20-02-03 Quotidianità nella Palestina occupata



Striscia di Gaza, 20 febbraio 2003 -
Quotidianità nella Palestina occupata
 
Il ponte della Kussufim, la by-pass road che collega Israele al blocco degli insediamenti di Gush Qatif (undici in tutto) che occupa gli ultimi 15 chilometri di costa della Striscia di Gaza sovrasta il check point di Abu Holi. Da lontano riusciamo a vederne la fila di lampioni gialli nel buio della notte. In attesa, di fronte alla torretta dei soldati israeliani, ci sono centinaia di palestinesi, accampati intorno a fuochi d'emergenza. Parlano, dormono, pregano, tra i taxi gialli sommersi da valige di cartone, materassi, scatoloni, grosse buste chiuse con lo spago che ricordano quelle degli emigranti italiani del dopoguerra.
Sono le 10 di sera di giovedì 20 febbraio. Siamo qui al check point, dopo avervi passato tutto il pomeriggio. La gente in attesa è diminuita. Molti sono tornati indietro a cercare un letto di fortuna, in giornata si arrivava anche a 1500 persone. Il check point è chiuso dalle tre di pomeriggio di ieri, con un'interruzione notturna di un'ora, alle tre di notte, per far passare i pochi palestinesi che ancora lavorano in Israele.
Molti degli accampati stanno tornando dal pellegrinaggio alla Mecca che tradizionalmente si fa nei due mesi seguenti alla fine del Ramadan.
Arrivano dall'Arabia Saudita attraverso la frontiera di Rafah tra Egitto e territori Palestinesi Occupati, frontiera controllata dagli Israeliani che hanno demolito circa 600 abitazioni civili palestinesi negli ultimi due anni per creare una fascia di sicurezza larga circa 500 metri sul confine.
Nel pomeriggio abbiamo passeggiato tra le persone, cercando di comunicare in un misto di arabo e inglese da Totò e Peppino. Stanno aspettando anche da tre giorni, con poco cibo e poca acqua. Alcuni ragazzini girano tra la gente vendendo tè noccioline e gomme americane per uno shekel (poco meno di venti centesimi di euro). Qualche persona si sente male, soprattutto donne anziane. Fatma dimostra circa 55 anni (anche se i palestinesi sembrano sempre più vecchi della loro età) e si accascia a terra presa da un collasso misto a crisi isterica. "Jahud, Jahud (ebreo)" urla, e poi una serie di parole incomprensibili.
La accompagniamo in ospedale in ambulanza, e lei non finisce mai di ringraziarci e baciarci le mani, in una cantilena araba che ci trasmette solo lacrime e disperazione. Eppure stupisce la resistenza di questa gente. A ogni accenno di apertura del check point  è tutt'un fuggi fuggi precipitoso verso le macchine, felici che l'attesa sia finita, apparentemente senza rabbia per ciò che stanno subendo. Quando si accorgono che è un bluff tutto ricomincia a scorrere lentamente in un'aria di stanca rassegnazione.
Abu Holi è regolato da un semaforo, si transita in ambedue le direzioni ma mai contemporaneamente. Non ci sono regole né orari fissi, a volte il semaforo può rimanere per ore fermo sul rosso. In realtà i semafori sono due, di fianco a due torrette militari coperte dalla mimetica verde da cui spunta solo la canna del mitragliatore dei soldati. Le torrette sono alle estremità di un tratto di strada lungo ottocento metri sopra la quale appunto passa la by-pass road dei coloni. Oggi ad ostruire la strada c'era anche un tank. Passaporti in mano, alti sulla testa per essere ben riconoscibili, ci siamo avviati pian piano verso i soldati, come sempre giovanissimi, per cercare di parlarci. Hanno fatto avvicinare solo una persona, e dall'aggressività delle prime domande "Perché stai qui e a fare che" sono passati a "tante scuse, faremo il possibile per aprire ma questi sono gli ordini".
Dall'altro ieri la Striscia di Gaza, nei suoi 43 chilometri di lunghezza, è stata spezzata dall'IDF (Israeli Defence Force) in tre parti ermeticamente chiuse. La prima interruzione è sulla strada costiera, (l'unica strada percorribile per spostarsi da nord a sud e viceversa) all'altezza della colonia di Netzarim, appena furori Gaza city. Una grossa buca è stata scavata con i buldozzer e i soldati sparano su chi tenta di passare. Il secondo blocco, quello di Abu Holi, isola tutta l'area a sud, i distretti di Khan Yunis e Rafah.
Una equipe medica (tre medici e due infermiere) degli Ospedali Riuniti di Bergamo, che da una settimana si trovava all'Ospedale dell'Unione Europea di Khan Yunis per effettuare interventi di chirurgia plastica sui bambini con un progetto della ong americana "Palestine Children Relief Found", doveva arrivare all'aeroporto di Tel Aviv per tornare in Italia ma non è riuscita a oltrepassare il blocco di Netzarim perché in ambedue i tentativi fatti i soldati hanno sparato verso l'ambulanza su cui viaggiavano, nonostante avessero un lasciapassare del consolato americano in Israele. "Dobbiamo passare la notte accampati a casa di un mio amico al campo rifugiati di Magazi" ci dice al telefono Steve Sosebee, responsabile della ong, che li accompagnava. Ci racconta che durante le ore di attesa hanno distribuito acqua e cibo ai palestinesi bloccati lì dalla mattina.
Intanto qui a Sud le ultime due notti le abbiamo passate in una snervante attesa. Tutti si aspettano un attacco in grande stile da un momento all'altro. Un responsabile di un'agenzia Onu ci ha informato che almeno una cinquantina di tank sono posizionati sulla Green Line alle nostre spalle e sulla strada costiera della colonia di fronte stanotte abbiamo notato un gran movimento di carri armati. Qualche sparo e qualche esplosione fanno ormai parte della normalità.
Questa è la tragica quotidianità della Palestina occupata. Una quotidianità che non fa notizia, che non è degna di entrare nell'agenda dei media occidentali. È estremamente urgente una presenza internazionale al fianco della popolazione civile palestinese.
"I volontari internazionali possono avere un ruolo determinante in questa situazione. È essenziale che il maggior numero di persone sia consapevole della situazione di sofferenza ed umiliazione della popolazione civile palestinese, e venga in  Palestina", afferma Moustafa Barghouti, fondatore dell'Upmrc (Union of Palestinian Medical Relief Committees) e coordinatore del Gipp (Grassroots international protection for palestinians) "Gli internazionali presenti in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza in questo momento sono troppo pochi per garantire azioni efficaci per la protezione della popolazione civile. Israele e gli Usa non hanno accettato la richiesta di invio di osservatori Onu nei Territori Occupati, per questo noi rivolgiamo un appello accorato ai cittadini dell'Unione Europea e a tutta l'opinione pubblica mondiale perché il popolo palestinese non sia lasciato solo".
 
I volontari della comunità Papa Giovanni XXIII
Per informazioni:
0546 26630 - 0541 753619 - 751498