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Libere donne in liberi mondi
- Subject: Libere donne in liberi mondi
- From: "luisa rizzo" <lu-sa at mail.clio.it>
- Date: Sat, 8 Mar 2003 09:09:52 +0100
Libere donne in liberi mondi di Giannina Longobardi " Devi concentrarti sugli stranieri che incontri e cercare di comprenderli. Più riesci a capire uno straniero, maggiore è la tua conoscenza di te stessa, e più conoscerai te stessa, più sarai forte." Così Fatima Mernissi, in L' Harem e l'Occidente, ricorda l'insegnamento della nonna Jasmina, che benché avesse vissuto reclusa in un harem aveva raggiunto grande saggezza; e la nipote che, più fortunata di lei avrebbe viaggiato in lungo e in largo per il mondo, ricorda anche che:" A FEZ, la città medievale della mia infanzia, giravano voci affascinanti su abili maestri sufi che esperivano lampi di illuminazione (lawami) ed estendevano rapidamente la loro conoscenza, tanto erano tesi ad apprendere dagli stranieri che incrociavano nella via". Che sia possibile anche a noi, abitanti di città divenute in pochi anni popolate da donne che vengono da altre parti del mondo, conoscerle, comprenderle e ricavare da questa concentrazione una illuminazione su qualche cosa che ci riguarda? Alcune donne, in varie città d'Italia, prime nel tempo alcune di Torino, che hanno creato il Centro Alma Mater, stanno inventando luoghi e occasioni di incontro con donne straniere, nei quali dar vita a relazioni non strumentali, non finalizzate alla risoluzione dei problemi, economici, giuridici.. - che per le donne immigrate sono comunque pressanti -, ma relazioni che contino per sé stesse, dove l'essenziale non sta in un progetto da realizzare, ma nello scambio di parola e nella possibilità di dire di sé e della propria esperienza. La globalizzazione che investe e trasforma le nostre città può diventare l' occasione di tessere relazioni all'interno delle quali muta la nostra rappresentazione del mondo attraverso il confronto con l'esperienza dell'altra. Che cos'è stata la fine del comunismo nei paesi dell'est? Quali ripercussioni ha avuto sulla vita delle donne? Lo possiamo vedere attraverso gli occhi delle donne spesso non giovanissime, spesso laureate, che si offrono per l'assistenza ad anziani e a malati nelle nostre case. Sono qui per aiutare una figlia rimasta a casa con i suoi bambini, per pagare ad un'altra le tasse universitarie divenute costosissime. La loro è un'immigrazione temporanea, dove il bisogno di stabilizzare il rapporto di lavoro e di dargli continuità risponde a una necessità più nostra che loro. Ci sono in altre invece progetti di permanenza lunga, soprattutto quando l'emigrazione coinvolge tutto il nucleo familiare e i figli crescono qui e frequentano le scuole. Penso alle donne provenienti dal Magreb e a quelle dell'Africa sub-sahariana, molte delle quali sono giunte in Italia per ricongiungimento familiare. Quali strategie femminili, quali desideri di libertà guidano donne che decidono di sposare un migrante e di far crescere i figli e le figlie in un'altra cultura? Che cosa lasciano dietro di sé senza rimpianto e che cosa invece non sono disposte a perdere? Quello che in loro resiste all'assimilazione e all'accettazione del nostro modello di vita ci affascina e ci respinge nello stesso tempo. Lo scorso 10 gennaio, la sera stessa in cui a Verona alcuni esponenti di Forza Nuova assalivano, durante una diretta televisiva, il provocatorio rappresentante di un partito islamico, in un altro luogo della città, al Circolo della Rosa, alcune donne, italiane e magrebine, erano riunite in un incontro pubblico, per cercare di capirsi. In questo momento di tensione e di pericolo poteva essere un conforto per tutte noi mettere in parola la differenza, confrontarsi sul sentire e in questo scambio rinsaldare il legame d'amicizia. Cosa che certo avvenne, ma non senza ostacoli. Non è possibile entrare in risonanza con la parola dell'altra se si tende a misurare il suo percorso sul proprio, facendo di sé stesse la misura. Quando si ascolta il racconto di vita di una donna che viene da un paese che non ha assimilato il modello occidentale accade che molte donne, e certamente molti uomini, riducano il conflitto tra i sessi ad un problema di emancipazione: il livello giuridico, quello dei diritti e della parità, diventa il criterio di misura della libertà delle donne. Chi non sa cogliere esempi di libertà nella vita delle donne delle generazioni che ci hanno precedute, volgendosi ad altri scenari del presente vede solo oppressione. La parola dell'altra automaticamente richiama alla mente un passato patriarcale cui abbiamo appartenuto e che ci sentiamo alle spalle. Anche da noi era così. L'Occidente con la sua storia appare allora il destino del mondo. Per questo alcune femministe del terzo mondo accusano le donne emancipate del primo di contribuire a diffondere una visione coloniale, che fa dell'oppressione delle donne la giustificazione di interventi bellici ed umanitari. Non solo, contribuisce a fornire ai movimenti fondamentalisti che si sviluppano in funzione antioccidentale un'immagine della loro vera identità, che spesso é letteralmente tratta dall'ideologia coloniale. La questione del velo, ad esempio, si è sovraccaricata di significati perché già nell'800 i colonizzatori ne fecero il perno di una campagna antislamica, (cfr. a proposito Leila Ahmed Oltre il velo,La donna nell'Islam da Maometto agli ayatollah, Firenze, La Nuova Italia, 1995); in India invece gli inglesi fecero del sati - il rogo della vedova - un emblema della cultura locale: quella che era un'usanza limitata, venne generalizzata, dando vita all'idea della vera tradizione che oggi viene purtroppo fatta propria dai fondamentalisti hindu (vedi il saggio di Uma Narayan in Decentering the center. Philosophy for a multicultural, postcolonial, and feminist world, edited by Uma Narayan and Sandra Harding, Indiana University Press, 2000). Una relazione spregiudicata con donne che vengono da paesi diversi ci offre un'occasione preziosa per complicare, attraverso l'ascolto della loro singolarità, le nostre idee troppo generali e per ripensare, prima di proporlo anche alle altre, il nostro percorso di emancipazione misurando anche quanto ci è costato in termini di visibilità e di efficacia politica, e di capacità di esserci veramente, non solo nella scena politica, ma complessivamente nell'esistenza. l'Unità, 1 marzo 2003
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