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Albanesi: Le ragioni della sconfitta del pacifismo
- Subject: Albanesi: Le ragioni della sconfitta del pacifismo
- From: "deb" <d_lucchetti at virgilio.it> (by way of Carlo Gubitosa <c.gubitosa at peacelink.it>)
- Date: Tue, 11 Mar 2003 21:16:03 +0100
Fonte: www.redattoresociale.it Le ragioni della sconfitta del pacifismo di Vinicio Albanesi Martedì 11 marzo 2003 Le notizie di queste ultime ore danno oramai per scontato l'inizio della guerra in Irak. Al di là della mancata seconda risoluzione al Consiglio di sicurezza dell'ONU, le notizie dai fronti caldi dicono che di fatto la guerra è già iniziata. Ne esce sconfitta tutta quella parte di prese di posizioni, governative e della società civile, che continuano a dire no alla guerra. La domanda spontanea è il perché della sconfitta del "pacifismo". Le ragioni sono almeno tre. La prima ragione è politica: chi dice no alla guerra appartiene a quegli stessi popoli, che continuano a dettare legge nel mondo. Possessori delle risorse economiche, finanziarie e commerciali, della tecnologia, della ricerca scientifica, di ogni strumento capace di "comandare" nel mondo, costoro non hanno rinunciato al loro potere, riducendo così la differenza tra il sì e il no a prese di posizioni "emozionali" o al massimo "razionali". Tra gli Stati Uniti, l'Inghilterra, l'Australia e la Spagna da una parte e il resto del mondo, la differenza è solo quantitativa, ma non qualitativa. Fare la guerra o no diventa un'opportunità o un errore, a seconda dei punti di vista, ma gli equilibri, con o senza la guerra nell'Irak, non cambiano tra le nazioni potenti del mondo. Il secondo motivo, etico, è più profondo: poiché ciascuna nazione si è arrogato il diritto di definire che cosa è bene o male, ognuno in base alla propria potenza, può imporre il "suo" bene o il "suo" male. Nessun riferimento oggettivo (nemmeno quello dell'ONU) è riconosciuto. Da qui la "trattativa", per conquistare adesioni alla propria politica internazionale interventista o l'abbandono di altre guerre alla loro deriva, senza interventi e senza preoccupazioni. Il terzo motivo è di ordine esistenziale. Molto poco numerosi sono coloro che, nel primo mondo, sono disposti a una vera politica di pace. Tale politica presuppone la rinuncia ai propri privilegi, il rispetto delle nazioni povere, il ripristino degli ecosistemi, anche a costo di gravi sacrifici, compresa una recessione economico-produttiva dei propri paesi: sacrificio che quasi nessuno è disposto a fare. Innalzare bandiere, fare manifestazioni e sit-in, attivare consensi rischia di diventare evento folkloristico, riservato a menti intelligenti, ma a cuori ancora troppo duri e per questo senza effetti pratici. Una vera politica di pace è severa: presuppone, oltre le prese di posizione, comportamenti pacifisti. Merce veramente rara oggi nell'occidente: la sconfitta del "pacifismo", ne è riprova.
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