La nonviolenza e' in cammino. 469



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 469 del 7 gennaio 2003

Sommario di questo numero:
1. Maria G. Di Rienzo: equita' di genere e costruzione della pace, una
scheda operativa
2. Luigi Ferrajoli, perche' l'Onu non puo' promuovere ne' autorizzare la
guerra all'Iraq
3. Tende di pace a Rafah
4. Letture: Augusto Cavadi, Essere profeti oggi
5. Letture: Augusto Cavadi, Ripartire dalle radici
6. Riletture: Maria Teresa Biason, La massima o il "saper dire"
7. Riletture: Stefania Guerra Lisi, Il metodo della globalita' dei linguaggi
8. Riletture: Maria Chiara Levorato, Le emozioni della lettura
9. Riletture: Sigrid Loos, Novantanove giochi cooperativi
10. Riletture: Maria Rita Parsi, Il mondo creato dai bambini
11. Riletture: Mara Selvini Palazzoli, Stefano Cirillo, Matteo Selvini, Anna
Maria Sorrentino, I giochi psicotici nella famiglia
12. La "Carta" del Movimento Nonviolento
13. Per saperne di piu'

1. EDITORIALE. MARIA G. DI RIENZO: EQUITA' DI GENERE E COSTRUZIONE DELLA
PACE, UNA SCHEDA OPERATIVA
[Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: dirienzo at tvol.it) per averci
messo a disposizione questo suo utilissimo testo. Maria G. Di Rienzo e' una
prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, regista
teatrale e commediografa, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne
italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Universita' di
Sidney (Australia); e' impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di
Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei diritti umani, per
la pace e la nonviolenza]
Questo documento intende fornire suggerimenti alle persone e ai gruppi che
lavorano nel campo della gestione dei conflitti (che include la prevenzione,
il contenimento, la risoluzione, la riconciliazione e la ricostruzione). E'
un tentativo di trarre spunti pratici e operativi dalla crescente
comprensione della stretta correlazione fra le l'equita' di genere, il
conflitto, e la costruzione della pace.
*
Retroscena
Equita' di genere, o eguaglianza di opportunita' fra i generi: e' un
concetto che e' stato adottato a livello internazionale come uno scopo
vitale per lo sviluppo della cooperazione e la costruzione di pace.
Genere e ruoli di genere: il genere si riferisce alla costruzione di ruoli
sociali per donne ed uomini, ed alle responsabilita' ascritte a tali ruoli.
Esso include le aspettative sociali rispetto al comportamento ed alle
attitudini di donne ed uomini. Ruoli ed aspettative sono frutto
dell'apprendimento, assai mutevoli rispetto alle epoche storiche e variabili
anche all'interno di una stessa cultura. L'equita' di genere richiede un
eguale godimento per donne ed uomini di beni valutati socialmente, di
opportunita', di risorse e di ricompense. Eguaglianza di opportunita' non
significa che donne ed uomini diventano la stessa cosa, ma che si offrono ad
entrambi eguali possibilita' di compiere delle scelte di vita. Raggiungere
un'equita' di genere richiede cambiamenti nelle pratiche istituzionali e
nelle relazioni sociali, attraverso le quali le discriminazioni vengono
sostenute e rinforzate.
Mainstreaming: e' la volontà di inserire l'agenda di genere in ogni
processo, tavolo, istituzione, al fine di ottenere lo scopo dell'equita'.
Nei processi di costruzione di pace, il mainstreaming concerne sicuramente
l'aumentare la partecipazione delle donne, ma va oltre, cercando di
promuovere relazioni eque in campo politico, economico e sociale, e
riconoscendo il differente impatto della presenza e dell'intervento delle
donne e degli uomini.
Nell'ottobre 2000, il Consiglio di Sicurezza dell'Onu emano' una risoluzione
(la 1325) in cui si riconosceva che per mantenere e promuovere pace e
sicurezza c'e' la necessita' di una eguale partecipazione delle donne nei
processi decisionali, e si richiedeva l'adozione di una prospettiva di
genere. Sebbene questo abbia suscitato azioni positive in diverse ong,
l'attenzione al genere appare ancora essere ai margini dei processi di
costruzione di pace. Iniziative su iniziative vengono implementate senza
prestare attenzione a come i bisogni e le priorita' differiscano a seconda
che si sia uomini o donne, ragazzi o ragazze.
*
Perche' e' importante l'agenda di genere nelle iniziative di costruzione
della pace
Il genere e' una dimensione rilevante nella costruzione di pace. Il
conflitto e' un'attivita' segnata dai generi. Vi e' in esso una divisione
netta del tipo di compiti, e donne ed uomini hanno differente accesso alle
risorse (inclusi i processi decisionali), oltre a sperimentare il conflitto
in modo diverso (come mise in luce la Piattaforma d'Azione della Quarta
Conferenza Mondiale sulle Donne, Pechino 1995). Percio', cogliere la
dimensione di genere di una situazione e' un requisito necessario per
comprendere l'intera situazione.
*
Istanze di genere in una situazione di conflitto
Fattori quali il genere, la religione, l'eta', la classe, l'etnia,
l'orientamento sessuale possono presentarsi in maniera diversa a seconda del
tipo di conflitto e necessitano sempre di un'analisi specifica, legata alla
situazione particolare in cui si danno. Di seguito ci si limita percio' a
sottolineare i dati piu' comuni.
Elementi di situazioni di conflitto e possibili dimensioni di genere:
a) Situazioni di pre-conflitto:
1) Incremento nella mobilitazione di soldati (richiamo alle armi).
Agenda di genere: Incremento del commercio sessuale (inclusa la
prostituzione infantile) attorno alle basi militari e ai campi degli
eserciti.
2) Propaganda nazionalista usata per incrementare il supporto all'azione
militare.
Agenda di genere: Promozione di stereotipi di genere e di definizioni
ristrette della "mascolinita'" e della "femminilita'". Crescente pressione
sugli uomini affinche' "difendano la nazione".
3) Mobilitazione di attivisti ed organizzazioni pacifiste.
Agenda di genere: Le donne sono generalmente le piu' attive nei movimenti
per la pace, sia in gruppi misti che in organizzazioni femminili. Spesso le
donne richiedono autorevolezza morale sul tema in quanto madri: in alcune
situazioni, quando nessun altro tipo di protesta viene permesso, il
dimostrare delle madri e' l'unica possibilita'.
4) Aumento delle violazioni dei diritti umani.
Agenda di genere: I diritti delle donne non vengono riconosciuti come
diritti umani. La violenza di genere puo' aumentare.
b) Durante le situazioni di conflitto:
1) Traumi psicologici, violenza fisica, morte.
Agenda di genere: Gli uomini tendono primariamente ad essere
soldati/combattenti (in svariati conflitti c'e' comunque un numero rilevante
di donne combattenti) ed a soffrire dei traumi relativi. Durante i conflitti
armati le donne e le ragazze sono spesso vittime di violenza sessuale
(stupro, mutilazioni sessuali, umiliazioni, prostituzione forzata e
gravidanza forzata).
2) Le reti sociali vengono distrutte.
Agenda di genere: Le relazioni fra i generi sono soggette a stress e a
cambiamenti. La tradizionale divisione del lavoro all'interno delle famiglie
e' sotto pressione: le tecniche di sopravvivenza necessitano spesso
cambiamenti nella divisione sociosessuata del lavoro. Le donne possono
divenire responsabili di un maggior numero di persone che dipendono da loro.
3) Coinvolgimento della popolazione nel conflitto. Le usuali pratiche di
vita e di lavoro vengono distrutte.
Agenda di genere: La ripartizione dei compiti nei posti di lavoro puo'
cambiare. Le donne possono assumere occupazioni e responsabilita'
tradizionalmente considerate "maschili".
4) Razionamento di beni e servizi primari (cibo, assistenza sanitaria,
acqua, combustibile).
Agenda di genere: Aumenta il carico di lavoro delle donne (e delle ragazze)
quali  "provveditrici" dei bisogni giornalieri della famiglia. Gli uomini
non combattenti fanno esperienza dello stress relativo alle difficolta' di
"mantenere" le loro famiglie.
5) Creazione di rifugiati e profughi.
Agenda di genere: Le risposte delle persone ad una situazione d'emergenza
sono influenzate dall'appartenere ad uno dei due generi. Uomini e donne
rifugiati/e e profughi/e hanno sovente differenti bisogni e differenti
priorita'.
6) Negoziazioni di pace.
Agenda di genere: Le donne sono quasi sempre escluse dai dialoghi ufficiali,
anche a causa del loro scarso accesso pre-conflitto alle organizzazioni ed
istituzioni che presiedono il processo decisionale.
c) Durante la ricostruzione e la riabilitazione
1) Negoziazioni politiche e pianificazione per implementare gli accordi di
pace.
Agenda di genere: La partecipazione delle donne e degli uomini a questi
processi tende a variare, con le donne che giocano ruoli minori nella
formazione ufficiale delle politiche negoziate.
2) I media comunicano messaggi relativi agli accordi.
Agenda di genere: L'ineguale accesso delle donne ai media significa che i
loro interessi, i loro bisogni e le loro prospettive non vengono
rappresentati ne' discussi.
3) Uso di osservatori internazionali, peacekeepers, "caschi blu" dell'Onu.
Agenda di genere: Il personale suddetto, generalmente, non ha una
preparazione sulle istanze di genere (i diritti delle donne come diritti
umani, come riconoscere la violenza di genere). Donne e ragazze sono state
sovente molestate e assalite sessualmente proprio dai "peacekeepers".
4) Elezioni di un nuovo governo.
Agenda di genere: Le donne fronteggiano specifici ostacoli nell'esercitare
il diritto di voto o il diritto ad essere elette, e nell'avere istanze di
genere discusse come istanze elettorali.
5) Investimenti internazionali per la creazione di posti di lavoro,
assistenza sanitaria, ecc.
Agenda di genere: I programmi di ricostruzione possono non riconoscere o non
conferire priorita' ai bisogni sanitari di donne e ragazze, alla necessita'
di istruzione e di credito finanziario delle stesse.
6) Smobilitazione dei combattenti.
Agenda di genere: Priorita' conferita agli ex soldati (assunti come corpo
totalmente maschile), con garanzie di benefici rispetto all'assegnazione di
terre o di finanziamenti a cui le donne non accedono
7) Azioni per incrementare la capacita' e la fiducia in una societa' civile.
Agenda di genere: La partecipazione delle donne all'organizzazione delle
loro comunita' e alle ong e' generalmente sottostimata o non vista. Le ong,
da parte loro, spesso mancano dell'abilita' o dell'interesse nel dare
priorita' alle istanze di genere.
*
Cosa fare?
a) Tutte le iniziative relative ai processi di costruzione della pace
dovrebbero:
- Incorporare un'analisi di genere della situazione.
- Incoraggiare la partecipazione delle donne nei processi decisionali
relativi alla risoluzione dei conflitti.
- Promuovere le donne come attrici e protagoniste (anziche' come "gruppo
vulnerabile").
b) C'e' la necessita' di iniziative specifiche, dirette ad aumentare la
capacita' delle organizzazioni nel maneggiare le differenze di genere e nel
ridurre le ineguaglianze e le discriminazioni. Cio' puo' includere
iniziative dirette specificatamente alle donne (seminari di formazione) e
agli uomini (sensibilizzazione e analisi delle connessioni fra le diverse
mascolinita' e la violenza).
*
L'analisi di genere nelle inziative di costruzione della pace
Di seguito si riportano alcune domande a cui bisognerebbe rispondere quando
si organizzano iniziative: non in maniera "meccanica", poiche' esse sono
intese a suscitare riflessione ed azione sul come incorporare la prospettiva
dell'equita' di genere nelle iniziative stesse.
Domande chiave (e perche'  rispondervi):
1) Come e perche' l'equita' di genere e' importante per i risultati e
l'impatto dell'iniziativa?
Troppo spesso le istanze relative all'equita' di genere sono considerate
"aggiuntive", marginali, un sotto schema. In molti programmi si tiene conto
piu' del numero di donne che partecipano all'iniziativa, piuttosto che
considerare l'impatto generale delle discriminazioni dovute al genere.
2) C'e' stata un'analisi di come le donne posso contribuire alla costruzione
di pace in questa situazione e di come l'iniziativa puo' contribuire
all'equita' di genere?
Per esempio: un programma di ricostruzione economica dovrebbe guardare a
come le donne partecipano al programma nel suo insieme, piuttosto che
mettere da parte una somma marginale di finanziamenti per i progetti delle
donne.
3) E' stato effettuato il contatto con le organizzazioni pacifiste locali,
in special modo quelle che coinvolgono le donne?
E' importante costruire sul locale, con chi e' "esperto/a" del luogo.
4) C'e' una comprensione chiara delle differenti maniere in cui le persone
fanno esperienza di un conflitto?
Lo sbilanciamento fra uomini e donne nell'accesso al 'potere', alla
conoscenza, alle risorse, si riflette in numerosi aspetti.
5) C'e' una comprensione chiara dei differenti bisogni, interessi e
priorita' dei ragazzi e delle ragazze?
E' importante non assumere che tutti i minori condividano gli stessi bisogni
ed interessi. Capire che ragazzi e ragazze vivono situazioni differenti deve
far parte dell'analisi generale.
6) L'analisi ha incluso considerazioni sulla divisione sociosessuata del
lavoro, sul differente accesso e controllo rispetto alle risorse? Ha
calcolato il lavoro domestico?
Le dichiarazione di principio sul muoversi verso l'equita' di genere
abbondano: e' rarissimo invece che l'analisi di genere diventi routine nella
preparazione di un progetto, sebbene sia un'informazione cruciale per
comprendere ogni specifica situazione.
7) C'e' una comprensione chiara della violenza di genere e della violazione
dei diritti umani delle donne?
La violenza di genere e la scarsita' di rispetto per i diritti delle donne
sono spesso citate come priorita' a cui rispondere nei processi di
costruzione della pace, tuttavia molte organizzazioni mancano di formazione
appropriata e non sono grado di rispondere efficacemente.
8) Le donne hanno partecipato in modo significativo nella fase di
progettazione dell'iniziativa? I promotori della stessa hanno dimostrato la
capacita' e la volonta' di coinvolgere le donne?
Le metodologie partecipative non assicurano automaticamente che le voci
delle donne vengano ascoltate, e che le loro prospettive vengano
rappresentate nel progetto. E' importante capire che ostacoli le donne
fronteggiano e ridurlo al minimo.
9) Le donne sono percepite come attrici e protagoniste, piuttosto che
primariamente come vittime?
Le organizzazioni di cooperazione allo sviluppo si sono spesso concentrate
sulle donne come vittime, piuttosto che rafforzare e sostenere la loro
capacita' di sopravvivere, di agire, di articolare visioni alternative e di
ricostruire.
*
Indicatori di successo nell'aver lavorato per l'equita' di genere
- La sicurezza degli esseri umani e' migliorata (l'iniziativa ha saputo
distinguere fra la sicurezza delle donne e quella degli uomini, quella dei
ragazzi e quella delle ragazze, e il risultato e' che la sicurezza di
ognuna/o e' aumentata).
- E' aumentata la capacita' di "leader" locali nell'assumersi
responsabilita' per la pace (i/le leader sono uomini e donne; hanno la
capacita' di riconoscere i bisogni e i contributi di uomini e donne).
- La societa' civile si e' rafforzata (le donne sono partecipanti attive
nelle organizzazioni della societa' civile; tali organizzazioni
rappresentano le istanze dei loro membri maschi e femmine; gruppi per
l'equita' di genere sono attivi nell'implementare agende politiche).
- Aumentata fiducia nella capacita' di funzionare del sistema politico e
legale (i diritti delle donne sono garantiti per legge; uomini e donne hanno
fiducia nella democrazia dei sistemi; la partecipazione delle donne alla
politica e' aumentata).
- La societa' e' de-militarizzata e le economie di guerre vengono convertite
(donne ed uomini beneficiano di iniziative economiche).

2. RIFLESSIONE. LUIGI FERRAJOLI: PERCHE' L'ONU NON PUO' PROMUOVERE NE'
AUTORIZZARE LA GUERRA ALL'IRAQ
[Questo articolo abbiamo estratto da "La rivista del Manifesto", n. 34 del
dicembre 2002 (in rete: www.larivistadelmanifesto.it). Luigi Ferrajoli,
illustre giurista, nato a Firenze nel 1940, gia' magistrato tra il 1967 e il
1975, dal 1970 e' docente universitario. Opere di Luigi Ferrajoli: tra i
lavori piu' recenti segnaliamo particolarmente la monumentale monografia
Diritto e ragione, Laterza, Roma-Bari 1989, giunta alla terza edizione; il
saggio La sovranità nel mondo moderno, Laterza, Roma-Bari  1997; e La
cultura giuridica nell'Italia del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1999]
1. Un decennio di guerre
Il passato decennio fu dichiarato nel 1990, dall'Assemblea generale
dell'Onu, "decennio del diritto internazionale": avrebbe dovuto essere, dopo
la fine della guerra fredda, il decennio del consolidamento della pace e
delle istituzioni internazionali.
Finita la divisione del mondo in blocchi, cessato l'incubo della guerra
nucleare, venuto meno ogni pericolo di aggressione da parte di potenze
nemiche, sembrava che nulla si opponesse a un futuro di pace e a una
rifondazione delle relazioni internazionali, basata su quella che Juergen
Habermas ha chiamato "una politica interna del mondo" (1) all'altezza dei
grandi problemi del pianeta: il disarmo progressivo e una graduale
cessazione della produzione di armi; la riduzione delle enormi
disuguaglianze, responsabili ogni anno della morte per fame e malattie di
milioni di esseri umani; una politica di sviluppo sostenibile della
ricchezza e dell'economia, idonea a salvaguardare l'ambiente per le
generazioni future.
E' in questa prospettiva, del resto, che si erano orientate le Conferenze di
Vienna e di Parigi sulla riduzione degli armamenti convenzionali,
sull'eliminazione delle armi nucleari e di quelle chimiche e
batteriologiche, sulla riforma della Nato e del vecchio Patto di Varsavia.
*
E' invece accaduto esattamente il contrario. Nel nuovo mondo unipolare,
improvvisamente privato del Nemico e impegnato soltanto a celebrare i
trionfi del libero mercato, si sono ignorati, e sono stati anzi aggravati,
tutti i grandi problemi del pianeta.
Si e' cosi' approfondito il divario tra paesi ricchi e paesi poveri, si e'
lasciato libero corso alle devastazioni dell'ambiente, si sono chiuse
ermeticamente le nostre frontiere a masse crescenti di affamati, senza
minimamente curarsi dell'odio e della rivolta, che frattanto montavano
contro l'Occidente, e delle minacce alla pace e alla sicurezza generate
dalla nostra miopia. Infine, si e' supplito a questa imprevidenza
irresponsabile e a questa totale incapacita' di governo con la politica
delle armi.
Sono state installate basi militari in tutti gli angoli del pianeta. E'
stata rifondata e rafforzata la Nato ed e' stato escluso, nel documento del
24 aprile 1999, ogni limite ai suoi poteri di intervento. Negli ultimi anni,
con la presidenza Bush, hanno ripreso a crescere le spese militari,
soprattutto americane.
E' cosi' che abbiamo avuto, anziche' il decennio del diritto internazionale,
il decennio delle guerre: la guerra del Golfo del 1991, la guerra nel Kosovo
del 1999, la guerra in Afghanistan dell'anno scorso, infine, la guerra
annunciata che incombe contro l'Iraq.
Al tempo stesso si e' sviluppato, nel senso comune, un processo di
normalizzazione della guerra quale strumento di soluzione dei problemi e dei
conflitti internazionali.
Nell'opinione pubblica occidentale sono state ormai tranquillamente avallate
come legittime le tre guerre passate, quelle nel Golfo, in Kosovo e in
Afghanistan. Una parte non irrilevante dell'opinione pubblica europea e la
maggioranza, temo, dell'opinione pubblica americana ritengono oggi
perfettamente legittima una guerra preventiva degli Stati Uniti contro
l'Iraq, anche senza una specifica autorizzazione del Consiglio di sicurezza.
La Carta dell'Onu, secondo costoro, e' stata definitivamente archiviata. La
schiacciante maggioranza, per cosi' dire moderata, delle forze politiche -
in Italia, dall'intero centro-destra alla maggioranza dell'Ulivo - ritengono
infine legittima una guerra contro l'Iraq autorizzata dal Consiglio di
sicurezza dell'Onu, confondendo l'Onu, ossia l'ordinamento internazionale
istituito dalla Carta dell'Onu, con qualunque cosa il Consiglio decida,
anche in contrasto con le norme in essa stabilite.
*
L'espressione "pacifismo" o "pacifismo assoluto" e' diventata frattanto poco
meno che un insulto: equiparata nel migliore dei casi ad "anti-americanismo"
pregiudiziale e, nel peggiore, a fuga dalla realta' e a ideologismo
irresponsabile. Al contrario, l'adesione della sinistra alla guerra, quanto
meno nel caso di un'autorizzazione del Consiglio di sicurezza dell'Onu,
viene presentata, dalla maggior parte dei commentatori, come un segno di
"responsabilita'", di "maturita' politica" e di "affidabilita'" come forza
di governo.
*
2. L'Onu e la guerra
E' questo senso comune, alimentato da luoghi comuni e da una totale
noncuranza per quanto e' disposto dalla Carta dell'Onu, che dobbiamo
analizzare.
Di solito esso non si fa carico di un'argomentazione razionale, ne' tanto
meno giuridica a sostegno della guerra. Sono percio' preziosi gli interventi
che a tal fine, anziche' limitarsi alle contumelie nei confronti dei
pacifisti, enunciano argomenti giuridici e razionali. Non parlo, ovviamente,
delle posizioni dei falchi, favorevoli a schierarsi con gli Stati Uniti
senza riserve ne' condizioni, ne' tantomeno scrupoli di carattere giuridico.
Parlo della posizione di coloro che giudicano la guerra giuridicamente
legittima, e l'adesione dell'Italia doverosa, se essa avvenisse con l'avallo
dell'Onu, e precisamente del Consiglio di sicurezza. E' quanto hanno
sostenuto il presidente della Camera Pier Ferdinando Casini sulla
"Repubblica" del 26 ottobre 2002 e poi Giorgio Napolitano su "l'Unia'" del 5
novembre 2002 (2), in risposta entrambi al severo e ripetuto richiamo di
Pietro Ingrao al rispetto dell'articolo 11 della nostra Costituzione.
L'argomentazione giuridica a sostegno di questa tesi e' molto semplice.
Primo: l'art. 11 della nostra Costituzione non contiene soltanto il ripudio
della guerra, ma anche "le limitazioni di sovranita' necessarie ad un
ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni". Secondo:
l'ordinamento istituito dalla Carta dell'Onu prevede, nell'art. 42 del suo
capitolo VII, che il Consiglio di sicurezza, ove accerti "una minaccia alla
pace" e l'inadeguatezza delle misure "non implicanti l'impiego della forza
armata", possa "intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni
azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza
internazionale". Conclusione: l'intervento armato in Iraq sara' pienamente
lecito e l'Italia non potra' non aderire, ove ottenga, scrive Napolitano,
"il sigillo di un voto del Consiglio di sicurezza dell'Onu che la legittima
come decisione non di guerra, ma, all'opposto, come decisione per la pace,
per il suo mantenimento o ristabilimento". "La copertura dell'Onu - scrive a
sua volta Casini - rende senz'altro legittime azioni militari dell'Italia".
Perche' questa argomentazione e' tanto suggestiva e semplicistica quanto
sommaria e fallace?
Perche' elude pressoche' tutte le questioni che sono poste dalla Carta
dell'Onu in materia di uso legittimo della forza.
*
Segnalera' qui quattro questioni, alcune delle quali vengono spesso tra loro
confuse nel dibattito politico e che occorre invece distinguere
analiticamente.
La prima questione e' se il terrorismo internazionale giustifichi la guerra.
Questa domanda puo' essere a sua volta scomposta in altre due. La prima e'
del tutto indipendente dal diritto: la guerra e' uno strumento idoneo a
battere il terrorismo? La seconda e' piu' propriamente giuridica: e'
sufficiente che il terrorismo sia riconosciuto come una minaccia alla pace
perche' possa legittimare una guerra?
La seconda questione riguarda il rapporto, che di solito si da' per
scontato, tra la lotta al terrorismo internazionale e la minaccia di una
guerra contro l'Iraq. Anche questa questione puo' essere scomposta in due
domande. Innanzitutto, con quali argomenti si giustifica la guerra contro
l'Iraq? Perche' l'Iraq appoggia il terrorismo, oppure perche' e' dotato o si
sta dotando di armi di distruzione di massa? In secondo luogo: ammesso che
questi presupposti siano provati, e' legittimo in base ad essi una guerra
preventiva?
La terza questione riguarda la natura dell'intervento armato che puo' essere
autorizzato dal Consiglio di sicurezza. Ammesso che nella condotta irachena
ricorrano i presupposti per un uso della forza da parte dell'Onu, un simile
uso della forza puo' consistere in una guerra? In altre parole: esiste una
differenza, e in che cosa consiste, tra uso legittimo della forza da parte
dell'Onu e guerra?
La quarta questione, infine, riguarda il senso del nostro "stare con l'Onu",
e percio' la natura delle scelte che saremo chiamati a operare nell'ipotesi
che, con o senza l'autorizzazione del Consiglio di sicurezza, si arrivi a
una guerra.
*
3. Guerra e terrorismo
Cominciamo dalla prima questione.
E' vero o no che il terrorismo e' una minaccia alla pace? si chiedono Casini
e Napolitano, richiamando subito dopo il nesso che lega la seconda parte del
nostro articolo 11 e la previsione, nella Carta dell'Onu, di interventi
armati contro minacce alla pace. Certamente si': il terrorismo e' una
minaccia alla pace. Ma una tale minaccia, dobbiamo aggiungere, se e' una
condizione necessaria, non e' certo una condizione sufficiente a
giustificare la guerra.
La questione si era gia' posta l'anno scorso, in occasione della guerra in
Afghanistan. Dicemmo allora che nei confronti di un'organizzazione
terroristica ramificata in decine di paesi la guerra - a parte qualunque
considerazione di principio, morale o giuridica - e' uno strumento del tutto
inadeguato: idoneo a uccidere migliaia di vittime innocenti ma non certo a
sgominare, ma semmai ad alimentare, il terrorismo. I fatti ci hanno dato
ragione, ed e' incredibile che questo non sia riconosciuto da nessuno di
quanti allora sostennero la guerra con il fine di debellare il terrorismo.
Certamente, la guerra contro l'Afghanistan e' stata vinta e l'orribile
regime dei talebani e' stato abbattuto. Ma non era questo lo scopo della
guerra, ne' poteva legittimamente esserlo. Rispetto al suo scopo, che era la
sconfitta del terrorismo, la guerra e' fallita: migliaia di civili innocenti
sono stati uccisi, ma Osama bin Laden e il mullah Omar sono sopravvissuti.
In ogni caso il terrorismo non e' stato affatto, da quella guerra,
debellato: tanto e' vero che lo si continua a invocare come giustificazione
di una nuova guerra.
A cosa e' servita allora la guerra dell'anno scorso? E come possiamo pensare
che una nuova guerra riuscirebbe a raggiungere l'obiettivo fallito dalla
prima? Oppure, visto che si sa che il terrorismo di Al Qaeda e' presente in
decine di paesi, dobbiamo rassegnarci alla terribile prospettiva di una
guerra planetaria infinita, con milioni di morti? E chi ci assicura, poi,
che una guerra infinita riuscirebbe a debellare le organizzazioni
terroristiche, e non avrebbe invece l'effetto di assecondarle, alimentarle,
moltiplicarle in una spirale senza fine?
La verita' e' che il fallimento della guerra e' dovuto alla sua totale
incongruenza rispetto ai fini dichiarati.
E questa incongruenza del mezzo della guerra rispetto al fine e' gia' di per
se' un sintomo della sua illiceita' giuridica, cioe' del suo contrasto con
la razionalita' strumentale storicamente sedimentatasi nelle forme e nei
principi fondamentali del diritto.
Giacche' il terrorismo non e' equiparabile alla guerra, la quale e' solo tra
Stati ("publicorum armorum contentio", la defini' Alberico Gentili), bensi'
un fenomeno criminale, che va affrontato non con la guerra ma con la
scoperta e la punizione dei colpevoli, non con gli eserciti ma con la
polizia, non con le bombe ma con il difficile accertamento delle
responsabilita'. E richiede percio' mezzi diversi dagli inutili e
spettacolari bombardamenti dal cielo: il coordinamento internazionale delle
polizie dei vari paesi, le capacita' investigative occorrenti a identificare
e a neutralizzare la rete complessa delle organizzazioni clandestine e delle
loro complicita', l'isolamento politico dei gruppi armati e, ovviamente,
quell'impiego della forza necessario a disarmarli e a catturarli. Richiede,
soprattutto, l'asimmetria tra crimine e pena istituita dal diritto, la cui
efficacia e la cui forza simbolica risiedono precisamente nel suo interporsi
nel ciclo altrimenti inarrestabile della violenza terroristica, della
vendetta e della guerra, configurandosi nelle forme, rispetto a queste
asimmetriche e alternative, della sanzione e della giurisdizione penale.
La guerra, al contrario, puo' soddisfare il desiderio di vendetta, puo'
magari far vincere le elezioni, puo' servire a esorcizzare le paure, o anche
a mettere le mani sul petrolio o a sperimentare nuove armi e ad esibire
potenza e ruolo imperiale.
Ma e' del tutto controproducente come mezzo di difesa nei confronti dei
terroristi. Per questo essa e' tutto fuorche' quella misura coercitiva non
diciamo "necessaria", ma anche solo "adeguata", che e' richiesta dall'art.
42 della Carta dell'Onu "per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza
internazionale".
*
4. Terrorismo internazionale e questione irachena
Veniamo quindi alla seconda questione. Che rapporto c'e' tra la lotta al
terrorismo e l'attacco all'Iraq?
Il presidente Bush e i suoi sostenitori hanno avuto l'abilita' di mescolare
la questione del terrorismo internazionale con quella dell'Iraq come se
fossero la stessa, identica cosa. Sono cosi' riusciti a mobilitare le paure
dei cittadini americani a sostegno della guerra, quale che sia e pur che
sia. Ora, ammesso - pur se non concesso ed anzi, come ho appena detto,
escluso - che il terrorismo giustifichi la guerra, come si puo' usare un
tale argomento per scatenare una guerra contro l'Iraq senza che ci siano
prove che questo paese sia collegato al terrorismo di Al Qaeda, piu' di
quanto non lo siano l'Arabia Saudita o decine di altri paesi tra i sessanta
indicati dai servizi segreti americani come luoghi nei quali e' ramificata
la rete terroristica?
Certamente, Saddam Hussein e' un orrendo dittatore, la cui cacciata sarebbe
benefica per il popolo iracheno. Ma non puo' essere questa, sulla base della
Carta dell'Onu e perfino del diritto internazionale del vecchio modello
Westfalia, una giustificazione della guerra.
*
Resta l'ipotesi, pur giudicata improbabile dai precedenti ispettori (3), che
Saddam Hussein disponga di armi di distruzione di massa: ipotesi che il
Consiglio di sicurezza, con la sua risoluzione 1441 dell'8 novembre 2002, ha
dato incarico di accertare, nella maniera piu' approfondita, a una nuova
commissione di ispettori.
La domanda che dobbiamo porci e' se sia legittima un'autorizzazione del
Consiglio di sicurezza dell'Onu a una guerra preventiva, qualora l'esito
delle ispezioni fosse giudicato insoddisfacente.
Ora e' ben vero che l'esistenza di simili armi - da chiunque detenute e
soprattutto se in possesso di un dittatore irresponsabile - rappresenta una
minaccia alla pace, e sarebbe opportuno e lungimirante procedere a una loro
distruzione generalizzata.
E tuttavia questa minaccia non e' certo sufficiente a legittimare
l'autorizzazione di una guerra preventiva. Sia il Consiglio di sicurezza che
la Corte internazionale di giustizia hanno piu' volte non soltanto escluso,
ma condannato non diciamo la guerra ma perfino singole azioni militari
intraprese contro l'astratto pericolo di un'aggressione da parte di Stati
sospettati di essere in possesso di armi di distruzione di massa.
C'e' perfino un precedente che riguarda l'Iraq di Saddam Hussein: il 19
giugno 1981 il Consiglio di sicurezza adotto', con il voto anche degli Usa,
una risoluzione di condanna dell'attacco israeliano al reattore atomico
Osiraq, vicino a Bagdad, respingendo la tesi di Israele secondo cui l'azione
era stata giustificata dalla "necessita' di difendersi dalla costruzione di
una bomba atomica in Iraq" (4).
Il possesso di armi di distruzione di massa non sarebbe dunque sufficiente a
giustificare una guerra preventiva, neppure se autorizzata dal Consiglio di
sicurezza.
Armi di distruzione di massa sono detenute da decine di paesi, molti dei
quali governati da dittatori.
D'altro canto, l'ipotesi di una guerra di difesa preventiva, cioe'
finalizzata a prevenire l'impiego di tali armi in un possibile attacco
dell'Iraq all'Occidente, e' del tutto assurda, essendo tale attacco
inverosimile; il solo pericolo semmai, qualora Saddam possedesse simili
armi, sarebbe che ne facesse uso proprio se provocato dalla cosiddetta
guerra "preventiva".
*
Ma e' l'idea stessa di una guerra preventiva o di un diritto di difesa
preventiva che e' radicalmente esclusa dalla Carta dell'Onu: il cui articolo
51 prevede soltanto, come presupposto del "diritto naturale di autotutela",
"che abbia luogo un attacco armato".
*
5. Guerra e uso legittimo della forza
Vengo ora alla terza questione enunciata all'inizio. Ammesso - e di nuovo
non concesso, ed anzi nuovamente escluso - che esistano i presupposti per un
intervento armato contro l'Iraq sotto l'egida dell'Onu, potrebbe esso avere,
come purtroppo hanno avuto i tre interventi dello scorso decennio (contro
l'Iraq, la Serbia e l'Afghanistan), la natura della guerra, con
bombardamenti aerei, migliaia di vittime civili, devastazioni dell'ambiente
e delle strutture produttive dei paesi aggrediti?
La risposta, ovviamente, e' no.
Ma non nel senso che si debba semplicemente non chiamare guerra, come sembra
proporre Napolitano, ma "azione coercitiva internazionale" o "intervento di
polizia internazionale" quella medesima cosa che ha tutti i caratteri della
guerra, che e' stata sperimentata nelle tre guerre degli scorsi anni e che
ci si appresta a ripetere, con enorme spiegamento di forze, nei confronti
dell'Iraq.
Questo e' un gioco di parole, una truffa delle etichette gia' perpetrata nel
corso della guerra in Afghanistan, rispetto alla quale e' senz'altro
preferibile la schiettezza di quanti chiamano la medesima cosa con il suo
nome: "guerra", appunto.
Preferibile, se non altro, perche' la truffa delle etichette, oltre alla
degradazione dei nemici a criminali, ha avuto l'effetto ulteriore di
consentire la non applicazione ai nemici-criminali-terroristi del diritto
umanitario di guerra: si pensi solo alle gabbie di Guantanamo, nelle quali,
in violazione delle convenzioni di Ginevra sul trattamento dei prigionieri
di guerra, sono stati internati, con inammissibili vessazioni e
mortificazioni, i talebani catturati.
Evidentemente, l'uso legittimo della forza previsto dagli articoli 42-48
della Carta dell'Onu per "mantenere la pace" non puo' che essere una cosa
ontologicamente diversa dalla guerra.
Diciamo dunque che esso non puo' essere una guerra, e non semplicemente,
come scrive Napolitano in un secondo intervento apparso su "l'Unita'" del 9
novembre 2002 (5), che "non puo' essere chiamato guerra" "per la
contraddizione che non lo consente", come Napolitano aggiunge: ma nel senso
che cio' che e' in contraddizione con il fine del mantenimento della pace e'
che si faccia la guerra, e non che si chiami "guerra" cio' che appunto e'
una guerra. Su questo, spero che Napolitano concordera', non ci possono
essere dubbi. Altrimenti avremmo - di fatto, pur se mascherato dalle
parole - il paradosso ("la contraddizione che non lo consente") che per
sventare una minaccia alla pace si fa la guerra: che la pace puo' essere
mantenuta con la guerra.
*
Certo, puo' sembrare difficile identificare la differenza tra la guerra e
l'"azione coercitiva internazionale" che, secondo l'articolo 42 della Carta,
puo' essere intrapresa con "forze aeree, navali o terrestri"; tanto piu' che
una simile azione presupporrebbe l'attuazione, finora mancata, dell'intero
capitolo VII, a cominciare dall'istituzione del Comitato di stato maggiore,
investito dall'articolo 47 della "responsabilita' della direzione
strategica" dell'intervento "alle dipendenze del Consiglio di sicurezza".
Ma la differenza tra le due cose resta chiarissima, sia nella sostanza che
nelle forme.
Innanzitutto l'impiego della forza previsto dalla Carta dell'Onu non puo'
essere diretto a debellare il nemico, ma solo a neutralizzarlo ove cio' sia
necessario per "mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza
internazionale".
Deve trattarsi, in altre parole, di un uso controllato e limitato della
forza, che escluda comunque il sacrificio di persone innocenti.
In secondo luogo tale uso della forza deve svolgersi costantemente sotto la
direzione del Consiglio di sicurezza. La mancata attuazione del capitolo VII
della Carta - la cui responsabilita', sia detto per inciso, ricade
interamente sulle grandi potenze - non toglie affatto, ma al contrario
comporta che il Consiglio non possa delegare interamente la gestione
dell'intervento a uno o piu' Stati membri, ma debba al contrario mantenerne
costantemente la direzione e il controllo, decidendo i mezzi da impiegare,
l'inizio e la fine delle operazioni e tutte le fasi intermedie.
"Il Consiglio di sicurezza", dice l'articolo 53 con riferimento all'impiego
di forze diverse da quelle previste dal capo VII, quali quelle istituite da
accordi o da organizzazioni regionali (per esempio la Nato), "utilizza" tali
forze "per azioni coercitive sotto la sua direzione", nessuna delle quali,
aggiunge, "potra' venire intrapresa... senza la (sua) autorizzazione".
Basterebbe questo a escludere come illegittima una risoluzione dell'Onu che
avesse previsto un qualche nesso automatico, come pretendevano gli Stati
Uniti, tra la (valutazione della) sua violazione e (non diciamo la guerra
ma) l'azione coercitiva internazionale.
Ma, soprattutto, basta questo ad escludere come illegittima
un'interpretazione della risoluzione 1441 dell'8 novembre, subito avanzata
dai falchi statunitensi e fatta propria da esponenti della nostra destra,
che vedesse un'implicita autorizzazione all'intervento armato nelle "serie
conseguenze" in essa minacciate in caso di sue violazioni da parte
dell'Iraq.
Simili automatismi sono infatti esclusi inequivocabilmente, oltre che dai
gia' menzionati articoli 47 terzo comma e 53 della Carta, dall'articolo 48,
secondo il quale "l'azione necessaria per eseguire le decisioni del
Consiglio di sicurezza per il mantenimento della pace" deve essere
intrapresa "secondo quanto stabilisca il Consiglio di sicurezza" medesimo.
Se cosi' non fosse una tale azione scadrebbe, inevitabilmente, nella
guerra - la guerra per mantenere la pace! -, come purtroppo e' accaduto
nelle precedenti guerre del decennio, a cominciare dalla prima guerra del
Golfo.
*
Insomma, l'appello al diritto formulato dal pacifismo giuridico non equivale
affatto alla rinuncia all'uso della forza.
Al contrario, il diritto e' precisamente la regolazione della forza: e' la
sua limitazione ai soli casi e nella sola misura in cui e' necessaria per
minimizzare la violenza; e' il suo monopolio giuridico in capo a un
organismo terzo e super partes; e' la garanzia che il suo impiego non
colpisca gli innocenti. E', in breve, la negazione della guerra, che e' per
sua natura violenza illimitata, sregolata e indiscriminata, cosi' come la
guerra e' la negazione del diritto. Ed e', oltretutto, il solo mezzo
efficace per fronteggiare il terrorismo e le altre minacce alla pace.
*
6. Il futuro del diritto internazionale
Infine, la quarta e ultima questione. Giorgio Napolitano raccomanda "fiducia
nella capacita' del Consiglio di sicurezza di valutare tutti i rischi, i
costi, le implicazioni di un'azione militare e di risolversi ad autorizzarla
(almeno 9 Stati membri su 15) solo in caso di estrema, ineludibile
necessita'". Dopo quanto si e' detto, dovrebbe essere chiaro che un simile
caso "di necessita'" non e' oggi all'ordine del giorno.
Il Consiglio di sicurezza, e' opportuno ricordare, non e' un sovrano
assoluto. E' sottoposto alla Carta dell'Onu, sulla base della quale mancano
oggi i presupposti perfino di quell'azione coercitiva che e' prevista dal
suo capitolo VII e che, comunque, non potrebbe mai essere una guerra.
Che vuol dire, allora, aver fiducia nell'Onu? Se ci sara' una guerra, i casi
saranno due: o sara' un illecito dei soli Stati aggressori, oppure sara' un
illecito cui avra' concorso, con il suo avallo, il Consiglio di sicurezza. E
in questo secondo caso, ben piu' grave e disastroso per il futuro del
diritto internazionale, come potremmo avere fiducia nel Consiglio di
sicurezza, che avesse avallato la guerra, ben sapendo che esso e' stato
sottoposto dal presidente americano alle pressioni sprezzanti, al limite
dell'ultimatum ("non esiteremo ad agire da soli", "stiamo perdendo la
pazienza"), che tutti abbiamo letto sui giornali?
Ma fortunatamente non siamo ancora a questo punto.
Un'esplicita autorizzazione della guerra da parte del Consiglio di sicurezza
non c'e' stata ed e' probabile che non ci sara'. E allora, la questione su
cui occorre confrontarsi - e sulla quale la sinistra rischia assurdamente di
dividersi - non e', genericamente, se dobbiamo o meno uniformarci alle
decisioni dell'Onu, ma quali sono il significato e il fondamento di tali
decisioni. Le questioni, precisamente, sono due, l'una subordinata
all'altra.
Prima questione: le "serie conseguenze" di cui parla il punto 13 della
risoluzione 1441 alludono a un'implicita, ipotetica e illegittima
autorizzazione di un attacco armato in caso di fallimento delle ispezioni,
oppure richiedono - in conformita' alla Carta dell'Onu, e come hanno
dichiarato i rappresentanti della Francia, della Russia e della Cina in un
comunicato del 9 novembre - di essere deliberate con una seconda, apposita
risoluzione? In concreto, tutte le varie forze politiche che in Italia
dichiarano di schierarsi con l'Onu - Pier Ferdinando Casini e Giorgio
Napolitano, per esempio - cosa faranno se gli Stati Uniti, sulla base di
un'interpretazione chiaramente illegittima della risoluzione, decideranno di
attaccare? Si accoderanno, oppure si opporranno, invocando l'art. 53 della
Carta dell'Onu, secondo cui "le azioni coercitive" si svolgono "sotto la
direzione" del Consiglio di sicurezza, senza la cui "autorizzazione",
deliberata evidentemente da un'esplicita e autonoma risoluzione, "nessuna
azione coercitiva potra' venire intrapresa"?
Seconda questione, che si spera non si porra' mai: che fare, se ci si
schiera con l'Onu, di fronte a una seconda risoluzione del Consiglio di
sicurezza che domani, ove si ritenessero fallite le ispezioni,
esplicitamente autorizzasse la guerra? Per rispondere a questa domanda
dobbiamo intenderci su che cosa vuol dire "schierarsi con l'Onu". Vuol dire
stare dalla parte dell'ordinamento dell'Onu, quale risulta dalla sua Carta
statutaria, oppure, aprioristicamente, dalla parte del Consiglio di
sicurezza, pur se esso autorizzasse una guerra in assenza dei presupposti e
delle forme previste dalla Carta? Ovviamente vuol dire schierarsi in difesa
dell'ordinamento dell'Onu, anziche' delle sue violazioni. Ma anche questo
non e' affatto chiaro nel senso comune che si e' venuto (de-)formando
intorno all'Onu, e che sembra accomunare sia i sostenitori che gli
oppositori della guerra. "Lei riconosce all'Onu - ha chiesto Bruno Vespa
agli invitati in una sua trasmissione - il diritto di decidere la guerra?".
E tutti hanno risposto di si', pur dividendosi tra quanti avrebbero
accettato e quanti avrebbero rifiutato una simile decisione, senza neppure
porsi il problema della sua possibile illegittimita'.
*
Ritorniamo a questo punto all'articolo 11 della nostra Costituzione.
E' ben vero che esso deve essere letto per intero. Ma la sua seconda parte
non deroga affatto alla prima, essendo la guerra ripudiata dalla Carta
dell'Onu non meno che dalla nostra Carta costituzionale.
Del resto le due carte nacquero nella stessa temperie storica e ideale e
coincidono in parte perfino sul piano letterale. Le parole"´come mezzo di
risoluzione delle controversie internazionali" del nostro articolo 11 sono
infatti riprese dall'articolo 1, primo comma della Carta dell'Onu. E la sola
eccezione da entrambe ammessa al divieto della guerra e' la legittima difesa
da un'aggressione in atto, prevista dall'art. 51 della Carta dell'Onu e
dall'art. 52 della nostra Costituzione. Non solo: l'art. 2, III comma della
Carta dell'Onu vieta non soltanto "l'uso", ma anche "la minaccia" dell'uso
della forza.
*
Tutto questo vuol dire che se ci sara' la guerra essa sara', comunque, una
violazione della Carta dell'Onu e, per quanto ci riguarda, ove l'Italia
aderisse, della nostra Costituzione.
Sara', sulla base dell'art. 5, lettera d) dello Statuto della Corte penale
internazionale entrato quest'anno in vigore, un "crimine di aggressione".
Ma si trattera', ben piu' che di un crimine, di una pesante ipoteca sul
futuro del nostro pianeta. Giacche' la lesione del diritto internazionale,
piu' ancora di quanto non sia avvenuto con le altre guerre, sarebbe in
questo caso a tal punto clamorosa e premeditata, da configurarsi non gia'
come un costo ma come un obiettivo, volto evidentemente a rifondare le
relazioni internazionali non piu' sull'Onu ma sul dominio militare della
superpotenza americana e sulla sovranita' assoluta del suo presidente,
nuovamente investito dell'antico, illimitato, diritto di guerra.
L'idea di un "nuovo ordine", basato sul modello americano - "liberta',
democrazia e libera impresa" - come unico modello legittimo, da imporre se
lo si ritiene anche con le armi, e' del resto apertamente espressa nel
documento strategico inviato in settembre dal presidente Bush al Congresso
degli Stati Uniti.
La domanda drammatica cui dovremo allora rispondere riguarda la natura di
questo "nuovo ordine". Auspicabile o deprecabile che sia, e' realistica una
sua qualche attuazione? E' pensabile che il mondo possa essere governato con
la guerra? O non ci attende, su questa strada, oltre a una guerra infinita,
un futuro di violenze e di terrorismi, di infinite e sempre piu' terribili
minacce alla pace e alla nostra stessa sicurezza?
*
Note
1. "Con la fine dell'equilibrio del terrore - ha scritto Juergen Habermas -
sembra che sul piano della politica internazionale della sicurezza e dei
diritti umani si sia dischiusa, nonostante tutti i contraccolpi, una
prospettiva per cio' che C. F. von Weizsaecker ha definito 'politica interna
del mondo' [Weltinnenpolitik]", Cfr. Die Einbeziehung des Anderen, 1996,
traduzione italiana di L. Ceppa, L'inclusione dell'altro. Studi di teoria
politica, Feltrinelli, Milano 1998, p. 139. L'espressione e' ripresa in J.
Habermas, Die postnationale Konstellation (1998), trad. it. di L. Ceppa, La
costellazione post-nazionale. Mercato globale, nazioni e democrazia,
Feltrinelli, Milano 1999, pp. 26 e 90-101. Si veda anche L. Bonanate, 2001:
la politica interna del mondo, in "Teoria politica", XVII, 2001, n. 1, pp.
20-21 e il mio Per una sfera pubblica del mondo, ivi, n. 3, pp. 3-21.
2. Pier Ferdinando Casini, La Costituzione non ci obbliga ad essere inermi,
"La Repubblica", 26 ottobre 2002, pp. 1 e 17; Giorgio Napolitano, La guerra
giusta esiste, "l'Unita'", 5 novembre 2002, pp. 1 e 20.
3. Come ha ricordato Lucio Magri, La guerra preventiva, in questa rivista
["La rivista del manifesto"], n. 32, ottobre 2002, p. 3, una commissione
dell'Onu incaricata di accertare il potenziale militare dell'Iraq concluse
che esso era ridotto al dieci per cento rispetto a quello precedente alla
guerra del Golfo.
4. Il caso e' illustrato da A. Di Blase, Guerra preventiva e diritto
internazionale, in corso di stampa, p. 14 del dattiloscritto, ove sono
altresi' ricordate numerose risoluzioni del Consiglio di sicurezza e
pronunce della Corte internazionale di giustizia, che hanno sempre escluso
la legittimita' di azioni di difesa preventiva.
5. Giorgio Napolitano, Le azioni dell'Onu non sono guerra, in "l'Unita'", 9
novembre 2002, pp. 1 e 31.

3. APPELLI. TENDE DI PACE A RAFAH
[Da Stefano Orlando (per contatti: steorlando at hotmail.com) riceviamo e
diffondiamo questa lettera di tre volontari che reca notizia di una
esperienza di interposizione nonviolenta, e propone di proseguirla ed
estenderla. Cogliamo l'occasione per esprimere ancora una volta il nostro
sostegno a tutte le persone, israeliane, palestinesi, volontari
internazionali, che in Israele e in Palestina si stanno impegnando con la
scelta della nonviolenza per la pace, per la vita e per la dignita' umana;
per far cessare tutte le uccisioni e le violenze; per far cessare
l'occupazione dei territori, favorire la nascita dello stato di Palestina e
garantire l'esistenza dello stato di Israele, promuovere la convivenza, la
riconciliazione e e la sicurezza di due popoli e due stati; per sconfiggere
e far cessare definitivamente tutte le stragi e tutti i terrorismi, di
stato, di gruppi criminali, di singoli]
Siamo tre ragazzi italiani che stanno partecipando alla campagna di
interposizione civile nonviolenta dell'International Solidarity Movement (in
sigla: Ism, sito: www.palsolidarity.org) in Palestina dal 15 dicembre 2002
al 15 gennaio 2003.
Ci troviamo a Rafah, nella Striscia di Gaza, dove il governo di Israele sta
facendo costruire un enorme muro per separare la Palestina dall'Egitto
strangolandone cosi' ulteriormente l'economia.
Rafah e' una citta' martire che subisce quoptidianamente l'umiliazione di
questa occupazione che distrugge la vita di tutte le famiglie.
Per evitare il piu' possibile l'irrefrenabile e terrificante distruzione
delle case palestinesi vicine al suddetto muro, nonche' l'uccisione
indiscriminata di civili che vivono in queste zone periferiche, il 3 gennaio
2003 abbiamo dato vita ad una pacifica iniziativa di "camping": abbiamo
installato una tenda nel quartiere denominato Block J, in area che si trova
tra i tanks israeliani che proteggono il muro e le case che sono a rischio
di demolizione.
Vista la buona riuscita di questa prima esperienza (i colpi intimidatori
delle mitragliatrici israeliane sono diminuiti) e la collaborazione degli
abitanti e della societa' civile palestinese, stiamo installando una seconda
tenda in un'altra zona.
Purtroppo siamo troppo pochi (oggi solo 13 attivisti internazionali) per
proteggere tutto il territorio, e corriamo sempre il rischio che le nostre
tende vengano rimosse dai bulldozer israeliani.
Entro fine mese dovremo quasi tutti rientrare nei nostri Paesi e certamente
la nostra assenza lascera' campo libero alle azioni militari indiscriminate
di Israele contro i diritti umani e in violazione del diritto
internazionale.
Pensiamo che sarebbe sicuramente molto utile per la popolazione di Rafah
continuare ad avere un'assidua presenza di volontari internazionali che
piantassero quante piu' tende e' possibile a protezione di tutte le zone a
ridosso del muro.
Proponiamo una vera e propria "invasione di tende" per aiutare i palestinesi
a riappropriarsi della loro terra, delle loro case, della loro vita.
Cio' potrebbe realizzarsi con un continuo alternarsi di volontari in modo da
garantire un costante aiuto e un necessario ricambio di volontari
internazionali.
Stefano, Nicola, Andrea
Rafah, 6 gennaio 2003

4. LETTURE. AUGUSTO CAVADI: ESSERE PROFETI OGGI
Augusto Cavadi, Essere profeti oggi, Edizioni Dehoniane Bologna, Bolgna
1996, pp. 102, lire 12.000. Un intenso e appassionante libro su "la
dimensione profetica dell'esperienza cristiana".

5. LETTURE. AUGUSTO CAVADI: RIPARTIRE DALLE RADICI
Augusto Cavadi, Ripartire dalle radici, Cittadella, Assisi 2000, pp. 136,
euro 9,30. Un libro che muovendo dal confronto tra "naufragio della politica
ed etiche contemporanee" formula nitide e persuasive proposte di riflessione
ed impegno.

6. RILETTURE. MARIA TERESA BIASON: LA MASSIMA O IL "SAPER DIRE"
Maria Teresa Biason, La massima o il "saper dire", Sellerio, Palermo 1990,
pp. 156, lire 18.000. Un'acuta riflessione sulla forma espressiva della
"massima", con un'analisi dettagliata della grande opera di La
Rochefoucauld.

7. RILETTURE. STEFANIA GUERRA LISI: IL METODO DELLA GLOBALITA' DEI LINGUAGGI
Stefania Guerra Lisi, Il metodo della globalita' dei linguaggi, Borla, Roma
1987, 1997, pp. 176 + 16 di appendice fotografica, lire 30.000. Un testo di
notevole utilita' pedagogica  e didattica.

8. RILETTURE. MARIA CHIARA LEVORATO: LE EMOZIONI DELLA LETTURE
Maria Chiara Levorato, Le emozioni della lettura, Il Mulino, Bologna 2000,
pp. 280, euro 16,53. Un utile libro sulla narrazione in quanto atto
psicologico e "la lettura come ricerca del significato ed esperienza emotiva
al tempo stesso".

9. RILETTURE. SIGRID LOOS: NOVANTANOVE GIOCHI COOPERATIVI
Sigrid Loos, Novantanove giochi cooperativi, Edizioni Gruppo Abele, Torino
1989, pp. 130, lire 15.000. Giochi per far crescere il senso di cooperazione
creativa, della nota formatrice alla nonviolenza.

10. RILETTURE. MARIA RITA PARSI: IL MONDO CREATO DAI BAMBINI
Maria Rita Parsi, Il mondo creato dai bambini, Mondadori, Milano 1992, pp.
192, lire 28.000. Sei esempi di creativita' infantile raccontati
dall'autrice de I quaderni delle bambine.

11. RILETTURE. MARA SELVINI PALAZZOLI, STEFANO CIRILLO, MATTEO SELVINI, ANNA
MARIA SORRENTINO: I GIOCHI PSICOTICI NELLA FAMIGLIA
Mara Selvini Palazzoli, Stefano Cirillo, Matteo Selvini, Anna Maria
Sorrentino, I giochi psicotici nella famiglia, Raffaello Cortina Editore,
Milano 1988, 1997, pp. XXI + 298, lire 48.000. Un notevole libro
dell'indimenticabile studiosa e terapeuta e dei suoi collaboratori.

12. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

13. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per
contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it

Numero 469 del 7 gennaio 2003