che chi abbraccia l'impegno nonviolento sia cosciente che cio' implica che dovra' sostenere il peso psicologico di una scelta di lotta che puo' esporre a molti rischi, a condizioni di solitudine e di incomprensione; che impone la rinuncia a vari privilegi, e implica la possibilita' di trovarsi in condizioni di difficolta'. Occorre quindi avere la capacita' di una adeguata elaborazione dei sentimenti a queste situazioni esistenziali e sociali connessi; la capacita' di una adeguata gestione dell'ansia; la capacita' di efficacemente esercitare il controllo e l'incanalamento costruttivo dell'aggressivita'; un atteggiamento non represso e non repressivo. E' ragionevole che prima ancora di impegnarsi nella lotta nonviolenta si sia riflettuto su tutto cio' e si sia realisticamente valutata la propria disponibilita' e capacita' a tutto cio'. 4. La nonviolenza in quanto comunicazione La nonviolenza e' eminentemente comunicazione; questo implica: a) il riconoscimento dell'altro, il puntare sulla sua umanita'; b) interpretare la lotta come disvelamento, cooperazione, atto di amore al bene e all'umanita'; c) antiautoritarismo ed antidogmatismo, ovvero atteggiamento critico ed autocritico, contestazione radicale del "principio d'autorita'" (anche verso se stessi). 5. La scelta nonviolenta nel vivo del conflitto La nonviolenza si realizza esclusivamente nel conflitto, essa valorizza il conflitto e dove occorre lo suscita. La nonviolenza non e' passivita', fuga, quieto vivere; essa e' azione, impegno, responsabilita' di fronte alle sfide e agli appelli che la realta' pone. L'amico della nonviolenza porta nel conflitto convincimenti profondi, obiettivi ponderati, capacita' operative concrete. Questo implica: a) vivere positivamente la scelta del conflitto; b) la consapevolezza che l'azione nonviolenta e' sempre anche educazione (ed autoeducazione), c) la capacita' di ridefinire i problemi; d) la capacita' di far evolvere le situazioni e i conflitti; e) la capacita' di ascolto e cooperazione anche con l'avversario rispetto a fini sovraordinati che entrambe le parti condividono o apprezzano; f) la capacita' di contestualizzazione di principi, analisi, scelte. Con particolar riferimento a se stessi, tutto questo implica inoltre: g) rifiuto della subalternita' e del vittimismo; h) essere consapevoli della propria forza che e' inerente alla propria integrita' (ovvero alla propria onesta' intellettuale e morale); i) capacita' di mantenere costantemente l'iniziativa. Con particolar riferimento alla controparte tutto quanto precede implica altresi': l) non minacciarne l'annientamento in quanto essere umano; m) offrirgli sempre una soluzione onorevole del conflitto. Con particolar riferimento al rapporto tra antagonisti nel conflitto: n) percepirlo e presentarlo anche come occasione di incontro; o) costantemente mirare ad umanizzare la relazione attraverso un forte impegno comunicativo e propositivo; p) percepire e presentare il rapporto non in termini di esclusione e di annullamento dell'altro, ma di compresenza e di impegno comunque comune, evidenziando che un conflitto e' sempre anche un atto cooperativo, e che le sue dinamiche sono congiuntamente costruite dalle parti; q) puntare con la propria azione alla piu' ampia corresponsabilizzazione possibile; r) saper sempre distinguere l'oggetto contro cui si combatte dalla persona o le persone con cui si combatte, e prefiggersi costantemente un rapporto costruttivo con la parte avversa, riconoscendone le ragioni, offrendo proposte di onesto e valido compromesso, non schiacciandola mai in situazioni insostenibili e senza alternative; s) mirare costantemente a ridurre la violenza, a ricercare terreni di intesa, a costruire rapporti di fiducia. 6. Valori e comportamenti nonviolenti a) La noncollaborazione con l'ingiustizia: che della proposta nonviolenta e' la chiave di volta, infatti l'idea centrale della nonviolenza come forma di lotta contro l'ingiustizia e' che il potere ingiusto per realizzare il suo dominio ha bisogno della complicita' o almeno della passivita' delle sue vittime; il primo passo della presa di coscienza e della lotta nonviolenta e' appunto la rottura della complicita', la cessazione della passivita' dinanzi all'ingiustizia. b) La nonuccisione e il rifiuto di provocare lesioni fisiche agli avversari: tale scelta ha spesso anche l'effetto di ridurre la violenza dell'avversario, e comunque costituisce gia' essa sola una rilevante umanizzazione del conflitto e riduce consistentemente la violenza complessiva indicando concretamente altresi' una diversa e piu' civile gestione del conflitto. c) La nonmenzogna: essa e' ugualmente fondamentale, ed implica altresi' il rifiuto del segreto, della sorpresa, del sotterfugio; e' eminentemente democratica, rinforza la nostra autorevolezza morale, favorisce la costruzione della fiducia (e incidentalmente ci mette al riparo dai provocatori). d) La coerenza tra mezzi e fini: ribaltando la massima secondo cui il fine giustifica i mezzi, la nonviolenza afferma che i mezzi violenti corrompono anche i fini migliori; e' di grande efficacia la similitudine gandhiana per cui tra mezzi e fini intercorre lo stesso rapporto che tra il seme e la pianta. e) Il principio responsabilita': ognuno deve sentirsi responsabile di tutto; ognuno deve avere a cuore le sorti di tutti; ognuno deve sentire la solidarieta' con l'umanita' intera; ognuno deve agire in modo che la sua condotta e la logica che la ispira possa essere ripetuta e riutilizzata in ogni circostanza analoga ed essere sempre moralmente valida (e possa quindi, per cosi' dire, essere istitutiva di una legislazione universale, echeggiando la formula kantiana). f) Ogni azione e' anche educazione: quindi ogni azione deve essere motivata, comprensibile, coerente con il fine del riconoscimento e della promozione della dignita' umana. 7. Dialettiche della nonviolenza La nonviolenza come tanta parte della cultura contemporanea richiede la capacita' di fronteggiare situazioni caratterizzate da indeterminazione, contraddizione, complessita'; richiede quindi un atteggiamento critico e creativo. In particolare a noi sembra che l'adesione alla nonviolenza implichi altresi' la capacita' di sostenere psicologicamente una scelta che ha caratteristiche esistenziali fondamentalmente connotate da duplicita' e dinamismo, e richiede pertanto un notevole "spirito di finezza", ovvero una duttilita' ed un'attenzione, un atteggiamento di apertura e di interpretazione, che e' del tutto incompatibile con atteggiamenti rozzi ed autoritari, prepotenti o servili, predicatori e dogmatici. La nonviolenza e' rivoluzione aperta, e richiede una personalita' ironica e paziente, serena e tenace, combattiva ed antiautoritaria. Indichiamo qui di seguito alcuni profili psicologici implicati dalla scelta dell'impegno nonviolento: a) rinnovamento, ma anche ritrovamento; b) rottura, ma anche fedelta'; c) apertura, ma anche approfondimento; d) ricerca, ma anche saldezza; e) responsabilita' come impegno personale nella dimensione collettiva; f) dialettica tra coscienza (come autonomia morale e responsabilita' personale) e legge (come regole sociali); g) essere ad un tempo dei persuasi (e' la bella formula di Aldo Capitini) ed insieme dei perplessi (e' la non meno bella formula di Norberto Bobbio). 8. Un problema persistente: la violenza Ovviamente la nonviolenza si contrappone alla violenza, ribadirlo e' fin tautologico. Ma questo non risolve tutti i problemi, poiche' la violenza e' comunque una realta', ed il lottare contro di essa implica evidentemente un certo grado di esercizio della forza, che intende certo essere anche persuasiva, ma che nondimeno e' altresì coercitiva. Inoltre non e' banale porre il problema che se il fine della nonviolenza e' quello di contrastare la violenza, ovvero di ridurla per quanto possibile, cio' implica necessariamente non una sorta di astensione assoluta dall'azione, ma agire nel modo piu' radicalmente contrario alla violenza, ovvero nel modo piu' efficace e coerente possibile. Qui si aprono numerosi problemi degni di discussione, su cui ha spesso particolarmente insistito nelle sue fini e rigorose analisi Giuliano Pontara, ma che nessuno dei grandi protagonisti delle lotte nonviolente ha mai eluso, da Gandhi a Lanza del Vasto, da Aldo Capitini a Martin Luther King, da Danilo Dolci a Lorenzo Milani, a molti altri. Le impostazioni sono state molto varie, e le risposte anche. A titolo d'esempio e per un primo accostamento rinviamo a Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino; e ad AA. VV., Violenza o nonviolenza, Linea d'ombra, Milano. 9. Un'ipotesi etico-politica 9.1. Il nostro approccio alla nonviolenza non e' di tipo essenzialista, o metafisico; non implica un fondamento religioso o ontologico. Il nostro, quello che qui proponiamo, e' un approccio meramente razionale. Naturalmente altri studiosi e soprattutto molti attivisti della nonviolenza, hanno approcci diversi, in cui il riferimento religioso o metafisico e' assolutamente determinante. Il nostro approccio e' piu' modesto e limitato; tuttavia proprio per questo esso presenta forse il vantaggio di essere piu' agevolmente discutibile - ed eventualmente accoglibile - in quanto non presuppone l'accettazione di questioni di principio talmente cruciali, peculiari e impegnative per cui diviene impossibile addivenire ad un accordo se si muove da diverse posizioni filosofiche, religiose, politiche, esistenz iali. Abbiamo la presunzione di ritenere che l'approccio da noi proposto consente di discutere la nonviolenza a partire da posizioni anche molto diverse e - cio' che piu' conta - mantenendole (ovviamente, con la nonviolenza arricchendole ed eventualmente approfondendole qualora essa venisse accolta ed integrata nel proprio sistema di idee generali); abbiamo la speranza che l'approccio da noi proposto sia compatibile con diverse posizioni religiose (ateismo compreso), con diverse posizioni politiche (nell'ampio campo che va dal liberalismo al comunismo, dalle varie proposte democratiche, personaliste, socialiste, fino all'anarchia), con diverse posizioni filosofiche e morali (gli studi di Giuliano Pontara, in particolare, hanno apportato decisivi contributi in questo ambito). 9.2. Detto questo, vorremmo tuttavia aggiungere due specificazioni ulteriori che in qualche misura contribuiscono a fondare il nostro approccio, che proponiamo come ipotesi di lavoro ma alle quali almeno noi siamo molto legati, e che sono le seguenti: a) un'etica della felicità sobria; b) un fondamento gnoseologico fallibilista. 9.2.1. La prima, un'etica della felicita' sobria: e' resa particolarmente necessaria dalla consapevolezza ecologica; dall'esigenza di una giusta ripartizione delle risorse e dalla cognizione della loro scarsita' ed esauribilita'; dall'impegno al riconoscimento ed alla promozione dei diritti umani per tutti gli esseri umani. La scelta della nonviolenza non e' una scelta masochista, ma di liberazione; la sua prospettiva e' la felicita' umana per quanto essa sia realizzabile nel quadro di una condizione biologica caduca e peritura. La felicita' possibile e generalizzabile e' una felicita' sobria, e quindi saggia, rispettosa degli altri e della biosfera, conviviale, accogliente, sollecita, sensibile. 9.2.2. Il secondo, un fondamento gnoseologico fallibilista: che e' indispensabile cuore della democrazia: la coscienza della nostra fallibilita' e' l'assioma su cui fondiamo il nostro atteggiamento razionale e ragionevole tanto in ambito teoretico quanto in ambito pratico, nella logica, nella morale, nella politica; senza questa consapevolezza non si da' democrazia, non si danno piene liberta', non si danno uguaglianza e diversita'. La pretesa di infallibilita' e' sempre antiscientifica, immorale, antidemocratica, totalitaria; coercitiva e coatta sul piano della psicologia come su quello del diritto, sul piano sociale come su quello esistenziale; essa lede radicalmente lo sviluppo della cultura e la civile convivenza, e denega la dignita' personale. Poiche' nelle aree culturali di prevalente riferimento per le persone maggiormente impegnate per la pace e la liberazione frequentissimamente dominano visioni del mondo chiuse, rigide, con pretese onniresponsive, ci permettiamo di insistere energicamente su questo punto: il nesso tra liberta' e fallibilita', la necessita' di un approccio fallibilista (non ci dilunghiamo oltre rinviando piuttosto al brillante agile libro di Dario Antiseri, Liberi perche' fallibili che segnaliamo in bibliografia). 10. Per l'approfondimento, una bibliografia essenziale 10.1. Per un percorso minimo: Giuliano Pontara, La personalita' nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996 (particolarmente il capitolo secondo); Dario Antiseri, Liberi perche' fallibili, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995; Alberto L'Abate (a cura di), Addestramento alla nonviolenza, Satyagraha, Torino 1985. 10.2. Per un approfondimento più rigoroso: Gene Sharp, Politica dell'azione nonviolenta, tre volumi, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1985-1997; Immanuel Kant, Critica della ragion pratica, disponibile in varie edizioni; Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin, Don D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1971; Theodor W. Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino; Giovanni Jervis, Manuale critico di psichiatria, Feltrinelli, Milano, piu' volte ristampato; Guenther Anders, Tesi sull'eta' atomica, Centro di ricerca per la pace, Viterbo 1991; Hans Jonas, Il principio responsabilita', Einaudi, Torino 1993; Franco Fortini, Una voce: comunismo, Centro di ricerca per la pace, Viterbo 1990; Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, piu' volte ristampato. 6. RIFLESSIONE. GIOBBE SANTABARBARA: SENZA GIRARCI INTORNO [Giobbe Santabarbara, si sa, esprime nel modo suo aspro preoccupazioni grandi del "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo] La tragedia avvenuta giorni fa su un treno in Toscana brutalmente ci interpella. Interpella il movimento che si oppone alla guerra, e che per credibilmente, onestamente, limpidamente opporsi alla guerra deve opporsi anche al terrorismo, come alle dittature e ai poteri criminali, come a tutte le uccisioni; deve opporsi all'uso (e dunque anche alla produzione e al commercio) delle armi, deve opporsi agli armigeri e agli eserciti tutti; deve opporsi ad ogni logica ed organizzazione criminale, militare, assassina. Deve opporsi all'uccidere e a tutto cio' che a tale fine e' inteso ed atto. Le solite, rituali, meccaniche espressioni di cordoglio non bastano. Anche se sincere, sanno di ipocrisia, di retorica, e quindi - implicitamente e al di la' delle migliori intenzioni e delle percezioni soggettive - di resa (e per essere chiari fino in fondo: e' di resa e di complicita' l'impressione che fanno le seriali dichiarazioni di governanti e legislatori che ad ogni nuovo omicidio riciclano il solito repertorio di querimonie, di furbizie, di tentativi di usare i cadaveri come gradini per progredire nelle loro carriere e combutte: a questa gente che non esita a calpestare le spoglie degli uccisi e' bene che chi vuole impegnarsi per la pace si sforzi di non assomigliare ne' poco ne' punto). Occorre invece e dunque trarre delle conseguenze. Occorre passare dal dire al fare. * Occorre che tutto il movimento per la pace faccia senza piu' alcuna esitazione la scelta della nonviolenza. Occorre che tutto il movimento per la pace faccia luce in se stesso - che ogni singola persona che si sente impegnata per la pace interroghi se stessa - ed assuma una posizione netta e non ambigua di opposizione non solo ad ogni forma di terrorismo, ma anche ad ogni forma di uso della violenza. Sciagurate idiozie commesse in passato da molti, come certi deliranti slogan e certe ignobili azioni e certi atteggiamenti irresponsabili e fascisti, non sono ammissibili. Sciagurate idiozie tollerate in passato da troppi, come le "dichiarazioni di guerra" ai potenti del G8, non sono ammissibili. Sciagurate idiozie come le farneticazioni sulla "guerra giusta" e la "violenza sacrosanta" a seconda del colore delle divise dei plotoni d'esecuzione; sciagurate idiozie come la complicita' e addirittura l'ossequio agli sprangatori e ai provocatori; sciagurate idiozie come l'organizzare iniziative pubbliche senza prendersi cura di fare tutto tutto tutto il possibile perche' nessuno sia esposto alle percosse e alla morte; ebbene, tutto cio' non e' ammissibile. Proprio perche' sempre piu' dovremo agire contro la guerra con l'azione diretta nonviolenta; proprio perche' e' ragionevole ritenere che saremo nuovamente chiamati nei giorni che ci attendono ad assumere in prima persona la responsabilita' di fermare la macchina bellica con l'azione diretta nonviolenta in difesa della legalita' costituzionale e del diritto internazionale per salvare le vite umane che la guerra minaccia; e quindi proprio perche' dovremo anche ancora violare norme pagandone il prezzo (da amici della nonviolenza che per dovere morale e misericordia, in nome di una legalita' superiore e cogente, talvolta si trovano nella necessita' di dover violano leggi per contrastare ingiustizia e violenza, sapendo quel che fanno e accettando la pena che ne consegue); e dovremo esporci a rischi essendone consapevoli; e dovremo chiamare alla lotta nonviolenta tante e tanti; ebbene, proprio per tutto questo dobbiamo tutti illimpidire e rigorizzare le nostre riflessioni, le nostre parole, i nostro atteggiamenti, i nostri gesti: contro ogni ambiguita', contro ogni confusione, contro ogni vilta': contro tutte le violenze. La scelta della nonviolenza e' qui e adesso il passo indispensabile da fare per chiunque voglia impegnarsi contro la guerra. Chi non fa questa scelta non puo' dare alcun utile contributo a contrastare la guerra. * Lo diciamo da anni, lo ripetiamo una volta ancora. Chi non sceglie la nonviolenza non e' un nostro compagno di lotta; chi non sceglie la nonviolenza e' complice della guerra poiche' di essa condivide la logica e le radici, l'ideologia e le dinamiche. Per questo non ci basta ripetere una volta di piu' la nostra condanna del terrorismo, di tutti i terrorismi: quello individuale, quello di gruppi economici e politici, quello dei poteri criminali e delle organizzazioni militari, quello degli stati. Alla condanna del terrorismo vogliamo, dobbiamo anche aggiungere una richiesta, un appello, ai tanti che che vogliono impegnarsi per la pace ma ancora sono subalterni a ideologie, linguaggi, rituali, pratiche, azioni ed atteggiamenti autoritari, militaristi, viriloidi, irresponsabili, necrofili: che escano dalla subalternita' alla cultura della sopraffazione, della guerra, della morte: che guardino dentro di se' e scelgano di rendere coerenti finalita' e metodi, mezzi e fini del proprio agire: che scelgano la nonviolenza, unica via per la liberazione dell'umanita', unica via per salvare il mondo in pericolo. * Io che scrivo queste righe ricordo gli anni in cui l'Italia era ogni giorno insanguinata dagli eccidi: dalle stragi di stato della strategia della tensione, dai massacri dei gruppi terroristi, dal dilagare della guerra mafiosa. E ricordo come molti, troppi, oscenamente cavillavano invece di condannare tutte le stragi; come molti, troppi, stavano a storicisticamente discettare sulle ragioni degli assassini; come molti, troppi, si lasciavano affascinare dalla potenza delle armi, e dimenticavano che quei grumi di carni sanguinolente per le strade erano stati ancora un attimo prima donne e uomini come te, come me, palpitanti di brama e fatica di vita, e che anch'essi avevano diritto a qualche sorso ancora del lume dei giorni; e a nessuno deve essere dato di esercitare il piu' atroce, esecrando e abominevole di tutti i mestieri che l'infamia umana abbia ideato lungo questa preistoria, il mestiere del boia, dell'uccisore - figura che dopo Auschwitz ed Hiroshima deve cessare di esistere per sempre se vogliamo che l'umanita' sopravviva. Io che scrivo queste righe ricordo ancora la barbarie di allora, e vedo come oggi troppi, anche nel movimento per la pace, ne riproducano alcuni dei tratti (l'uso della menzogna, la negazione della dignita' altrui, la pretesa di essere detentori di verita', il giustificare in chi si ritiene alleato o vicino cio' che si troverebbe intollerabile negli avversari, modalita' di pensiero e di azione gia' palesemente totalitarie). E ne ho disgusto, orrore, paura. E a tutti voglio ancora e ancora dirlo, chiaro e forte: cessi ogni collusione, cessi ogni ambiguita': chi vuole impegnarsi per la pace deve fare la scelta della nonviolenza, e deve separarsi da chi e' ambiguo su cio' su cui ambigui non si puo' essere: occorre affermare il diritto alla vita di ogni essere umano, il ripudio assoluto dell'uccidere, la piu' intransigente opposizione alla violenza. * Se ci si persuade di questo si sciolgono molti equivoci. E, ad esempio, diventa chiaro quanto segue: - non si da' opposizione alla guerra senza opposizione alla produzione, al commercio, all'uso delle armi; - non si da' opposizione alla guerra senza opposizione agli eserciti; - non si da' opposizione alla guerra senza azioni dirette nonviolente che quella opposizione inverino; - non si da' opposizione alla guerra se essa non e' intransigente: intransigente opposizione a tutte le guerre, a tutti i terrorismi, a tutte le dittature. * Noi pensiamo che occorra prendere sul serio l'articolo 11 della Costituzione della Repubblica Italiana, che e' inequivocabile nel suo comando: "L'Italia ripudia la guerra". E quindi sancisce che chi guerra vuole, esegue, sostiene, promuove o favoreggia e' un criminale stragista e golpista; ovvero sancisce che e' compito primo e ineludibile delle istituzioni e dei cittadini italiani tutti opporsi alla guerra, impedire la guerra: cioe' che e' nostro dovere non solo non fare la guerra, ma anche impedire che altri la faccia. * Questo dovevamo pur dire. E adesso piango chi e' stato ucciso. 7. LIBRI. LAURA FORTINI PRESENTA "IL CENTRO DELLA CATTEDRALE" DI MONICA FARNETTI [Dal quotidiano "Il manifesto" del 14 marzo 2003] A fronte dell'assenza di una tradizione critica consolidata sulle scrittrici italiane, per leggere le loro opere sono necessarie alcune doti. Come orecchi sensibili ai ritmi di scritture che nello scarto dalla tradizione letteraria trovano una ragion d'essere, oltre che posizionamento piu' o meno esplicito; occhi capaci non solo di vedere le opere scritte da donne - finora neppure intraviste, se non in modo del tutto episodico, dalla critica letteraria -, ma ancor piu' di intessere una visione d'insieme, di guardare alle scritture delle donne non come un unicum isolato ma come un insieme differenziato, ma certo non per questo omologato; infine una capacita' di narrazione critica che non subissi il testo letterario nell'ego di chi scrive, ma riesca a mettersi in relazione con esso. Sono doti che Monica Farnetti possiede tutte, come ha dimostrato nei suoi numerosi interventi negli anni passati su Cristina Campo e Anna Maria Ortese, e come esemplarmente testimonia Il centro della cattedrale. I ricordi d'infanzia nella scrittura femminile (Tre Lune, pp. 152, euro 15) dedicato ai ricordi d'infanzia nelle scritture di Dolores Prato, Fabrizia Ramondino, Anna Maria Ortese, Cristina Campo, Ginevra Bompiani. Gia' il titolo molto dice sulle linee guida di una ricerca non certo episodica, quel "centro della cattedrale" di woolfiana memoria che in Momenti di essere e' indicata essere l'infanzia, al cui centro, appunto, "fin dall'inizio vi e' la madre". La felicita' della narrazione di Virginia Woolf e' evocata per fondare la lettura molteplice di un genere tutto proprio della scrittura delle donne, quello dei ricordi d'infanzia, innervati su quello che Farnetti definisce il paradigma dell'"esperienza", piuttosto che della "vita" in senso metafisico. Perche' qui non si tratta solo di autobiografia, genere tutto moderno nei suoi statuti definitori, ma di qualcosa d'altro, distante nelle sue linee guida da quella costruzione dell'io di marca strettamente occidentale e universale, che prevede l'artificio di un se' compatto e coerente nello spiegare le ragioni della propria vita, e che anche quando si confronta con l'infanzia, "spesso si tratta di una compiaciuta immersione nel mitico decor personale, popolato di fragili fatti e di immagini convenzionali anzicheno', al fine esclusivo di protrarne il personale, estatico privilegio", come nota Farnetti. Si tratta infatti di opere che, come spesso accade alle scritture di donne, in vario modo sperimentano forme e stili dell'enunciazione, ponendo l'accento su di un se' che guarda all'infanzia come luogo dell'origine tutto da indagare e interrogare, e cosi' facendo mettono in crisi e contestano nella mescidanza stessa della lingua lo statuto dei generi e la tradizione letteraria, negligentemente trasgredita, quando non ignorata. Negligenze commesse ai danni di un ordine costituito, dovute al semplice fatto che in quell'ordine esse non si riconoscono scrive Farnetti, che bene indicano l'esercizio di liberta' delle scrittrici da lei scelte per la sua riflessione, liberta' evidente a chiunque abbia letto le pagine di Giu' la piazza non c'e' nessuno di Dolores Prato come quelle ben piu' scarne di Cristina Campo, o, ancora, la scrittura volutamente al confine tra saggio e romanzo dell'Althenopis di Fabrizia Ramondino, magnificamente "inconsulta" de Il porto di Toledo di Anna Maria Ortese, eccentrica, ma non bizzarra, de L'orso maggiore di Ginevra Bompiani. Liberta' rigorosa, perche' occorre esercizio continuo per guardare alla propria infanzia e colloquiare con essa passando attraverso il dolore della perdita della madre, e l'elaborazione di un lutto che determina il se' presente, il suo modo di stare al mondo. Liberta' che si ancora, nota bene Farnetti, allo spazio e alla lingua materna nel cui segno si svolge l'inchiesta autobiografica di queste scrittrici, consapevoli della responsabilita' di un'enunciazione e dei propri magnifici errori, che siano nell'ordine il dilatarsi della descrizione sulla narrazione come nel caso di Prato, l'apparente tradimento della lingua nazionale in Ramondino per un bilinguismo italo-ispanico che, come nella lingua dell'Ortese, non ha niente a che vedere con l'impiego dello spagnolo volta a volta caricaturale, grottesco, moralistico di un Gadda, Pirandello: lo spagnolo, come la scrittura apparentemente e discretamente non autobiografica di Cristina Campo, diviene un modo "meridiano" per entrare nel difficile terreno dell'infanzia, per comporre la "sintassi" di vita, di Cristina Campo (sono parole sue) come delle altre. Sintassi sostanziata di spazi e descrizioni che impastano la materia del narrare in maniera talmente correlata all'esperienza che Farnetti sceglie di titolare le partizioni del suo pensare critico con i nomi di luoghi ritenuti da queste scrittrici fondativi e irrinunciabili per dialogare con l'infanzia: Treja per Dolores Prato, Althenopis per Ramondino, Toledo per Ortese, San Michele in Bosco per Campo, Les Marmousets per Bompiani. Non semplici scenari ma "l'elettiva metonimia, la parte per il tutto, dell'infanzia stessa" (cosi' Farnetti nell'introduzione). Figura della metonimia piuttosto che della metafora - e il riferimento primo va, come e' giusto, a Maglia o uncinetto di Luisa Muraro - sulla quale converge spesso lo stile dell'enunciazione delle scrittrici italiane, motivo probabile, insieme ad altri, di inimicizia tra la critica e le scrittrici in Italia. Ma e' proprio quest'aderenza all'esperienza piuttosto che alla sua trasfigurazione astratta che ha fatto si' che le scrittrici, oltre a scrivere libri capitali, abbiano salvato le sorti del romanzo italiano del '900, come sottolinea Farnetti. Piu' che autobiografie, quindi, che volutamente la Societa' italiana delle Letterate ha denominato "Grafie del se'" in un suo convegno del 2000 (pubblicato in quattro volumi nel 2002 per i tipi della Adriatica editrice), racconti di formazione, Bildungsroman, o ancora, come preferisce Farnetti, Figurenroman, romanzo dell'individuo: l'atlante letterario delle infanzie femminili e' fatto infatti anche della Mosca di Marina Cvetaeva, del Mont Noir di Marguerite Yourcenar, della Sonnenplatz di Christa Wolf, con un respiro che pone le loro opere ben al di la' dei confini posti dalle storiografie letterarie nazionali. Prato come Ortese, Ramondino come Campo, Bompiani, e molti altri nomi e opere che bene potrebbero corrispondere alle qualita' delineate in questo denso percorso sul racconto d'infanzia, colloquiano a livello europeo con tutte loro, che affidano all'atto della narrazione il senso della propria esistenza. 8. LIBRI. LUCIANA VIVIANI PRESENTA "VOLEVAMO CAMBIARE IL MONDO" [Dal quotidiano "Il manifesto" del 14 marzo 2003] Nelle Udi [la storica sigla dell'Unione Donne Italiane - ndr] emiliane-romagnole e' cresciuto, negli ultimi anni, il desiderio di raccontarsi, orgogliose della loro storia e piu' pronte ad interrogarsi con liberta' - azzerando vecchi e consolidati stereotipi - sulla propria specificita', vale a dire su quel di piu' e di diverso che le ha connotate rispetto a tutte le altre Udi. A questa felice stagione creativa appartengono interessanti pubblicazioni. Tra queste cito: Con cuore di donna. L'esperienza della guerra e della resistenza. Narrazione e memoria (a cura di Delfina Tromboni e Liviana Zagagnoni. Nella serie "Quaderni" dell'Archivio storico di Ferrara, marzo '98). L'ultimo della serie e': Volevamo cambiare il mondo. Memoria e Storia delle donne dell'Udi in Emilia Romagna, a cura di Caterina Liotti, Rosangela Pesenti, Angela Remaggi, Delfina Tromboni (Carocci editore, pp. 283, euro 20,50). Il libro raccoglie le interviste a 99 donne che hanno legato la propria vicenda personale a quella dell'Udi, semplici militanti accanto a dirigenti locali e regionali. Tutte donne che parlano in presa diretta, senza la mediazione di "maitre-a-penser", e grazie a cio', i loro testi rimandano la sincerita' e la freschezza di ciascuna che si racconta e la varieta' dei contesti temporali e sociali che fanno loro da sfondo. L'impresa editoriale ha richiesto anni di lavoro da parte di un agguerrito ed esperto gruppo di ricercatrici, forti di una griglia di domande studiate con l'intento di non ingessare le singole storie, ma farle rivivere schiette, sincere, genuine. A raccontare questo "dietro le quinte" e' Caterina Liotti, un'esperta ricercatrice archivistica che, tra l'altro, ha ordinato e informatizzato l'archivio storico dell'Udi di Modena. Delfina Tromboni, nel suo testo Di donna in donna. Ritratti in punta di penna (1945-1960), guida la lettrice e il lettore a navigare nell'intricato arcipelago di queste parole di donne, riuscendo a cogliere il senso piu' profondo di cio' che esse vogliono comunicare. Delfina e' una timoniera di riconosciuta esperienza perche' riesce sempre a fare tutt'uno della sua alta professionalita' archivistica con la sua cultura e passione politica. E infatti, ecco che ti tira fuori dal sacco per esempio una prima provocazione: l'Udi, negli anni della ricostruzione, e' stata soltanto, una semplice cinghia di trasmissione dell'allora Partito Comunista Italiano? A giudicare da alcuni dati numerici che Delfina puntigliosamente fa parlare da soli, risulta quanto questo luogo comune debba essere almeno riesaminato; a Ferrara nel 1948 l'Udi aveva 40.000 inscritte, distribuite in 133 circoli, mentre quasi in quegli stessi anni il Pci e il Psiup insieme non ne raccoglievano piu' di 24.000. E allora, si puo' azzardare l'ipotesi che le battagliere donne ferraresi, portatrici forse ancora inconsapevoli di una forte soggettivita', navigando a vista, in un percorso irto di ostacoli, tra organizzazioni della sinistra, partiti, sindacati, cooperative, Anpi e quant'altro, siano approdate all'Udi, non come ad una organizzazione parallela, ma anzi, conflittuale e antagonista? Al fine di sostenere questa ipotesi si porta il caso di Margherita Fabbri (Ghita, nella Resistenza), responsabile dell'Udi di Argenta, la quale, pur avendo nel suo portafoglio le tessere di tutte le organizzazioni della sinistra, lascia come ultima volonta', di venire accompagnata nell'"ultimo viaggio" dalla sola bandiera dell'Udi. "Quanta soggettivita' - si chiede Delfina - c'e' nel gesto che si esplicita con forza dirompente, soltanto nel momento in cui occorre lasciare l'ultima immagine di se', praticare l'ultimo passaggio di testimone?". A ben vedere, quello che connota la specificita' delle Udi di questa regione non e' tanto e non solo la potenza dei numeri, cioe' le cifre da primato delle tesserate, che pure e' un dato indubitabile di realta', quanto la presa di coscienza collettiva, direi l'orgoglio, cresciuto dentro in tutti questi anni e finalmente portato allo scoperto, di aver dovuto misurarsi con un modello di societa' fortemente strutturata politicamente, socialmente e culturalmente, cosi' "aperta" ad ogni istanza di progresso e, allo stesso tempo, cosi' radicalmente patriarcale. Questo incontro/scontro non ha forse costretto queste donne a dover sviluppare con anticipo una soggettivita' femminile ancor prima dell'incontro con il femminismo? Se lo chiede Lia Randi in un interrogativo che ha gia' in se' la risposta. Le fa eco la ravennate Simona Ventura che osa nominare esplicitamente la parola patriarcato e lucidamente centra la questione: "piu' alto che altrove, il livello di trasgressione richiesto in un territorio come l'Emilia Romagna, da subito fortemente connotato a sinistra e contestualmente contraddistinto da una struttura socialmente patriarcale, per esporsi alla scena pubblica, non tanto come soggetto 'rivoluzionario' (apprezzato dal comune sentire), quanto come soggetto di sesso femminile (vissuto invece - sempre nel comune sentire - come 'intralcio' alla rivoluzione". Sempre su questo strano bisticcio tra conservazione e rivoluzione si getta con passione Franca Foresti nel suo ultimo tempo di vita, investendo la sua intelligenza politica e il suo carismatico prestigio nella creazione di una struttura di ricerca che studiasse a fondo il fenomeno. Per questa sua iniziativa Franca dovette fronteggiare - e lo fece con grande coraggio - una forte opposizione e non sempre alla luce del sole, che le procuro' non poche amarezze. Si trattava pur sempre, a quei tempi (si era alla fine degli anni '80) di un campo minato che lambiva il potere, di un grosso sasso nello stagno, di una voce critica che usciva dal coro. La liberta' e la sincerita' con cui questo volume riaffronta questo tema, ci da' la misura di quant'acqua e' passata sotto i ponti della ricerca storica. Anche sul tema del separatismo, il libro apre una nuova pagina di riflessione, partendo dalle esperienze che le donne intervistate raccontano. Tante di loro, imbrigliate nella rete di un doppio percorso politico, quello dell'emancipazione tra le donne e con le donne dell'Udi, e quello del riscatto sociale e politico delle classi subalterne, nel partito e nel sindacato, hanno dovuto altalenare fra l'incontro e lo scontro, non solo con gli uomini delle proprie famiglie, ma anche con "i compagni" con cui pure condividevano alti ideali e concretissime azioni e lotte politiche. Molte di loro infatti, forse tutte, e forse non a torto, pensavano che, per "costruire un mondo nuovo", questi uomini dovessero essere rieducati, e non abbandonati a se stessi e al danno che, se lasciati soli, avrebbero certamente continuato a fare. Il sentimento piu' forte che ricavo dalla lettura di questo libro e' l'ammirazione per queste meravigliose donne qualunque che hanno raccontato di se' con la consapevolezza di aver scritto una importante pagina di storia. Dice per esempio Laura Polizzi, "Mirka": "nella concretezza dei progetti che mettevamo in campo, asili per i bambini, vetri per le finestre delle scuole, manifestazioni contro il carovita... queste iniziative erano accompagnate da una capacita' organizzativa straordinaria, una complessa capacita' di progettazione e di direzione squisitamente politica. Dove trovavamo queste capacita' di organizzare, che eravamo tutte operaie e contadine?" e piu' avanti continua: "cosa attraeva tante donne all'Udi? Esserci trovate dentro legami affettivi oltre che politici di un valore immenso. Legami tra donne poverissime e senza strumenti culturali. Avevamo solo la cultura della miseria e della solidarieta'". A donne come questa migliaia di mamme napoletane, nell'inverno del 1946, affidarono per tre mesi i figli piu' grandicelli, vittime innocenti di una guerra che aveva devastato la citta' e impresso sui corpi le stimmate della denutrizione, delle malattie e del freddo, perche' potessero ritemprarsi. Con grande slancio di generosita' si aprirono le case dei mezzadri, dei coloni, dei braccianti, degli operai, si fece a gara per farsi assegnare il piccolo napoletano da accudire come figlio tra i figli. Una bella pagina di storia italiana scritta dall'Emilia Romagna e, soprattutto dalle sue donne. E io, che mai dimentico di essere anche napoletana, dico ancora grazie. 9. PERIFRASI. ALFONSO CORTAGARGANTA: SEI UTILISSIME RACCOMANDAZIONI AL MOVIMENTO PACIFISTA (OVVERO BREVE CORSO DI MASOCHISMO COLLETTIVO AD USO DI BRILLANTI CARRIERE INDIVIDUALI) La prima: farsi rappresentare da persone che resistono piu' sott'acqua che lontano dalla televisione. La seconda: farsi rappresentare da persone che campano dell'assalto alla diligenza dei soldi pubblici. La terza: farsi rappresentare da persone che sono contro la guerra quando stanno all'opposizione e diventano a favore quando stanno al governo. La quarta: farsi rappresentare da persone che sono ambigue sulla violenza e fanno sistematico uso della menzogna. La quinta: farsi rappresentare da persone autoritarie, militariste e maschiliste. La sesta: farsi rappresentare. * Senza neppure uno svolazzo finale? Chiede il narratore alla morte in un libro di Hemingway. Senza neppure uno svolazzo finale. 10. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 11. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it; angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 536 del 15 marzo 2003
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