Mai piu' Auschwitz



La lezione di Auschwitz e la sua bruciante attualità
''L'esercizio critico, insieme all'attenzione e alla reattività
politiche, è condizione obbligatoria se si vuole che ''mai piu' Auschwitz''
non
resti retorico esorcismo, ma divenga quotidiano impegno intellettuale,
civile e politico''.

Un articolo di Annamaria Rivera su Liberazione
(www.liberazione.it )

Avevo dieci anni quando uno zio antifascista e socialista, tanto giovane
quanto impegnato, mi mise in mano il Diario di Anna Frank, con poche
decisive parole di commento. Fu la scoperta dell'orrore assoluto, incisiva e
penetrante per il fatto che mi veniva rivelata da una adolescente nella
quale mi identificavo. Ho sempre pensato retrospettivamente che da quel
gesto in apparenza così minuto siano discesi l'orientamento e l'impegno a
sinistra, la partecipazione al '68 e al femminismo, l'inclinazione
antirazzista della mia ricerca antropologica. Non so se oggi vi siano ancora
zii che trasmettono ai nipoti, in modo così sobrio ed efficace, l'eredità
della memoria: viviamo un tempo di lacerazioni e fratture, ingarbugliato e
opaco, in cui esile o reciso è il filo della comunicazione fra le
generazioni, in cui sommovimenti epocali e dislocazioni degli schieramenti e
degli attori politici hanno reso più arduo orientarsi e scegliere. Ma
proprio oggi si fa più urgente il lavoro della memoria e più necessario il
tentativo di rintracciare le mappe che trascendono la contingenza per
restituirle più nitide e leggibili. E' a questo che può servire il Giorno
della memoria, opportunamente quanto tardivamente istituito dal Parlamento
italiano, data di un calendario civile che, nella ricorrenza della
liberazione del campo di sterminio di Auschwitz, ci ricorda che lo
sterminio, prodotto tanto terrificante quanto coerente della modernità
europea, non è una ferita rimarginata: come ha scritto fra gli altri Zygmunt
Bauman (Modernità e Olocausto) sulla scia di Horkheimer e Adorno (Dialettica
dell'illuminismo), oggi sappiamo di vivere in un tipo di società che lo rese
possibile ''e che non conteneva alcun elemento in grado di impedire il suo
verificarsi''.

E' questa la lezione di Auschwitz e la sua bruciante attualità: lo
sterminio, ''gigantesco esercizio di ingegneria sociale'', per usare ancora
le
parole di Bauman, è figlio della "civiltà" europea, un figlio partorito
dalla razionalità strumentale e alimentato dai mezzi potenti, la burocrazia
e la scienza, messi a disposizione dalla modernità. In quanto tale, esso non
è archiviabile, non appartiene al passato ma al nostro presente. Esso ci
dice che la lunga storia europea dell'antisemitismo e del razzismo non è
chiusa una volta per sempre: ce lo ricorda ogni giorno non solo lo
stillicidio ''ordinario'' e/o istituzionale di dichiarazioni,
discriminazioni
e atti razzisti contro gli stranieri, ma anche l'allarmante ripresa a
livello internazionale di una ''destra plurale'' (per usare la formula di
Guido Caldiron, nel libro che ha lo stesso titolo), la quale ha come cifra
comune il negazionismo e l'antisemitismo, impliciti oppure del tutto
espliciti, rivendicati, addirittura propagandati rumorosamente e
impunemente.

Le leggi razziali, la persecuzione e lo sterminio delle popolazioni
ebraiche, e con esse dei rom e dei sinti, mai sufficientemente ricordati, la
segregazione e l'annientamento degli omosessuali, degli oppositori politici,
dei soggetti sociali indocili, deboli o malati, compiuti dal nazismo con
metodicità burocratica e serialità industriale, certo furono resi possibili
da una temperie e da circostanze storiche ben definite. E dunque opportuno è
il richiamo di chi ci invita a non fare della persecuzione e dello sterminio
un'essenza metafisica sottratta alla storia e all'interpretazione
storiografica. Nondimeno, l'antisemitismo continua ad essere un modello
paradigmatico che ci consente di comprendere non poche cose intorno al
razzismo dei nostri giorni. Infatti, come ci ricorda Alberto Burgio nell'
introduzione a un volume collettaneo (Nel nome della razza. Il razzismo
nella storia d'Italia: 1870-1945), gli ebrei hanno costituito la
''perniciosa
sintesi" di tutte le dimensioni che assume la razzializzazione dell'altro. L
'antisemitismo è dunque il paradigma non solo del razzismo biologico, ma
anche del "razzismo senza razze''. La tendenza propria al razzismo dei
nostri
giorni, non a caso definito differenzialista, ad abbandonare l'argomento
della "razza" in favore di un culturalismo che in realtà naturalizza le
stesse culture (come le "etnie", le "identità", le "differenze", le
"civiltà".) ha il suo antecedente esemplare nella definizione degli ebrei
come "razza storica" o "razza mentale", fatta propria da Hitler ed
enfatizzata fra gli altri da Julius Evola, ideologo del razzismo fascista
(vedi P.A. Taguieff, La forza del pregiudizio). L'odierna riduzione dell'
immigrato musulmano a "estraneità radicale", a tipo "culturalmente ed
etnicamente inintegrabile" (così lo definisce il politologo liberal Giovanni
Sartori, in un inquietante libretto, Pluralismo, multiculturalismo e
estranei) ha il suo prototipo nella definizione dell'ebreo data dall'
antisemitismo nazifascista. Infine, la stessa struttura mentale paranoica
che vede l'altro come il nemico interno, annidato nelle pieghe della nostra
società, ove complotta e attenta all'ordine sociale -si pensi all'attuale
ondata di islamofobia, esacerbatasi dopo l'11 settembre e la guerra
permanente- è rappresentata esemplarmente nell'antisemitismo.

Tutto ciò ci imporrebbe una seria riflessione sulle rotture e le continuità,
le analogie e le differenze fra i razzismi, una riflessione che purtroppo
non fa ancora parte della coscienza civile italiana. Infatti, in Italia,
come più volte ha rimarcato fra gli altri David Bidussa, la vicenda dell'
antisemitismo e del razzismo è stata considerata come un corpo estraneo e
analizzata come un evento non legato alla storia nazionale. Di qui, anche,
discendono tanto la difficoltà e la riluttanza della società italiana a
riconoscere, prendere coscienza e analizzare il ''proprio'' razzismo, quanto
la sua debole reattività verso le forme, anche le più scoperte, di xenofobia
e di antisemitismo. L'una e l'altro sono oggi in allarmante crescita, anche
grazie a un governo che ha incorporato gli imprenditori politici del
razzismo e alla polarizzazione che si è determinata dopo l'11 settembre e la
proclamazione della guerra illimitata e permanente.

E a questo proposito, io ritengo che le polemiche, legittime anche quando
massimamente aspre, sul ruolo del governo israeliano in carica dovrebbero
attentamente guardarsi dal rischio di assumere l'ideologia e il lessico che
è alla base di ogni razzismo: interpretando le vicende storiche in termini
di "scontro fra civiltà", assumendo il linguaggio della 'razza' o dell'
'etnia', leggendo gli eventi presenti in chiave di scontro fra essenze
metafisiche immutabili, imputando indistintamente agli 'ebrei' come ai
'musulmani' responsabilità politiche che vanno attribuite a ben precisi
soggetti e interessi storici che si scontrano nell'arena internazionale.
Anche a questo dovrebbe essere utile il Giorno della memoria: non solo a
rammemorare le vicende dello sterminio, ma anche a compiere un esercizio di
interpretazione critica del presente, sobria e rigorosa, attenta a
decostruire le visioni, i linguaggi, le strutture simboliche che tendono a
naturalizzare la storia e la società, e a fare dell'Altro - un altro
mutevole che di volta in volta si incarna in questi o quegli indesiderabili-
l'indistinto capro espiatorio di tensioni e conflitti sociali, di interessi
e scontri geopolitici (vedi R. Gallissot, M. Kilani, A. Rivera, L'imbroglio
etnico). L'esercizio critico, insieme all'attenzione e alla reattività
politiche, è condizione obbligatoria se si vuole che "mai più Auschwitz" non
resti retorico esorcismo, ma divenga quotidiano impegno intellettuale,
civile e politico.