La nonviolenza e' in cammino. 536



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 536 del 15 marzo 2003

Sommario di questo numero:
1. Maria G. Di Rienzo, propaganda bellica e inquinamento linguistico
2. A Tuscania e a Gubbio ricordata Marianella Garcia
3. Benito D'Ippolito, ai partecipanti all'incontro di Assisi
4. I sei punti del "Manifesto 2000 per una cultura della pace e della
nonviolenza"
5. Aspetti psicologici dell'impegno nonviolento
6. Giobbe Santabarbara, senza girarci intorno
7. Laura Fortini presenta "Il centro della cattedrale" di Monica Farnetti
8. Luciana Viviani presenta "Volevamo cambiare il mondo"
9. Alfonso Cortagarganta, sei utilissime raccomandazioni al movimento
pacifista (ovvero breve corso di masochismo collettivo ad uso di brillanti
carriere individuali)
10. La "Carta" del Movimento Nonviolento
11. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. MARIA G. DI RIENZO: PROPAGANDA BELLICA E INQUINAMENTO
LINGUISTICO
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: sheela59 at libero.it) per
questo intervento. Maria G. Di Rienzo e' una delle principali collaboratrici
di questo foglio; prestigiosa intellettuale femminista, saggista,
giornalista, regista teatrale e commediografa, formatrice, ha svolto
rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento
di Storia Economica dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel
movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta'
e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza]
L'influenza che il linguaggio ha sui nostri schemi e processi di pensiero e'
un dato sostenuto da oltre trenta anni di ricerche linguistiche. Siamo meno
consapevoli, pero', del fatto che il tipo di linguaggio che usiamo influenza
in modi significativi anche il nostro comportamento.
La militarizzazione della lingua italiana si e' sedimentata in un lungo
periodo di tempo ed il risultato e' che noi formuliamo concetti con un
linguaggio atto ad impedire, piuttosto che a conseguire, la costruzione di
pace.
Le metafore militari applicano a situazioni non militari il loro
significante.
Ovviamente non sono le sole: noi usiamo metafore che appartengono al lavoro
della terra ("mettere il carro davanti ai buoi") o ad altri mestieri umani
("battere il ferro finche' e' caldo"). Si potrebbe dire che le metafore
militari sono altrettanto innocue, e che servono a rendere la comunicazione
piu' "colorata", piu' vivace (ma sono tutte metafore di morte e violenza), o
a portare nuove prospettive nel discorso.
Cio' che preoccupa chi studia i loro effetti non e' il loro uso in se', ma
gli schemi che esso produce a livello metacognitivo.
Una delle metafore che intride la nostra vita quotidiana e': "discutere e'
uguale a combattere": "La tua posizione e' indifendibile", "Ho ancora
qualche arma da usare", "Hai colpito il bersaglio", "Se usi questa
strategia, verrai spazzato via", "Abbiamo serrato i ranghi e loro hanno
dovuto battere in ritirata", "Non sei d'accordo? Va bene, spara", "Il nostro
schieramento ha vinto", "Lo hanno fatto fuori", e cosi' via.
E sebbene siano a nostra disposizione molte espressioni alternative, noi ci
riferiamo all'amore come se fosse una guerra ("in guerra e in amore tutto e'
lecito"): "Ha combattuto per lui, ma ha vinto sua moglie", "L'ho vinta con
fatica", "E' assediata dagli spasimanti", "E' un vero conquistatore", "Sto
guadagnando terreno con lei", "Ha aperto una breccia nel suo cuore".
Dunque: discutere e' guerra, amare e' guerra, ma non basta: la politica e'
guerra ("Questa legge manca il bersaglio", "L'attacco dell'opposizione",
"Abbiamo combattuto per le modifiche", "La disfatta della coalizione"), le
elezioni sono guerra, l'economia e' guerra, il mercato e' guerra e persino
la protezione dell'ambiente e' guerra ("Le battaglie ambientaliste").
Si tratta di metafore strutturali, che tendono a divenire l'ossatura del
nostro modo di concepire i valori: ovvero, non esistono come idee separate,
ma sono legate l'una all'altra e organizzate sistematicamente ad un livello
ideologico.
Il linguaggio dei giornalisti, dei politici e frequentemente persino dei
diplomatici, accetta e promuove la guerra come atto normale, quotidiano, per
regolare i conflitti (legittimazione); promuove attitudini ed incoraggia
azioni che creano le condizioni per arrivare ad una guerra (propagazione);
crea l'immagine tipo del "nemico" essenziale a far nascere e a mantenere
l'ostilita' che rende accettabile la guerra (giustificazione).
*
Una volta che si sia divenuti coscienti del tipo di metafore che usiamo,
dovremmo fare lo sforzo di educarci ad usarne altre, sviluppando la nostra
abilita' nel decodificare il linguaggio metaforico e il nostro pensiero
critico su di esso:
1) Riconoscendo le limitazioni delle metafore.
Certo, sono utili per ampliare la nostra comprensione e possono esserci
familiari, ma se noi pensiamo che "discutere e' uguale a combattere", questo
concetto non e' neutro: nasconde in se' l'attitudine con cui ci presenteremo
a discutere e ci fa perdere l'opportunita' di cooperare, di condividere, di
imparare dai punti di vista espressi da un'altra persona.
2) Diventando piu' autocritici allo scopo di migliorare le nostre capacita'
comunicative.
Molti discorsi usano un linguaggio metaforico che non si accorda allo scopo
di chi li fa. Articoli medici, di medicina tradizionale o alternativa, usano
una profusione di metafore concettuali a sostegno di quella strutturale
"prevenire la malattia e' una guerra". Il lettore/la lettrice che concorda
con tali testi e' mentalmente predisposto/a a "combattere" per la propria
salute. Pero' gli stessi testi terminano spesso con un consiglio del genere:
"Gli studi hanno provato che i sentimenti di ostilita', producendo stress,
riducono i livelli del sistema immunitario. Percio' essere in pace ed
armonia con il vostro mondo effettivamente aumenta la capacita' del vostro
corpo di resistere alle infezioni". E allora? Devo combattere o stare in
pace? Dobbiamo assicurarci che il linguaggio che usiamo sia conseguente al
messaggio che desideriamo mandare all'esterno.
3) Incoraggiando la creativita' attraverso l'uso di metafore alternative.
Supponete che, anziche' pensare ad una discussione in termini di guerra, noi
la si pensi come una danza ("conversare" significa etimologicamente "danzare
insieme"): quali grappoli concettuali deriverebbero da tale metafora? In
quali differenti modi esporremmo le nostre argomentazioni?
Potremmo dire: "Non eravamo in sintonia, allora ho provato a cambiare
passo", "Abbiamo organizzato l'incontro in modo che tutte e tutti potessero
muoversi liberamente", "A un certo punto mi ha pestato un piede, cosi'
abbiamo capito che dovevamo riposizionarci rispetto allo spazio della
discussione".
Puo' essere difficile all'inizio accettare un cambiamento creativo di questo
tipo, quando tutte le metafore gia' presenti non concepiscono un dialogo se
non in termini di guerra, e potremmo concludere, osservando i concetti
derivanti dalla metafora-danza che essi non sembrano affatto descrivere una
discussione quale noi la conosciamo: perche' questo e' un potere delle
metafore, ovvero quello di controllare, definire e limitare il nostro
pensiero. Ma esse detengono anche il potere di rinnovarlo e ricostruirlo.
*
L'ipocrisia con cui si sostiene la necessita' della guerra e della violenza
e' una sorta di malattia culturale delle nostre vite. Si presuppone che essa
ci lasci desensibilizzati, muti, ciechi e passivi. Soprattutto, ci incastra
nell'esaltazione dei "valori" militari: una lotta per la liberta', per la
giustizia sociale, per la pace, diventa una battaglia, un "piano di guerra":
letteralmente, i giornalisti stanno usando questo paragone rispetto alle
prossime azioni pacifiste in programma. Ho letto di come vorremmo "alzare il
livello dello scontro", di come vorremmo "abbandonare la lentezza delle
azioni nonviolente per passare a sit-in e occupazioni" (e qui si rivela
tutta la colpevole ignoranza di chi scrive, che non sa neppure cosa sia
un'azione diretta nonviolenta), delle nostre "tattiche e strategie", di come
si allarga o si restringe il nostro "schieramento", del nostro "esercito"
con i suoi "capi" e i relativi "ordini".
Allora, a beneficio dei lavoratori dei media e di noi stessi, ricordiamo
loro e ricordiamoci che:
1) l'azione diretta nonviolenta e' un tecnica di azione politica e sociale
che non usa violenza fisica, verbale o simbolica. E' protesta, persuasione,
non-cooperazione ed intervento. Non ha nulla a che fare con linguaggio e
simbolico militari, che sono la sua negazione;
2) l'azione diretta nonviolenta non ha neppure nulla a che fare con la
passivita', non dipende dal presupposto che chi la usa sia intrinsecamente
piu' "buono" degli altri, non e' limitata alla gestione dei conflitti
interni ad un sistema democratico: ora come nel passato l'azione diretta
nonviolenta viene usata contro regimi dittatoriali o totalitari, occupazioni
militari, ecc.
3) l'azione diretta nonviolenta non implica necessariamente il produrre
risultati in un tempo piu' lungo rispetto ad un'azione violenta. In una gran
varieta' di casi la lotta nonviolenta ha raggiunto i propri scopi in tempi
assai brevi.
Eserciti, militanti/militari, guerrieri e piani strategici non sono parte
della nostra visione: sono cio' a cui ci opponiamo. La loro funzione e'
prepararci alla guerra, insediarla nelle nostre menti e nelle nostre
relazioni, renderla cifra inevitabile ed onorevole cimento. Queste parole ci
"arruolano" involontariamente, oliano le ruote della macchina militare, e
pretendono di non significare cio' che significano.

2. MEMORIA. A TUSCANIA E A GUBBIO RICORDATA MARIANELLA GARCIA
Ricorrendo il 13 marzo il ventesimo anniversario dell'uccisione di
Marianella Garcia Villas, martire nonviolenta della lotta per i diritti
umani nel Salvador, nei giorni scorsi nell'ambito dei corsi di educazione
alla pace che si svolgono sia presso l'Istituto professionale di Tuscania
(Vt), sia presso l'Istituto tecnico sperimentale di Gubbio (Pg), e' stata
commemorata la sua figura.
Nata nel 1949, attivista per i diritti umani salvadoregna, collaboratrice di
monsignor Romero, amica della nonviolenza, "avvocato dei poveri, compagna
degli oppressi, voce degli scomparsi", Marianella Garcia fu assassinata il
13 marzo del 1983 dai soldati del regime. La sua vita e' narrata nel bel
libro (ampiamente basato sulla registrazione di conversazioni con lei
svoltesi nel 1981 e nel 1982) di Raniero La Valle e Linda Bimbi, Marianella
e i suoi fratelli, Feltrinelli, Milano 1983.
Il ricordo di Marianella Garcia ha dato luogo ad un'intesa riflessione e a
un appassionato dialogo.

3. INCONTRI. BENITO D'IPPOLITO: AI PARTECIPANTI ALL'INCONTRO DI ASSISI
[Riportiamo l'indirizzo di saluto inviato a nome del Centro di ricerca per
la pace di Viterbo dal nostro collaboratore Benito D'Ippolito ai
partecipanti all'incontro del 14-16 marzo ad Assisi promosso dalla Tavola
della pace (per informazioni e contatti: e-mail: segreteria at perlapace.it,
sito: www.perlapace.it]

Nella polvere e nel vento queste parole
volino e giungano a voi, persone amiche
riunite in questi giorni per la pace
ad Assisi, cuore del mondo.

In questa ora di sforzo e di sgomento
prima del fumo e delle ceneri, vi giungano
queste parole, amici della pace
e della nonviolenza e quindi amici
dell'umanita' intera che si incarna
in ogni esistenza di donna e di uomo.

Possa anche questo incontro edificare
un riparo dal buio, un riparo dall'orco,
una difesa che la belva della guerra
non possa varcare.

Possa anche questo incontro dare mano
alla comune intrapresa la piu' urgente:
fare del mondo un luogo in cui convivere,
tutte le donne e tutti gli uomini in concordia.

Possa essere l'agire di noi tutti
coltivazione di pace, frutto di ragione,
salvezza per l'umanita', vittoria
- cosi' amava dire Vinoba - al mondo.
Riconoscimento
di tutti i diritti umani
a tutti gli esseri umani.

4. DOCUMENTI. I SEI PUNTI DEL "MANIFESTO 2000 PER UNA CULTURA DELLA PACE E
DELLA NONVIOLENZA"
[Riportiamo ancora una volta i sei punti del "Manifesto 2000 per una cultura
della pace e della nonviolenza" promosso tre anni fa da alcune prestigiose
personalita' gia' insignite del premio Nobel per la pace]
1. Rispettare ogni vita.
Rispettare la vita e la dignita' di ogni essere umano senza alcuna
discriminazione ne' pregiudizio.
2. Rifiutare la violenza.
Praticare la nonviolenza attiva, rifiutando la violenza in tutte le sue
forme: fisica, sessuale, psicologica, economica e sociale, in particolare
nei confronti dei piu' deboli e vulnerabili, come i bambini e gli
adolescenti.
3. Condividere con gli altri.
Condividere il mio tempo e le risorse materiali coltivando la generosita',
allo scopo di porre fine all'esclusione, all'ingiustizia e all'oppressione
politica ed economica.
4. Ascoltare per capire.
Difendere la liberta' di espressione e la diversita' culturale,
privilegiando sempre l'ascolto e il dialogo senza cedere al fanatismo, alla
maldicenza e al rifiuto degli altri.
5. Preservare il pianeta.
Promuovere un consumo responsabile e un modo di sviluppo che tengano conto
dell'importanza di tutte le forme di vita e preservino l'equilibrio delle
risorse naturali del pianeta.
6. Riscoprire la solidarieta'.
Contribuire allo sviluppo della mia comunita', con la piena partecipazione
delle donne e nel rispetto dei principi democratici, al fine di creare,
insieme, nuove forme di solidarieta'.

5. MATERIALI. ASPETTI PSICOLOGICI DELL'IMPEGNO NONVIOLENTO
[Il seguente testo, che ancora una volta riproponiamo, e' estratto dal
nostro lavoro La nonviolenza contro la guerra (del 2000 ma composto
raccogliendo alcuni degli interventi scritti nel 1999 come versante
pubblicistico e ortativo dell'azione concreta di opposizione nonviolenta
alla guerra)]
1. Premessa
Rispetto ad altre forme di impegno culturale, politico o sociale, la scelta
della nonviolenza ha, secondo la nostra interpretazione, alcune
caratteristiche peculiari:
a) si fonda sulla ragione e non sull'entusiasmo: naturalmente valorizza le
emozioni ma sempre ricondotte ad un impegno critico;
b) implica una limpida rigorizzazione del ragionamento e della condotta:
richiede una severa coerenza intellettuale e morale, e quindi
necessariamente anche una grande capacita' di ascolto ed una incondizionata
disponibilita' ad apprendere;
c) non offre garanzie ne' consolazioni: ne' certezze di vittoria o di
salvezza, ne' autorita' ed automatismi che fungano da cinture di sicurezza;
tuttavia, facendo appello a un forte sentimento di integrita' personale
intimamente connesso al piu' vasto slancio di solidarieta' e di
riconoscimento della comune umanita', consente di gestire le ansie e
relativizzare gli scacchi in una piu' profonda ed insieme piu' ampia
prospettiva di impegno orientato al bene comune ed all'affermazione della
propria dignita' (bene comune e dignita' personale intesi come un
inscindibile insieme);
d) propone un impegno di lotta che non terminera' che con la morte: ma
questa lotta (contro l'ingiustizia, contro la violenza, contro la menzogna;
e quindi: contro la sofferenza, contro il male, contro la morte stessa) e'
ineludibile, ed e' coessenziale alla nostra vita di senzienti e pensanti;
e) impone quindi una dialettica tra coscienza e mondo esterno (naturale e
culturale) particolarmente impegnativa: ad ogni passo chiede di assumere
responsabilita', di giudicare, e quindi di agire; ad ogni passo ci impone un
difficile confronto tra liberta' e regole, tra creativita' e necessita', tra
dovere morale e condizioni (e codificazioni) date.
In breve, la scelta della nonviolenza richiede studio, preparazione,
addestramento, disponibilita' a soffrire, saldezza nel perseverare in cio'
che e' giusto ad una analisi onesta, e saldezza nel perseverare in una
condotta costantemente benevola, leale e responsabile anche di fronte a
condotte scorrette, inique e violente da parte di altri. Infine richiede
altresi' una ridiscussione costante della propria condotta ed una continua
reinterpretazione e reinvenzione di regole, orizzonti, abitudini, percorsi
di ricerca; rileggendo incessantemente la propria esperienza cosi' come
faceva Gandhi che non casualmente intitolo' la sua autobiografia "storia dei
miei esperimenti con la verita'".
2. Una sintetica definizione preliminare
2.1. Per nonviolenza intenderemo qui un insieme di valori morali, di
tecniche di lotta e di proposte politiche organizzate in una coerente,
seppur aperta e sperimentale, teoria-prassi.
2.2. Definiamo  tale teoria-prassi col termine di nonviolenza, ed usiamo
tale grafia per distinguerla dalla mera assenza di violenza (la quale
assenza di violenza e' peraltro concettualmente una nozione assai ambigua e
sfuggente, e praticamente una condotta semplicemente impossibile) ed
indicarne invece la natura positiva e l'impegno attivo; col quale termine di
nonviolenza traduciamo due distinti termini gandhiani: ahimsa (che potremmo
tradurre liberamente come ripudio della violenza, opposizione alla violenza;
che designa la nonviolenza dal punto di vista concettuale, come valore
morale e come oggetto logico-ontologico); e satyagraha (che potremmo
tradurre liberamente come forza della verita' o anche adesione alla verita';
che designa la nonviolenza dal punto di vista operativo e metodologico, come
campo di condotte empiriche, di tecniche pratiche, di orientamenti
strategici; ma anche come inveramento effettuale di una scelta morale che
per esser tale non puo' restare inoperante nel mero ambito teoretico ma
richiede di essere realizzata ed autenticata in un impegno personale
immediato, politicamente ed esistenzialmente qualificato).
2.3. La nonviolenza cosi' definita si fonda su un ragionamento, una scelta e
una condotta improntati a responsabilita', verita', amore, apertura
all'umanita'.
2.4. La nonviolenza cosi' definita si caratterizza per alcuni precisi
principi: rifiuto di uccidere e di provocare lesioni fisiche; rifiuto della
menzogna; rifiuto di commettere ingiustizia, di subire ingiustizia, di
collaborare con l'ingiustizia; coerenza tra mezzi e fini; esemplarita' della
condotta e coscienza del costante riflesso educativo dei nostri atti;
compiere solo quelle azioni su cui si possa fondare la civile convivenza.
2.5. La nonviolenza cosi' definita si realizza nel conflitto (e non nella
quiete); nella comunicazione (e non nella solitudine); nella trasformazione
(ne' nella conservazione, ne' nella distruzione); i tre termini indicati:
conflitto, comunicazione, trasformazione, costituiscono per la nonviolenza
una necessaria unita'.
3. Scelte morali e coesione psicologica
Poiche' la nonviolenza e' eminentemente opposizione all'ingiustizia, chi la
sceglie sa di impegnarsi in una lotta consapevole e quindi intransigente,
meditata e quindi assai impegnativa sotto molti profili.
Occorre dunque che chi abbraccia l'impegno nonviolento sia cosciente che
cio' implica che dovra' sostenere il peso psicologico di una scelta di lotta
che puo' esporre a molti rischi, a condizioni di solitudine e di
incomprensione; che impone la rinuncia a vari privilegi, e implica la
possibilita' di trovarsi in condizioni di difficolta'.
Occorre quindi avere la capacita' di una adeguata elaborazione dei
sentimenti a queste situazioni esistenziali e sociali connessi; la capacita'
di  una adeguata gestione dell'ansia; la capacita' di efficacemente
esercitare il controllo e l'incanalamento costruttivo dell'aggressivita'; un
atteggiamento non represso e non repressivo.
E' ragionevole che prima ancora di impegnarsi nella lotta nonviolenta si sia
riflettuto su tutto cio' e si sia realisticamente valutata la propria
disponibilita' e capacita' a tutto cio'.
4. La nonviolenza in quanto comunicazione
La nonviolenza e' eminentemente comunicazione; questo implica:
a) il riconoscimento dell'altro, il puntare sulla sua umanita';
b) interpretare la lotta come disvelamento, cooperazione, atto di amore al
bene e all'umanita';
c) antiautoritarismo ed antidogmatismo, ovvero atteggiamento critico ed
autocritico, contestazione radicale del "principio d'autorita'" (anche verso
se stessi).
5. La scelta nonviolenta nel vivo del conflitto
La nonviolenza si realizza esclusivamente nel conflitto, essa valorizza il
conflitto e dove occorre lo suscita. La nonviolenza non e' passivita', fuga,
quieto vivere; essa e' azione, impegno, responsabilita' di fronte alle sfide
e agli appelli che la realta' pone. L'amico della nonviolenza porta nel
conflitto convincimenti profondi, obiettivi ponderati, capacita' operative
concrete. Questo implica:
a) vivere positivamente la scelta del conflitto;
b) la consapevolezza che l'azione nonviolenta e' sempre anche educazione (ed
autoeducazione),
c) la capacita' di ridefinire i problemi;
d) la capacita' di far evolvere le situazioni e i conflitti;
e) la capacita' di ascolto e cooperazione anche con l'avversario rispetto a
fini sovraordinati che entrambe le parti condividono o apprezzano;
f) la capacita' di contestualizzazione di principi, analisi, scelte.
Con particolar riferimento a se stessi, tutto questo implica inoltre:
g) rifiuto della subalternita' e del vittimismo;
h) essere consapevoli della propria forza che e' inerente alla propria
integrita' (ovvero alla propria onesta' intellettuale e morale);
i) capacita' di mantenere costantemente l'iniziativa.
Con particolar riferimento alla controparte tutto quanto precede implica
altresi':
l) non minacciarne l'annientamento in quanto essere umano;
m) offrirgli sempre una soluzione onorevole del conflitto.
Con particolar riferimento al rapporto tra antagonisti nel conflitto:
n) percepirlo e presentarlo anche come occasione di incontro;
o) costantemente mirare ad umanizzare la relazione attraverso un forte
impegno comunicativo e propositivo;
p) percepire e presentare il rapporto non in termini di esclusione e di
annullamento dell'altro, ma di compresenza e di impegno comunque comune,
evidenziando che un conflitto e' sempre anche un atto cooperativo, e che le
sue dinamiche sono congiuntamente costruite dalle parti;
q) puntare con la propria azione alla piu' ampia corresponsabilizzazione
possibile;
r) saper sempre distinguere l'oggetto contro cui si combatte dalla persona o
le persone con cui si combatte, e prefiggersi costantemente un rapporto
costruttivo con la parte avversa, riconoscendone le ragioni, offrendo
proposte di onesto e valido compromesso, non schiacciandola mai in
situazioni insostenibili e senza alternative;
s) mirare costantemente a ridurre la violenza, a ricercare terreni di
intesa, a costruire rapporti di fiducia.
6. Valori e comportamenti nonviolenti
a) La noncollaborazione con l'ingiustizia: che della proposta nonviolenta e'
la chiave di volta, infatti l'idea centrale della nonviolenza come forma di
lotta contro l'ingiustizia e' che il potere ingiusto per realizzare il suo
dominio ha bisogno della complicita' o almeno della passivita' delle sue
vittime; il primo passo della presa di coscienza e della lotta nonviolenta
e' appunto la rottura della complicita', la cessazione della passivita'
dinanzi all'ingiustizia.
b) La nonuccisione e il rifiuto di provocare lesioni fisiche agli avversari:
tale scelta ha spesso anche l'effetto di ridurre la violenza
dell'avversario, e comunque costituisce gia' essa sola una rilevante
umanizzazione del conflitto e riduce consistentemente la violenza
complessiva indicando concretamente altresi' una diversa e piu' civile
gestione del conflitto.
c) La nonmenzogna: essa e' ugualmente fondamentale, ed implica altresi' il
rifiuto del segreto, della sorpresa, del sotterfugio; e' eminentemente
democratica, rinforza la nostra autorevolezza morale, favorisce la
costruzione della fiducia (e incidentalmente ci mette al riparo dai
provocatori).
d) La coerenza tra mezzi e fini: ribaltando la massima secondo cui il fine
giustifica i mezzi, la nonviolenza afferma che i mezzi violenti corrompono
anche i fini migliori; e' di grande efficacia la similitudine gandhiana per
cui tra mezzi e fini intercorre lo stesso rapporto che tra il seme e la
pianta.
e) Il principio responsabilita': ognuno deve sentirsi responsabile di tutto;
ognuno deve avere a cuore le sorti di tutti; ognuno deve sentire la
solidarieta' con l'umanita' intera; ognuno deve agire in modo che la sua
condotta e la logica che la ispira possa essere ripetuta e riutilizzata in
ogni circostanza analoga ed essere sempre moralmente valida (e possa quindi,
per cosi' dire, essere istitutiva di una legislazione universale,
echeggiando la formula kantiana).
f) Ogni azione e' anche educazione: quindi ogni azione deve essere motivata,
comprensibile, coerente con il fine del riconoscimento e della promozione
della dignita' umana.
7. Dialettiche della nonviolenza
La nonviolenza come tanta parte della cultura contemporanea richiede la
capacita' di fronteggiare situazioni caratterizzate da indeterminazione,
contraddizione, complessita'; richiede quindi un atteggiamento critico e
creativo.
In particolare a noi sembra che l'adesione alla nonviolenza implichi
altresi' la capacita' di sostenere psicologicamente una scelta che ha
caratteristiche esistenziali fondamentalmente connotate da duplicita' e
dinamismo, e richiede pertanto un notevole "spirito di finezza", ovvero una
duttilita' ed un'attenzione, un atteggiamento di apertura e di
interpretazione, che e' del tutto incompatibile con atteggiamenti rozzi ed
autoritari, prepotenti o servili, predicatori e dogmatici. La nonviolenza e'
rivoluzione aperta, e richiede una personalita' ironica e paziente, serena e
tenace, combattiva ed antiautoritaria. Indichiamo qui di seguito alcuni
profili psicologici implicati dalla scelta dell'impegno nonviolento:
a) rinnovamento, ma anche ritrovamento;
b) rottura, ma anche fedelta';
c) apertura, ma anche approfondimento;
d) ricerca, ma anche saldezza;
e) responsabilita' come impegno personale nella dimensione collettiva;
f) dialettica tra coscienza (come autonomia morale e responsabilita'
personale) e legge (come regole sociali);
g) essere ad un tempo dei persuasi (e' la bella formula di Aldo Capitini) ed
insieme dei perplessi (e' la non meno bella formula di Norberto Bobbio).
8. Un problema persistente: la violenza
Ovviamente la nonviolenza si contrappone alla violenza, ribadirlo e' fin
tautologico.
Ma questo non risolve tutti i problemi, poiche' la violenza e' comunque una
realta', ed il lottare contro di essa implica evidentemente un certo grado
di esercizio della forza, che intende certo essere anche persuasiva, ma che
nondimeno e' altresì coercitiva. Inoltre non e' banale porre il problema che
se il fine della nonviolenza e' quello di contrastare la violenza, ovvero di
ridurla per quanto possibile, cio' implica necessariamente non una sorta di
astensione assoluta dall'azione, ma agire nel modo piu' radicalmente
contrario alla violenza, ovvero nel modo piu' efficace e coerente possibile.
Qui si aprono numerosi problemi degni di discussione, su cui ha spesso
particolarmente insistito nelle sue fini e rigorose analisi Giuliano
Pontara, ma che nessuno dei grandi protagonisti delle lotte nonviolente ha
mai eluso, da Gandhi a Lanza del Vasto, da Aldo Capitini a Martin Luther
King, da Danilo Dolci a Lorenzo Milani, a molti altri. Le impostazioni sono
state molto varie, e le risposte anche. A titolo d'esempio e per un primo
accostamento rinviamo a Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi,
Torino; e ad AA. VV., Violenza o nonviolenza, Linea d'ombra, Milano.
9. Un'ipotesi etico-politica
9.1. Il nostro approccio alla nonviolenza non e' di tipo essenzialista, o
metafisico; non implica un fondamento religioso o ontologico. Il nostro,
quello che qui proponiamo, e' un approccio meramente razionale. Naturalmente
altri studiosi e soprattutto molti attivisti della nonviolenza, hanno
approcci diversi, in cui il riferimento religioso o metafisico e'
assolutamente determinante. Il nostro approccio e' piu' modesto e limitato;
tuttavia proprio per questo esso presenta forse il vantaggio di essere piu'
agevolmente discutibile - ed eventualmente accoglibile - in quanto non
presuppone l'accettazione di questioni di principio talmente cruciali,
peculiari e impegnative per cui diviene impossibile addivenire ad un accordo
se si muove da diverse posizioni filosofiche, religiose, politiche, esistenz
iali. Abbiamo la presunzione di ritenere che l'approccio da noi proposto
consente di discutere la nonviolenza a partire da posizioni anche molto
diverse e - cio' che piu' conta - mantenendole (ovviamente, con la
nonviolenza arricchendole ed eventualmente approfondendole qualora essa
venisse accolta ed integrata nel proprio sistema di idee generali); abbiamo
la speranza che l'approccio da noi proposto sia compatibile con diverse
posizioni religiose (ateismo compreso), con diverse posizioni politiche
(nell'ampio campo che va dal liberalismo al comunismo, dalle varie proposte
democratiche, personaliste, socialiste, fino all'anarchia), con diverse
posizioni filosofiche e morali (gli studi di Giuliano Pontara, in
particolare, hanno apportato decisivi contributi in questo ambito).
9.2. Detto questo, vorremmo tuttavia aggiungere due specificazioni ulteriori
che in qualche misura contribuiscono a fondare il nostro approccio, che
proponiamo come ipotesi di lavoro ma alle quali almeno noi siamo molto
legati, e che sono le seguenti:
a) un'etica della felicità sobria;
b) un fondamento gnoseologico fallibilista.
9.2.1. La prima, un'etica della felicita' sobria: e' resa particolarmente
necessaria dalla consapevolezza ecologica; dall'esigenza di una giusta
ripartizione delle risorse e dalla cognizione della loro scarsita' ed
esauribilita'; dall'impegno al riconoscimento ed alla promozione dei diritti
umani per tutti gli esseri umani. La scelta della nonviolenza non e' una
scelta masochista, ma di liberazione; la sua prospettiva e' la felicita'
umana per quanto essa sia realizzabile nel quadro di una condizione
biologica caduca e peritura. La felicita' possibile e generalizzabile e' una
felicita' sobria, e quindi saggia, rispettosa degli altri e della biosfera,
conviviale, accogliente, sollecita, sensibile.
9.2.2. Il secondo, un fondamento gnoseologico fallibilista: che e'
indispensabile cuore della democrazia: la coscienza della nostra
fallibilita' e' l'assioma su cui fondiamo il nostro atteggiamento razionale
e ragionevole tanto in ambito teoretico quanto in ambito pratico, nella
logica, nella morale, nella politica; senza questa consapevolezza non si da'
democrazia, non si danno piene liberta', non si danno uguaglianza e
diversita'. La pretesa di infallibilita' e' sempre antiscientifica,
immorale, antidemocratica, totalitaria; coercitiva e coatta sul piano della
psicologia come su quello del diritto, sul piano sociale come su quello
esistenziale; essa lede radicalmente lo sviluppo della cultura e la civile
convivenza, e denega la dignita' personale. Poiche' nelle aree culturali di
prevalente riferimento per le persone maggiormente impegnate per la pace e
la liberazione frequentissimamente dominano visioni del mondo chiuse,
rigide, con pretese onniresponsive, ci permettiamo di insistere
energicamente su questo punto: il nesso tra liberta' e fallibilita', la
necessita' di un approccio fallibilista (non ci dilunghiamo oltre rinviando
piuttosto al brillante agile libro di Dario Antiseri, Liberi perche'
fallibili che segnaliamo in bibliografia).
10. Per l'approfondimento, una bibliografia essenziale
10.1. Per un percorso minimo: Giuliano Pontara, La personalita' nonviolenta,
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996 (particolarmente il capitolo secondo);
Dario Antiseri, Liberi perche' fallibili, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995;
Alberto L'Abate (a cura di), Addestramento alla nonviolenza, Satyagraha,
Torino 1985.
10.2. Per un approfondimento più rigoroso: Gene Sharp, Politica dell'azione
nonviolenta, tre volumi, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1985-1997; Immanuel
Kant, Critica della ragion pratica, disponibile in varie edizioni; Paul
Watzlawick, Janet Helmick Beavin, Don D. Jackson, Pragmatica della
comunicazione umana, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1971; Theodor W. Adorno,
Minima moralia, Einaudi, Torino; Giovanni Jervis, Manuale critico di
psichiatria, Feltrinelli, Milano, piu' volte ristampato; Guenther Anders,
Tesi sull'eta' atomica, Centro di ricerca per la pace, Viterbo 1991; Hans
Jonas, Il principio responsabilita', Einaudi, Torino 1993; Franco Fortini,
Una voce: comunismo, Centro di ricerca per la pace, Viterbo 1990; Primo
Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino, piu' volte ristampato.

6. RIFLESSIONE. GIOBBE SANTABARBARA: SENZA GIRARCI INTORNO
[Giobbe Santabarbara, si sa, esprime nel modo suo aspro preoccupazioni
grandi del "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo]
La tragedia avvenuta giorni fa su un treno in Toscana brutalmente ci
interpella.
Interpella il movimento che si oppone alla guerra, e che per credibilmente,
onestamente, limpidamente opporsi alla guerra deve opporsi anche al
terrorismo, come alle dittature e ai poteri criminali, come a tutte le
uccisioni; deve opporsi all'uso (e dunque anche alla produzione e al
commercio) delle armi, deve opporsi agli armigeri e agli eserciti tutti;
deve opporsi ad ogni logica ed organizzazione criminale, militare,
assassina. Deve opporsi all'uccidere e a tutto cio' che a tale fine e'
inteso ed atto.
Le solite, rituali, meccaniche espressioni di cordoglio non bastano. Anche
se sincere, sanno di ipocrisia, di retorica, e quindi - implicitamente e al
di la' delle migliori intenzioni e delle percezioni soggettive - di resa (e
per essere chiari fino in fondo: e' di resa e di complicita' l'impressione
che fanno le seriali dichiarazioni di governanti e legislatori che ad ogni
nuovo omicidio riciclano il solito repertorio di querimonie, di furbizie, di
tentativi di usare i cadaveri come gradini per progredire nelle loro
carriere e combutte: a questa gente che non esita a calpestare le spoglie
degli uccisi e' bene che chi vuole impegnarsi per la pace si sforzi di non
assomigliare ne' poco ne' punto). Occorre invece e dunque trarre delle
conseguenze. Occorre passare dal dire al fare.
*
Occorre che tutto il movimento per la pace faccia senza piu' alcuna
esitazione la scelta della nonviolenza.
Occorre che tutto il movimento per la pace faccia luce in se stesso - che
ogni singola persona che si sente impegnata per la pace interroghi se
stessa - ed assuma una posizione netta e non ambigua di opposizione non solo
ad ogni forma di terrorismo, ma anche ad ogni forma di uso della violenza.
Sciagurate idiozie commesse in passato da molti, come certi deliranti slogan
e certe ignobili azioni e certi atteggiamenti irresponsabili e fascisti, non
sono ammissibili.
Sciagurate idiozie tollerate in passato da troppi, come le "dichiarazioni di
guerra" ai potenti del G8, non sono ammissibili.
Sciagurate idiozie come le farneticazioni sulla "guerra giusta" e la
"violenza sacrosanta" a seconda del colore delle divise dei plotoni
d'esecuzione; sciagurate idiozie come la complicita' e addirittura
l'ossequio agli sprangatori e ai provocatori; sciagurate idiozie come
l'organizzare iniziative pubbliche senza prendersi cura di fare tutto tutto
tutto il possibile perche' nessuno sia esposto alle percosse e alla morte;
ebbene, tutto cio' non e' ammissibile.
Proprio perche' sempre piu' dovremo agire contro la guerra con l'azione
diretta nonviolenta; proprio perche' e' ragionevole ritenere che saremo
nuovamente chiamati nei giorni che ci attendono ad assumere in prima persona
la responsabilita' di fermare la macchina bellica con l'azione diretta
nonviolenta in difesa della legalita' costituzionale e del diritto
internazionale per salvare le vite umane che la guerra minaccia; e quindi
proprio perche' dovremo anche ancora violare norme pagandone il prezzo (da
amici della nonviolenza che per dovere morale e misericordia, in nome di una
legalita' superiore e cogente, talvolta si trovano nella necessita' di dover
violano leggi per contrastare ingiustizia e violenza, sapendo quel che fanno
e accettando la pena che ne consegue); e dovremo esporci a rischi essendone
consapevoli; e dovremo chiamare alla lotta nonviolenta tante e tanti;
ebbene, proprio per tutto questo dobbiamo tutti illimpidire e rigorizzare le
nostre riflessioni, le nostre parole, i nostro atteggiamenti, i nostri
gesti: contro ogni ambiguita', contro ogni confusione, contro ogni vilta':
contro tutte le violenze.
La scelta della nonviolenza e' qui e adesso il passo indispensabile da fare
per chiunque voglia impegnarsi contro la guerra. Chi non fa questa scelta
non puo' dare alcun utile contributo a contrastare la guerra.
*
Lo diciamo da anni, lo ripetiamo una volta ancora.
Chi non sceglie la nonviolenza non e' un nostro compagno di lotta; chi non
sceglie la nonviolenza e' complice della guerra poiche' di essa condivide la
logica e le radici, l'ideologia e le dinamiche.
Per questo non ci basta ripetere una volta di piu' la nostra condanna del
terrorismo, di tutti i terrorismi: quello individuale, quello di gruppi
economici e politici, quello dei poteri criminali e delle organizzazioni
militari, quello degli stati.
Alla condanna del terrorismo vogliamo, dobbiamo anche aggiungere una
richiesta, un appello, ai tanti che che vogliono impegnarsi per la pace ma
ancora sono subalterni a ideologie, linguaggi, rituali, pratiche, azioni ed
atteggiamenti autoritari, militaristi, viriloidi, irresponsabili, necrofili:
che escano dalla subalternita' alla cultura della sopraffazione, della
guerra, della morte: che guardino dentro di se' e scelgano di rendere
coerenti finalita' e metodi, mezzi e fini del proprio agire: che scelgano la
nonviolenza, unica via per la liberazione dell'umanita', unica via per
salvare il mondo in pericolo.
*
Io che scrivo queste righe ricordo gli anni in cui l'Italia era ogni giorno
insanguinata dagli eccidi: dalle stragi di stato della strategia della
tensione, dai massacri dei gruppi terroristi, dal dilagare della guerra
mafiosa. E ricordo come molti, troppi, oscenamente cavillavano invece di
condannare tutte le stragi; come molti, troppi, stavano a storicisticamente
discettare sulle ragioni degli assassini; come molti, troppi, si lasciavano
affascinare dalla potenza delle armi, e dimenticavano che quei grumi di
carni sanguinolente per le strade erano stati ancora un attimo prima donne e
uomini come te, come me, palpitanti di brama e fatica di vita, e che
anch'essi avevano diritto a qualche sorso ancora del lume dei giorni; e a
nessuno deve essere dato di esercitare il piu' atroce, esecrando e
abominevole di tutti i mestieri che l'infamia umana abbia ideato lungo
questa preistoria, il mestiere del boia, dell'uccisore - figura che dopo
Auschwitz ed Hiroshima deve cessare di esistere per sempre se vogliamo che
l'umanita' sopravviva.
Io che scrivo queste righe ricordo ancora la barbarie di allora, e vedo come
oggi troppi, anche nel movimento per la pace, ne riproducano alcuni dei
tratti (l'uso della menzogna, la negazione della dignita' altrui, la pretesa
di essere detentori di verita', il giustificare in chi si ritiene alleato o
vicino cio' che si troverebbe intollerabile negli avversari, modalita' di
pensiero e di azione gia' palesemente totalitarie). E ne ho disgusto,
orrore, paura. E a tutti voglio ancora e ancora dirlo, chiaro e forte: cessi
ogni collusione, cessi ogni ambiguita': chi vuole impegnarsi per la pace
deve fare la scelta della nonviolenza, e deve separarsi da chi e' ambiguo su
cio' su cui ambigui non si puo' essere: occorre affermare il diritto alla
vita di ogni essere umano, il ripudio assoluto dell'uccidere, la piu'
intransigente opposizione alla violenza.
*
Se ci si persuade di questo si sciolgono molti equivoci. E, ad esempio,
diventa chiaro quanto segue:
- non si da' opposizione alla guerra senza opposizione alla produzione, al
commercio, all'uso delle armi;
- non si da' opposizione alla guerra senza opposizione agli eserciti;
- non si da' opposizione alla guerra senza azioni dirette nonviolente che
quella opposizione inverino;
- non si da' opposizione alla guerra se essa non e' intransigente:
intransigente opposizione a tutte le guerre, a tutti i terrorismi, a tutte
le dittature.
*
Noi pensiamo che occorra prendere sul serio l'articolo 11 della Costituzione
della Repubblica Italiana, che e' inequivocabile nel suo comando: "L'Italia
ripudia la guerra". E quindi sancisce che chi guerra vuole, esegue,
sostiene, promuove o favoreggia e' un criminale stragista e golpista; ovvero
sancisce che e' compito primo e ineludibile delle istituzioni e dei
cittadini italiani tutti opporsi alla guerra, impedire la guerra: cioe' che
e' nostro dovere non solo non fare la guerra, ma anche impedire che altri la
faccia.
*
Questo dovevamo pur dire. E adesso piango chi e' stato ucciso.

7. LIBRI. LAURA FORTINI PRESENTA "IL CENTRO DELLA CATTEDRALE" DI MONICA
FARNETTI
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 14 marzo 2003]
A fronte dell'assenza di una tradizione critica consolidata sulle scrittrici
italiane, per leggere le loro opere sono necessarie alcune doti. Come
orecchi sensibili ai ritmi di scritture che nello scarto dalla tradizione
letteraria trovano una ragion d'essere, oltre che posizionamento piu' o meno
esplicito; occhi capaci non solo di vedere le opere scritte da donne -
finora neppure intraviste, se non in modo del tutto episodico, dalla critica
letteraria -, ma ancor piu' di intessere una visione d'insieme, di guardare
alle scritture delle donne non come un unicum isolato ma come un insieme
differenziato, ma certo non per questo omologato; infine una capacita' di
narrazione critica che non subissi il testo letterario nell'ego di chi
scrive, ma riesca a mettersi in relazione con esso.
Sono doti che Monica Farnetti possiede tutte, come ha dimostrato nei suoi
numerosi interventi negli anni passati su Cristina Campo e Anna Maria
Ortese, e come esemplarmente testimonia Il centro della cattedrale. I
ricordi d'infanzia nella scrittura femminile (Tre Lune, pp. 152, euro 15)
dedicato ai ricordi d'infanzia nelle scritture di Dolores Prato, Fabrizia
Ramondino, Anna Maria Ortese, Cristina Campo, Ginevra Bompiani.
Gia' il titolo molto dice sulle linee guida di una ricerca non certo
episodica, quel "centro della cattedrale" di woolfiana memoria che in
Momenti di essere e' indicata essere l'infanzia, al cui centro, appunto,
"fin dall'inizio vi e' la madre". La felicita' della narrazione di Virginia
Woolf e' evocata per fondare la lettura molteplice di un genere tutto
proprio della scrittura delle donne, quello dei ricordi d'infanzia,
innervati su quello che Farnetti definisce il paradigma dell'"esperienza",
piuttosto che della "vita" in senso metafisico.
Perche' qui non si tratta solo di autobiografia, genere tutto moderno nei
suoi statuti definitori, ma di qualcosa d'altro, distante nelle sue linee
guida da quella costruzione dell'io di marca strettamente occidentale e
universale, che prevede l'artificio di un se' compatto e coerente nello
spiegare le ragioni della propria vita, e che anche quando si confronta con
l'infanzia, "spesso si tratta di una compiaciuta immersione nel mitico decor
personale, popolato di fragili fatti e di immagini convenzionali anzicheno',
al fine esclusivo di protrarne il personale, estatico privilegio", come nota
Farnetti. Si tratta infatti di opere che, come spesso accade alle scritture
di donne, in vario modo sperimentano forme e stili dell'enunciazione,
ponendo l'accento su di un se' che guarda all'infanzia come luogo
dell'origine tutto da indagare e interrogare, e cosi' facendo mettono in
crisi e contestano nella mescidanza stessa della lingua lo statuto dei
generi e la tradizione letteraria, negligentemente trasgredita, quando non
ignorata.
Negligenze commesse ai danni di un ordine costituito, dovute al semplice
fatto che in quell'ordine esse non si riconoscono scrive Farnetti, che bene
indicano l'esercizio di liberta' delle scrittrici da lei scelte per la sua
riflessione, liberta' evidente a chiunque abbia letto le pagine di Giu' la
piazza non c'e' nessuno di Dolores Prato come quelle ben piu' scarne di
Cristina Campo, o, ancora, la scrittura volutamente al confine tra saggio e
romanzo dell'Althenopis di Fabrizia Ramondino, magnificamente "inconsulta"
de Il porto di Toledo di Anna Maria Ortese, eccentrica, ma non bizzarra, de
L'orso maggiore di Ginevra Bompiani. Liberta' rigorosa, perche' occorre
esercizio continuo per guardare alla propria infanzia e colloquiare con essa
passando attraverso il dolore della perdita della madre, e l'elaborazione di
un lutto che determina il se' presente, il suo modo di stare al mondo.
Liberta' che si ancora, nota bene Farnetti, allo spazio e alla lingua
materna nel cui segno si svolge l'inchiesta autobiografica di queste
scrittrici, consapevoli della responsabilita' di un'enunciazione e dei
propri magnifici errori, che siano nell'ordine il dilatarsi della
descrizione sulla narrazione come nel caso di Prato, l'apparente tradimento
della lingua nazionale in Ramondino per un bilinguismo italo-ispanico che,
come nella lingua dell'Ortese, non ha niente a che vedere con l'impiego
dello spagnolo volta a volta caricaturale, grottesco, moralistico di un
Gadda, Pirandello: lo spagnolo, come la scrittura apparentemente e
discretamente non autobiografica di Cristina Campo, diviene un modo
"meridiano" per entrare nel difficile terreno dell'infanzia, per comporre la
"sintassi" di vita, di Cristina Campo (sono parole sue) come delle altre.
Sintassi sostanziata di spazi e descrizioni che impastano la materia del
narrare in maniera talmente correlata all'esperienza che Farnetti sceglie di
titolare le partizioni del suo pensare critico con i nomi di luoghi ritenuti
da queste scrittrici fondativi e irrinunciabili per dialogare con
l'infanzia: Treja per Dolores Prato, Althenopis per Ramondino, Toledo per
Ortese, San Michele in Bosco per Campo, Les Marmousets per Bompiani. Non
semplici scenari ma "l'elettiva metonimia, la parte per il tutto,
dell'infanzia stessa" (cosi' Farnetti nell'introduzione). Figura della
metonimia piuttosto che della metafora - e il riferimento primo va, come e'
giusto, a Maglia o uncinetto di Luisa Muraro - sulla quale converge spesso
lo stile dell'enunciazione delle scrittrici italiane, motivo probabile,
insieme ad altri, di inimicizia tra la critica e le scrittrici in Italia. Ma
e' proprio quest'aderenza all'esperienza piuttosto che alla sua
trasfigurazione astratta che ha fatto si' che le scrittrici, oltre a
scrivere libri capitali, abbiano salvato le sorti del romanzo italiano del
'900, come sottolinea Farnetti.
Piu' che autobiografie, quindi, che volutamente la Societa' italiana delle
Letterate ha denominato "Grafie del se'" in un suo convegno del 2000
(pubblicato in quattro volumi nel 2002 per i tipi della Adriatica editrice),
racconti di formazione, Bildungsroman, o ancora, come preferisce Farnetti,
Figurenroman, romanzo dell'individuo: l'atlante letterario delle infanzie
femminili e' fatto infatti anche della Mosca di Marina Cvetaeva, del Mont
Noir di Marguerite Yourcenar, della Sonnenplatz di Christa Wolf, con un
respiro che pone le loro opere ben al di la' dei confini posti dalle
storiografie letterarie nazionali. Prato come Ortese, Ramondino come Campo,
Bompiani, e molti altri nomi e opere che bene potrebbero corrispondere alle
qualita' delineate in questo denso percorso sul racconto d'infanzia,
colloquiano a livello europeo con tutte loro, che affidano all'atto della
narrazione il senso della propria esistenza.

8. LIBRI. LUCIANA VIVIANI PRESENTA "VOLEVAMO CAMBIARE IL MONDO"
[Dal quotidiano "Il manifesto" del 14 marzo 2003]
Nelle Udi [la storica sigla dell'Unione Donne Italiane - ndr]
emiliane-romagnole e' cresciuto, negli ultimi anni, il desiderio di
raccontarsi, orgogliose della loro storia e piu' pronte ad interrogarsi con
liberta' - azzerando vecchi e consolidati stereotipi - sulla propria
specificita', vale a dire su quel di piu' e di diverso che le ha connotate
rispetto a tutte le altre Udi.
A questa felice stagione creativa appartengono interessanti pubblicazioni.
Tra queste cito: Con cuore di donna. L'esperienza della guerra e della
resistenza. Narrazione e memoria (a cura di Delfina Tromboni e Liviana
Zagagnoni. Nella serie "Quaderni" dell'Archivio storico di Ferrara, marzo
'98).
L'ultimo della serie e': Volevamo cambiare il mondo. Memoria e Storia delle
donne dell'Udi in Emilia Romagna, a cura di Caterina Liotti, Rosangela
Pesenti, Angela Remaggi, Delfina Tromboni (Carocci editore, pp. 283, euro
20,50).
Il libro raccoglie le interviste a 99 donne che hanno legato la propria
vicenda personale a quella dell'Udi, semplici militanti accanto a dirigenti
locali e regionali. Tutte donne che parlano in presa diretta, senza la
mediazione di "maitre-a-penser", e grazie a cio', i loro testi rimandano la
sincerita' e la freschezza di ciascuna che si racconta e la varieta' dei
contesti temporali e sociali che fanno loro da sfondo.
L'impresa editoriale ha richiesto anni di lavoro da parte di un agguerrito
ed esperto gruppo di ricercatrici, forti di una griglia di domande studiate
con l'intento di non ingessare le singole storie, ma farle rivivere
schiette, sincere, genuine.
A raccontare questo "dietro le quinte" e' Caterina Liotti, un'esperta
ricercatrice archivistica che, tra l'altro, ha ordinato e informatizzato
l'archivio storico dell'Udi di Modena.
Delfina Tromboni, nel suo testo Di donna in donna. Ritratti in punta di
penna (1945-1960), guida la lettrice e il lettore a navigare nell'intricato
arcipelago di queste parole di donne, riuscendo a cogliere il senso piu'
profondo di cio' che esse vogliono comunicare. Delfina e' una timoniera di
riconosciuta esperienza perche' riesce sempre a fare tutt'uno della sua alta
professionalita' archivistica con la sua cultura e passione politica. E
infatti, ecco che ti tira fuori dal sacco per esempio una prima
provocazione: l'Udi, negli anni della ricostruzione, e' stata soltanto, una
semplice cinghia di trasmissione dell'allora Partito Comunista Italiano? A
giudicare da alcuni dati numerici che Delfina puntigliosamente fa parlare da
soli, risulta quanto questo luogo comune debba essere almeno riesaminato; a
Ferrara nel 1948 l'Udi aveva 40.000 inscritte, distribuite in 133 circoli,
mentre quasi in quegli stessi anni il Pci e il Psiup insieme non ne
raccoglievano piu' di 24.000. E allora, si puo' azzardare l'ipotesi che le
battagliere donne ferraresi, portatrici forse ancora inconsapevoli di una
forte soggettivita', navigando a vista, in un percorso irto di ostacoli, tra
organizzazioni della sinistra, partiti, sindacati, cooperative, Anpi e
quant'altro, siano approdate all'Udi, non come ad una organizzazione
parallela, ma anzi, conflittuale e antagonista?
Al fine di sostenere questa ipotesi si porta il caso di Margherita Fabbri
(Ghita, nella Resistenza), responsabile dell'Udi di Argenta, la quale, pur
avendo nel suo portafoglio le tessere di tutte le organizzazioni della
sinistra, lascia come ultima volonta', di venire accompagnata nell'"ultimo
viaggio" dalla sola bandiera dell'Udi. "Quanta soggettivita' - si chiede
Delfina - c'e' nel gesto che si esplicita con forza dirompente, soltanto nel
momento in cui occorre lasciare l'ultima immagine di se', praticare l'ultimo
passaggio di testimone?".
A ben vedere, quello che connota la specificita' delle Udi di questa regione
non e' tanto e non solo la potenza dei numeri, cioe' le cifre da primato
delle tesserate, che pure e' un dato indubitabile di realta', quanto la
presa di coscienza collettiva, direi l'orgoglio, cresciuto dentro in tutti
questi anni e finalmente portato allo scoperto, di aver dovuto misurarsi con
un modello di societa' fortemente strutturata politicamente, socialmente e
culturalmente, cosi' "aperta" ad ogni istanza di progresso e, allo stesso
tempo, cosi' radicalmente patriarcale. Questo incontro/scontro non ha forse
costretto queste donne a dover sviluppare con anticipo una soggettivita'
femminile ancor prima dell'incontro con il femminismo? Se lo chiede Lia
Randi in un interrogativo che ha gia' in se' la risposta. Le fa eco la
ravennate Simona Ventura che osa nominare esplicitamente la parola
patriarcato e lucidamente centra la questione: "piu' alto che altrove, il
livello di trasgressione richiesto in un territorio come l'Emilia Romagna,
da subito fortemente connotato a sinistra e contestualmente contraddistinto
da una struttura socialmente patriarcale, per esporsi alla scena pubblica,
non tanto come  soggetto 'rivoluzionario' (apprezzato dal comune sentire),
quanto come soggetto di sesso femminile (vissuto invece - sempre nel comune
sentire - come 'intralcio' alla rivoluzione".
Sempre su questo strano bisticcio tra conservazione e rivoluzione si getta
con passione Franca Foresti nel suo ultimo tempo di vita, investendo la sua
intelligenza politica e il suo carismatico prestigio nella creazione di una
struttura di ricerca che studiasse a fondo il fenomeno. Per questa sua
iniziativa Franca dovette fronteggiare - e lo fece con grande coraggio - una
forte opposizione e non sempre alla luce del sole, che le procuro' non poche
amarezze. Si trattava pur sempre, a quei tempi (si era alla fine degli anni
'80) di un campo minato che lambiva il potere, di un grosso sasso nello
stagno, di una voce critica che usciva dal coro.
La liberta' e la sincerita' con cui questo volume riaffronta questo tema, ci
da' la misura di quant'acqua e' passata sotto i ponti della ricerca storica.
Anche sul tema del separatismo, il libro apre una nuova pagina di
riflessione, partendo dalle esperienze che le donne intervistate raccontano.
Tante di loro, imbrigliate nella rete di un doppio percorso politico, quello
dell'emancipazione tra le donne e con le donne dell'Udi, e quello del
riscatto sociale e politico delle classi subalterne, nel partito e nel
sindacato, hanno dovuto altalenare fra l'incontro e lo scontro, non solo con
gli uomini delle proprie famiglie, ma anche con "i compagni" con cui pure
condividevano alti ideali e concretissime azioni e lotte politiche. Molte di
loro infatti, forse tutte, e forse non a torto, pensavano che, per
"costruire un mondo nuovo", questi uomini dovessero essere rieducati, e non
abbandonati a se stessi e al danno che, se lasciati soli, avrebbero
certamente continuato a fare.
Il sentimento piu' forte che ricavo dalla lettura di questo libro e'
l'ammirazione per queste meravigliose donne qualunque che hanno raccontato
di se' con la consapevolezza di aver scritto una importante pagina di
storia. Dice per esempio Laura Polizzi, "Mirka": "nella concretezza dei
progetti che mettevamo in campo, asili per i bambini, vetri per le finestre
delle scuole, manifestazioni contro il carovita... queste iniziative erano
accompagnate da una capacita' organizzativa straordinaria, una complessa
capacita' di progettazione e di direzione squisitamente politica. Dove
trovavamo queste capacita' di organizzare, che eravamo tutte operaie e
contadine?" e piu' avanti continua: "cosa attraeva tante donne all'Udi?
Esserci trovate dentro legami affettivi oltre che politici di un valore
immenso. Legami tra donne poverissime e senza strumenti culturali. Avevamo
solo la cultura della miseria e della solidarieta'".
A donne come questa migliaia di mamme napoletane, nell'inverno del 1946,
affidarono per tre mesi i figli piu' grandicelli, vittime innocenti di una
guerra che aveva devastato la citta' e impresso sui corpi le stimmate della
denutrizione, delle malattie e del freddo, perche' potessero ritemprarsi.
Con grande slancio di generosita' si aprirono le case dei mezzadri, dei
coloni, dei braccianti, degli operai, si fece a gara per farsi assegnare il
piccolo napoletano da accudire come figlio tra i figli.
Una bella pagina di storia italiana scritta dall'Emilia Romagna e,
soprattutto dalle sue donne. E io, che mai dimentico di essere anche
napoletana, dico ancora grazie.

9. PERIFRASI. ALFONSO CORTAGARGANTA: SEI UTILISSIME RACCOMANDAZIONI AL
MOVIMENTO PACIFISTA (OVVERO BREVE CORSO DI MASOCHISMO COLLETTIVO AD USO DI
BRILLANTI CARRIERE INDIVIDUALI)
La prima: farsi rappresentare da persone che resistono piu' sott'acqua che
lontano dalla televisione.
La seconda: farsi rappresentare da persone che campano dell'assalto alla
diligenza dei soldi pubblici.
La terza: farsi rappresentare da persone che sono contro la guerra quando
stanno all'opposizione e diventano a favore quando stanno al governo.
La quarta: farsi rappresentare da persone che sono ambigue sulla violenza e
fanno sistematico uso della menzogna.
La quinta: farsi rappresentare da persone autoritarie, militariste e
maschiliste.
La sesta: farsi rappresentare.
*
Senza neppure uno svolazzo finale? Chiede il narratore alla morte in un
libro di Hemingway. Senza neppure uno svolazzo finale.

10. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

11. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

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Numero 536 del 15 marzo 2003