"THE BUSH SHOW. Verità e bugie della guerra infinita"



Anteprima riservata ai giornalisti e agli operatori della comunicazione

Da oggi è in libreria "THE BUSH SHOW. Verità e bugie della guerra infinita"
di Giulia Fossà, edito da Nuovi Mondi Media

Il brano dell'intervista che segue è riproducibile citando la fonte:


Giulia Fossà
THE BUSH SHOW
Verità e bugie della guerra infinita
pagg. 198, 11 euro

Nuovi Mondi Media <http://www.nuovimondimedia.it>

Robert Fisk: "Il nostro lavoro consiste nel controllare i centri del potere"

GIULIA FOSSA' - In questa stagione della storia del mondo il giornalista ha
una responsabilità speciale?


ROBERT FISK - I giornalisti dovrebbero sempre avere una responsabilità
particolare. Tutto dipende dalla definizione di giornalismo. Nel mio stile
britannico, io ho sempre detto che fare giornalismo equivale a scrivere la
prima pagina della storia, e questo conferisce a noi giornalisti la
responsabilità di riferire quella che a noi appare come la verità, certo,
la verità è indefinibile, anche in questo caso è complicato, come tentare
di mangiare la zuppa con un coltello… Nelle guerre di norma siamo noi i
primi testimoni indipendenti, e anche per quanto riguarda la storia in
generale. Naturalmente c'è troppa parzialità nei resoconti dal Medioriente,
intendo la parzialità proisraeliana, quella proamericana o qualsiasi altra
forma di parzialità. Ma ci sono anche altre definizioni, attualmente la
migliore che io abbia trovato mi è stata data da Amira Hass, una eccellente
giornalista israeliana che scrive su Ha'aretz, un anno fa, durante una
conversazione a Gerusalemme riguardo al giornalismo, io le dissi la mia
definizione, quella sulla scrittura della prima pagina del libro della
storia, e lei mi disse: "No, il nostro lavoro consiste nel controllare i
centri del potere". Credo sia la migliore definizione di giornalismo che io
abbia mai sentito.

Il 22 dicembre dello scorso anno, stavo tenendo una conferenza durante un
seminario a Nottingham, e una donna fece una osservazione acuta, disse:
"Anche la stampa è un centro di potere". Stiamo parlando di governi,
eserciti, milizie e lobby, questi sono i centri del potere, e di norma noi
non li mettiamo in discussione. Tempo fa le cose non stavano così, tempo fa
gli americani stessi mettevano in discussione questi centri, oggi non è
così. Basta aprire "The Herald Tribune", e guardare all'articolo di spalla,
"Gli USA hanno chiesto alla NATO di fornire assistenza militare, come ha
dichiarato un portavoce americano". Oggi la maggior parte dei giornali
americani dovrebbe riportare, in luogo del nome della testata: "Stando a un
portavoce", piuttosto che "The New York Times" o "The Washington Post" o
"The Herald Tribune". In particolar modo negli Stati Uniti si riscontra un
rapporto troppo affettuoso, quasi incestuoso e parassitico tra i
giornalisti e il governo. I giornalisti amano essere vicini al governo,
amano essere chiamati con il nome di battesimo: "John, o Bob, o Mike…"
Basta guardare le conferenze stampa del Dipartimento di Stato americano, o
del Pentagono. Donald Rumsfeld si rivolge ai giornalisti chiamandoli per
nome, loro fanno una domanda, e di norma si tratta di domande molto leggere
e indulgenti, e lui risponde loro ringraziandoli per la domanda, si danno
tutti del tu. Questo accade quando i giornalisti non mettono in discussione
il potere, quando hanno paura di poter perdere l'accesso, un accesso che è
peraltro inutile se intendono essere così indulgenti, allora che senso ha
fare del giornalismo? Ora, più ci si avvicina a una guerra, più sarà
importante mettere in discussione l'operato dei governi, rendere più dura
la loro vita. Questo non è antipatriottico, al contrario, è molto
patriottico.

I governi considerano antipatriottico sollevare interrogativi quando i
soldati del paese sono in guerra, ma molti di quei soldati si pongono
quegli interrogativi, e nessuno li ascolta, per cui il nostro lavoro è
quello di porre le domande, anche al posto loro. Ai tempi della Guerra di
Suez, molti dei soldati britannici che stavano invadendo Port Said, eravamo
nel 1956, erano fortemente contrari a ciò che stava accadendo. I soldati
furono entusiasti quando il leader dei laburisti in Gran Bretagna, Hugh
Gaitskell definì l'attacco britannico come una aggressione. Ma naturalmente
Gaitskell e i giornali schierati contro la guerra, in particolar modo "The
Observer", vennero definiti come antipatriottici, e si sosteneva che in
quel momento, con i rischi che correvano i militari, quelle posizioni
fossero inopportune. L'America riuscì a entrare in Vietnam perché gli
americani non misero in discussione l'operato del governo. Quando si
accorsero dell'errore ebbero il coraggio di protestare, ma era già troppo
tardi, e migliaia di giovani americani erano già morti. Il punto è che il
giornalismo deve mettere in discussione l'operato del governo, soprattutto
in tempi di guerra, e porre le domande più difficili, e se il popolo è
sinceramente schierato per la guerra, accetterà le risposte del governo
stabilendo se sono giuste o sbagliate. Nel 1940, in Gran Bretagna c'era
ancora chi sosteneva che avremmo dovuto raggiungere un accordo con Hitler,
ma il popolo britannico non la pensava così, e queste persone non
riuscirono a far trionfare la loro tesi. Questo fronte aveva un suo
programma, era libero di scrivere e discutere in proposito, ma non ottenne
ciò che desiderava, perché il popolo voleva affrontare Hitler. Allora
perché oggi si considera scontato che la gente sia troppo debole per poter
sostenere un dibattito pubblico su una guerra molto meno importante?
Infatti Saddam Hussein non è Hitler, così come Nasser non era Mussolini.
Quindi, il punto è tenere sotto controllo i centri di potere.

Come ho detto, il problema è che molti giornalisti, e soprattutto i
giornalisti americani, hanno smesso di farlo. Basta guardare la CNN: "Il
Pentagono ha detto che… a te la linea!" "Grazie Mike, il testo diffuso dal
Pentagono…" Queste persone sono diventate poco più che dei semplici
portavoce. Sono i mendicanti del potere, pietiscono le informazioni, sono
semplici rappresentanti dei centri di potere. Basta osservare i giornalisti
americani quando giungono nel Medio Oriente dopo un periodo di assenza,
immaginiamo che giungano a Damasco o nel Golfo, qual è il primo posto dove
si recano? L'Ambasciata Americana, per una riunione informativa. E subito
leggeremo: "Diplomatici americani, che hanno chiesto di restare anonimi,
sostengono che… eccetera eccetera". Ma per fare questo tipo di lavoro si
potrebbe restare a Washington, a Londra, o a Parigi, perché venire fino a
qui per parlare ai propri concittadini o ai propri diplomatici? Non
dedicano tempo a sufficienza al lavoro… Magari si recano al Ministero
dell'Informazione del governo locale, che certo non sarà il regno della
verità, non serve a nulla. Quindi tutto viene riflesso dalla cassa armonica
delle politiche statunitensi: anche se magari parleranno con qualcuno in un
bar o se viaggeranno in un paese, tutte le informazioni saranno dominate da
ciò che hanno ascoltato nelle riunioni informative, con i rappresentanti
della CIA, o con il sottosegretario dell'Ambasciatore, o con qualunque
altra autorità.

Ricordo quando un grande gruppo di giornalisti americani giunse ad Algeri
durante il peggiore periodo dei massacri, negli anni '90, giunsero tutti a
bordo di un convoglio di auto, e un'ora dopo tutto il convoglio partì alla
volta dell'Ambasciata, per una riunione informativa. Quando tornarono, mi
misi sulla porta a belare al loro indirizzo, e tutti mi ignorarono
stizzosi: non erano disposti ad accettare neanche la più piccola ironia sul
loro modo di operare. E' il caso di tante storie, basate su agenzie
americane, ora stiamo parlando della CIA, che come qualsiasi altro servizio
di spionaggio del mondo, come l'FBI, l'MI6, il MOSSAD e i servizi segreti
siriani, mente sapendo di mentire, e ha una lunga tradizione in questo
senso. Se pensiamo a tutte le storie riportate sui giornali americani e
basate sulla CIA e l'FBI, dobbiamo ricordarci che questi dovrebbero essere
quegli eroi che non sono riusciti a impedire il più grave attacco agli
Stati Uniti mai accaduto nella storia mondiale. Queste persone che stando
alle autorità e alla stampa dovrebbero dimostrare di essersi liberate
completamente di qualunque collegamento tra loro e quella catastrofe, sono
stati nuovamente accettati come autorità, come persone in possesso di
informazioni accurate.

Guardiamo a cosa è accaduto dopo l'11 settembre, chi avrebbe pensato che
dopo l'11 settembre 2001 avremmo finito con l'attaccare Saddam, noi
pensavamo che fosse stato Bin Laden, giusto? A un certo punto, lo scorso
anno, l'immagine del volto di Bin Laden è stata gradualmente sfumata,
perché non era stato trovato, ed è entrato in scena Saddam Hussein. Ho
cercato di individuare esattamente in quale momento sia accaduto questo
negli Stati Uniti. I giornalisti americani avrebbero dovuto sottolineare
questo fatto, avrebbero dovuto chiedersi il perché di questa uscita di
scena. Bin Laden è stato semplicemente cancellato, i giornalisti hanno
dichiarato che gli Stati Uniti erano sempre più preoccupati per le armi di
distruzione di massa dell'Iraq, e il governo se l'è cavata agevolmente, con
sollievo dell'amministrazione Bush. Un mio amico, un professore di New
York, ha effettuato delle analisi al computer sull'uso che è stato fatto di
Bin Laden, di Saddam Hussein e dell'Iraq, durante lo scorso anno: il
momento in cui si è verificato il grande cambiamento di scena, la
sostituzione tra i due obiettivi, è stato il momento dello scandalo Enron.
Il principale sospetto che è emerso da quella vicenda è che il problema
dell'economia americana potesse essere quello della corruzione piuttosto
che l'11 settembre, e allora: Bingo! Hanno ritirato fuori Saddam Hussein e
lo hanno messo al centro della scena, dove è rimasto fino ad oggi. E oggi
chi si ricorda più dello scandalo Enron? In questo caso i giornalisti
americani hanno fallito, e soprattutto non hanno mai chiesto il perché di
questo.

Lo scorso anno ho tenuto una serie di conferenze negli USA, intitolate: "11
settembre: chiedete chi è stato, ma per l'amor del cielo non chiedete il
perché". E' interessante notare che durante ciascuna di quelle conferenze
ho parlato di fronte a un minimo di 2.000 persone. Da una costa all'altra
degli USA, nell'arco di 14 giorni, ho parlato a 32.000 americani. C'era
interesse, volevano conoscere il perché. Ma nei giornali americani, dopo
l'11 settembre, nessuno ha potuto porre quella domanda. Io mi sono posto
subito quella domanda sul mio giornale, e ho ricevuto moltissime lettere di
protesta, che mi accusavano di essere a favore dei terroristi, di essere
malvagio come Bin Laden, che avrei dovuto essere licenziato dal giornale.
Ho ascoltato un presunto accademico di Harvard, che urlava dal telefono
alla radio: "Lei è un uomo pericoloso! Lei è antiamericano ed essere
antiamericani è come essere antisemiti!". Quindi ora se si critica il
Presidente Bush si è antisemiti, nazisti. E la ragione per la quale non si
può discutere di questo è legata alla questione tabù negli Stati Uniti
riferita al rapporto degli USA con il Medio Oriente e, in particolare, il
rapporto degli americani con Israele. Ho descritto questo come l'ultimo
tabù americano, oggi è possibile parlare di lesbiche, di neri, di gay, ma
non del rapporto dell'America con Israele e con il resto del Medio Oriente.
E naturalmente questi sono gli aspetti più pericolosi, il mondo arabo è
indignato proprio per le questioni sollevate da Bin Laden,
indipendentemente dal fatto che le abbia sollevate strumentalmente o meno,
e cioè l'occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza da parte
di Israele, il sostegno incondizionato degli USA per Israele, o per i
dittatori arabi filoccidentali.

L'America non vuole che qui ci sia la democrazia, e assistiamo a una
crescente occupazione dei paesi arabi da parte dell'America. Oggi ci sono
militari americani in Giordania, Egitto, istruttori militari in Algeria, in
Kuwait, Arabia Saudita, Oman, Qatar, Bahrein e Yemen, come minimo! Queste
sono tutte problematiche che vengono sollevate dagli arabi, e si tratta dei
punti specifici sollevati da Bin Laden: è per questa ragione Bin Laden ha
un seguito così grande nel Medio Oriente, non perché ha abbattuto il World
Trade Center, o perché ha commesso crimini contro l'umanità negli Stati
Uniti, ma perché ciò che sostiene riflette il pensiero della maggior parte
degli arabi, ma non dei loro leader. L'unico modo in cui possono sentire
parlare delle questioni che stanno loro a cuore è attraverso un arabo che
parla da una caverna, e questa è una grande umiliazione per gli arabi. Ma
queste problematiche dovevano essere completamente cancellate dopo l'11
settembre, una cosa assolutamente ridicola.

In occasione di una conferenza a New York ho detto: "Se viene commesso un
crimine a New York, la prima cosa che i poliziotti cercheranno è un
movente, ma nell'ambito di questo crimine internazionale contro l'umanità
ci viene vietata proprio la ricerca del movente, ci vietano di chiedere il
perché". E i giornalisti in generale, compresi quelli europei, sono stati
criminali per il modo in cui si sono rifiutati di porre quella domanda.
Finché, poi, non è stato troppo tardi per porla.

Robert Fisk, corrispondente da Beirut del quotidiano britannico The
Independent, è un esperto di questioni mediorientali. Nei suoi reportage ha
documentato l'invasione del Libano da parte di Israele (1978-82), la
rivoluzione in Iran (1979), la guerra tra Iran e Iraq (1980-88),
l'invasione sovietica dell'Afghanistan (1980), la Guerra del Golfo (1991),
la guerra in Bosnia (1992-96) e il conflitto in Algeria (dal 1992 in poi).

Comunicato stampa: THE BUSH SHOW

Mentre incombe la nuova guerra con l’Iraq, primo di una serie di conflitti
annunciati, l’autrice mette a nudo attraverso le testimonianze delle più
autorevoli voci della comunicazione italiana e internazionale, verità e
bugie della macchina di propaganda che alimenta e condiziona il sistema
mondiale dell’informazione.

In conversazioni ricche di aneddoti gli intervistati svelano le pressioni
quotidiane a cui sono sottoposti: Riccardo BARENGHI, direttore del
Manifesto;Padre Jean Marie BENJAMIN, ex funzionario Onu e presidente del
“Benjamin Committee for Iraq”; Dennis BERNSTEIN, avvocato, giornalista e
docente californiano; Giorgio BOCCA, scrittore, giornalista e opinionista;
Franco CARDINI, storico; Giulietto CHIESA, giornalista esperto di questioni
internazionali; Furio COLOMBO, direttore de L'Unità; Noam CHOMSKY,
linguista; Robert FISK, corrispondente da Beirut di The Independent; Carlo
GUBITOSA, giornalista di Peacelink; M’hamed Krichene, giornalista e
conduttore di Al Jazeera; Massimo NAVA, inviato del Corriere della Sera;
Alberto NEGRI, giornalista de Il Sole 24 ore; John PILGER, giornalista di
The Guardian e BBC; Ennio REMONDINO, inviato Rai; Ornella SANGIOVANNI,
associazione "Un ponte per"; Antonio SCIORTINO, direttore di Famiglia
Cristiana; Marcello VENEZIANI, opinionista, filosofo; Gino STRADA,
fondatore di Emergency; Giovanni BOLLEA, psicologo.

Giulia Fossà, giornalista media-creative, autrice e conduttrice di
programmi televisivi, prosegue la sua esplorazione del mondo dopo l’11
settembre: dopo aver indagato gli aspetti delle limitazioni dei diritti,
affronta il campo dell’influenza delle decisioni
politico-militari-economiche sull’opinione pubblica. Che guerra sarà? Che
cosa se ne saprà?

Un percorso critico aperto dalle parole di Gino STRADA testimone diretto di
tanti orrori: spiega perché il cancro della guerra non deve essere
considerato inevitabile. Esiste ancora un giornalismo indipendente? Come
riesce a muoversi l’informazione nel campo minato della propaganda? Come
evitare le trappole della disinformazione? Quale il sottile confine tra
realtà e finzione del tragico show di cui siamo spettatori? Dal ring di
conversazioni ricche di aneddoti gli intervistati svelano pressioni e
condizionamenti.

Un libro inchiesta che nelle intenzioni dell'autrice vuol essere anche uno
strumento critico per aiutare il lettore a decifrare correttamente le
informazioni "ufficiali". E inoltre una piccola mappa alternativa per non
soccombere alle notizie del The Bush Show, il più pericoloso spettacolo del
mondo.

Dalla 4a di copertina:

"Il sistema economico degli Stati Uniti, che è il sistema economico
prevalente nel mondo, sta inventando questa guerra necessaria, sta
inventando questo pericolo terribile dell'Iraq, che in realtà fa ridere,
non esiste. Si è riusciti - e credo che sia l'esempio massimo della
disinformazia - a dimostrare che un paese, che non ha la bomba atomica, fa
paura a un paese che ha mille bombe e missili atomici."

GIORGIO BOCCA

"I leader del moderno imperialismo sanno che prima di poter attaccare altri
paesi devono fare il lavaggio del cervello ai loro popoli, perchè ne hanno
paura. I giornalisti svolgono un ruolo chiave in questo senso. Non sono
realmente dei giornalisti."

JOHN PILGER

"Ho il legittimo sospetto che la grande stampa sia collusa e partecipi come
parte a questa campagna politico militare."

ENNIO REMONDINO

"I media ufficiali sono ormai diventati gli stenografi del Pentagono.
Prendiamo la NBC, il più grande network televisivo commerciale. Che cosa è
la NBC? La General Electric! E chi è la General Electric? Il più grande
produttore di armi del mondo! Pensate che la General Electric voglia la
guerra o la pace? Vogliono vendere i loro armamenti o no?"

DENNIS BERNSTEIN

"L'amministrazione Bush sta portando un attacco contro la gente e le future
generazioni nell'interesse di ristretti settori ricchi e potenti. In queste
circostanze è opportuno sviare l'attenzione dalla sanità, dalla sicurezza
sociale, dai debiti, dalla distruzione dell'ambiente e da una lunga lista
di sgraditi problemi. Lo stratagemma è quello di far paura alla gente. Come
ha scritto il grande satirico americano H.L.Mencken: "L'autentico obiettivo
della politica reale è tenere il pubblico in allarme (e quindi farlo
rumoreggiare per essere condotto alla salvezza), minacciandolo con serie
infinite di spauracchi tutti immaginari"

NOAM CHOMSKY

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