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La nonviolenza e' in cammino. 469
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 469
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Mon, 6 Jan 2003 23:16:02 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 469 del 7 gennaio 2003 Sommario di questo numero: 1. Maria G. Di Rienzo: equita' di genere e costruzione della pace, una scheda operativa 2. Luigi Ferrajoli, perche' l'Onu non puo' promuovere ne' autorizzare la guerra all'Iraq 3. Tende di pace a Rafah 4. Letture: Augusto Cavadi, Essere profeti oggi 5. Letture: Augusto Cavadi, Ripartire dalle radici 6. Riletture: Maria Teresa Biason, La massima o il "saper dire" 7. Riletture: Stefania Guerra Lisi, Il metodo della globalita' dei linguaggi 8. Riletture: Maria Chiara Levorato, Le emozioni della lettura 9. Riletture: Sigrid Loos, Novantanove giochi cooperativi 10. Riletture: Maria Rita Parsi, Il mondo creato dai bambini 11. Riletture: Mara Selvini Palazzoli, Stefano Cirillo, Matteo Selvini, Anna Maria Sorrentino, I giochi psicotici nella famiglia 12. La "Carta" del Movimento Nonviolento 13. Per saperne di piu' 1. EDITORIALE. MARIA G. DI RIENZO: EQUITA' DI GENERE E COSTRUZIONE DELLA PACE, UNA SCHEDA OPERATIVA [Ringraziamo Maria G. Di Rienzo (per contatti: dirienzo at tvol.it) per averci messo a disposizione questo suo utilissimo testo. Maria G. Di Rienzo e' una prestigiosa intellettuale femminista, saggista, giornalista, regista teatrale e commediografa, ha svolto rilevanti ricerche storiche sulle donne italiane per conto del Dipartimento di Storia Economica dell'Universita' di Sidney (Australia); e' impegnata nel movimento delle donne, nella Rete di Lilliput, in esperienze di solidarieta' e in difesa dei diritti umani, per la pace e la nonviolenza] Questo documento intende fornire suggerimenti alle persone e ai gruppi che lavorano nel campo della gestione dei conflitti (che include la prevenzione, il contenimento, la risoluzione, la riconciliazione e la ricostruzione). E' un tentativo di trarre spunti pratici e operativi dalla crescente comprensione della stretta correlazione fra le l'equita' di genere, il conflitto, e la costruzione della pace. * Retroscena Equita' di genere, o eguaglianza di opportunita' fra i generi: e' un concetto che e' stato adottato a livello internazionale come uno scopo vitale per lo sviluppo della cooperazione e la costruzione di pace. Genere e ruoli di genere: il genere si riferisce alla costruzione di ruoli sociali per donne ed uomini, ed alle responsabilita' ascritte a tali ruoli. Esso include le aspettative sociali rispetto al comportamento ed alle attitudini di donne ed uomini. Ruoli ed aspettative sono frutto dell'apprendimento, assai mutevoli rispetto alle epoche storiche e variabili anche all'interno di una stessa cultura. L'equita' di genere richiede un eguale godimento per donne ed uomini di beni valutati socialmente, di opportunita', di risorse e di ricompense. Eguaglianza di opportunita' non significa che donne ed uomini diventano la stessa cosa, ma che si offrono ad entrambi eguali possibilita' di compiere delle scelte di vita. Raggiungere un'equita' di genere richiede cambiamenti nelle pratiche istituzionali e nelle relazioni sociali, attraverso le quali le discriminazioni vengono sostenute e rinforzate. Mainstreaming: e' la volontà di inserire l'agenda di genere in ogni processo, tavolo, istituzione, al fine di ottenere lo scopo dell'equita'. Nei processi di costruzione di pace, il mainstreaming concerne sicuramente l'aumentare la partecipazione delle donne, ma va oltre, cercando di promuovere relazioni eque in campo politico, economico e sociale, e riconoscendo il differente impatto della presenza e dell'intervento delle donne e degli uomini. Nell'ottobre 2000, il Consiglio di Sicurezza dell'Onu emano' una risoluzione (la 1325) in cui si riconosceva che per mantenere e promuovere pace e sicurezza c'e' la necessita' di una eguale partecipazione delle donne nei processi decisionali, e si richiedeva l'adozione di una prospettiva di genere. Sebbene questo abbia suscitato azioni positive in diverse ong, l'attenzione al genere appare ancora essere ai margini dei processi di costruzione di pace. Iniziative su iniziative vengono implementate senza prestare attenzione a come i bisogni e le priorita' differiscano a seconda che si sia uomini o donne, ragazzi o ragazze. * Perche' e' importante l'agenda di genere nelle iniziative di costruzione della pace Il genere e' una dimensione rilevante nella costruzione di pace. Il conflitto e' un'attivita' segnata dai generi. Vi e' in esso una divisione netta del tipo di compiti, e donne ed uomini hanno differente accesso alle risorse (inclusi i processi decisionali), oltre a sperimentare il conflitto in modo diverso (come mise in luce la Piattaforma d'Azione della Quarta Conferenza Mondiale sulle Donne, Pechino 1995). Percio', cogliere la dimensione di genere di una situazione e' un requisito necessario per comprendere l'intera situazione. * Istanze di genere in una situazione di conflitto Fattori quali il genere, la religione, l'eta', la classe, l'etnia, l'orientamento sessuale possono presentarsi in maniera diversa a seconda del tipo di conflitto e necessitano sempre di un'analisi specifica, legata alla situazione particolare in cui si danno. Di seguito ci si limita percio' a sottolineare i dati piu' comuni. Elementi di situazioni di conflitto e possibili dimensioni di genere: a) Situazioni di pre-conflitto: 1) Incremento nella mobilitazione di soldati (richiamo alle armi). Agenda di genere: Incremento del commercio sessuale (inclusa la prostituzione infantile) attorno alle basi militari e ai campi degli eserciti. 2) Propaganda nazionalista usata per incrementare il supporto all'azione militare. Agenda di genere: Promozione di stereotipi di genere e di definizioni ristrette della "mascolinita'" e della "femminilita'". Crescente pressione sugli uomini affinche' "difendano la nazione". 3) Mobilitazione di attivisti ed organizzazioni pacifiste. Agenda di genere: Le donne sono generalmente le piu' attive nei movimenti per la pace, sia in gruppi misti che in organizzazioni femminili. Spesso le donne richiedono autorevolezza morale sul tema in quanto madri: in alcune situazioni, quando nessun altro tipo di protesta viene permesso, il dimostrare delle madri e' l'unica possibilita'. 4) Aumento delle violazioni dei diritti umani. Agenda di genere: I diritti delle donne non vengono riconosciuti come diritti umani. La violenza di genere puo' aumentare. b) Durante le situazioni di conflitto: 1) Traumi psicologici, violenza fisica, morte. Agenda di genere: Gli uomini tendono primariamente ad essere soldati/combattenti (in svariati conflitti c'e' comunque un numero rilevante di donne combattenti) ed a soffrire dei traumi relativi. Durante i conflitti armati le donne e le ragazze sono spesso vittime di violenza sessuale (stupro, mutilazioni sessuali, umiliazioni, prostituzione forzata e gravidanza forzata). 2) Le reti sociali vengono distrutte. Agenda di genere: Le relazioni fra i generi sono soggette a stress e a cambiamenti. La tradizionale divisione del lavoro all'interno delle famiglie e' sotto pressione: le tecniche di sopravvivenza necessitano spesso cambiamenti nella divisione sociosessuata del lavoro. Le donne possono divenire responsabili di un maggior numero di persone che dipendono da loro. 3) Coinvolgimento della popolazione nel conflitto. Le usuali pratiche di vita e di lavoro vengono distrutte. Agenda di genere: La ripartizione dei compiti nei posti di lavoro puo' cambiare. Le donne possono assumere occupazioni e responsabilita' tradizionalmente considerate "maschili". 4) Razionamento di beni e servizi primari (cibo, assistenza sanitaria, acqua, combustibile). Agenda di genere: Aumenta il carico di lavoro delle donne (e delle ragazze) quali "provveditrici" dei bisogni giornalieri della famiglia. Gli uomini non combattenti fanno esperienza dello stress relativo alle difficolta' di "mantenere" le loro famiglie. 5) Creazione di rifugiati e profughi. Agenda di genere: Le risposte delle persone ad una situazione d'emergenza sono influenzate dall'appartenere ad uno dei due generi. Uomini e donne rifugiati/e e profughi/e hanno sovente differenti bisogni e differenti priorita'. 6) Negoziazioni di pace. Agenda di genere: Le donne sono quasi sempre escluse dai dialoghi ufficiali, anche a causa del loro scarso accesso pre-conflitto alle organizzazioni ed istituzioni che presiedono il processo decisionale. c) Durante la ricostruzione e la riabilitazione 1) Negoziazioni politiche e pianificazione per implementare gli accordi di pace. Agenda di genere: La partecipazione delle donne e degli uomini a questi processi tende a variare, con le donne che giocano ruoli minori nella formazione ufficiale delle politiche negoziate. 2) I media comunicano messaggi relativi agli accordi. Agenda di genere: L'ineguale accesso delle donne ai media significa che i loro interessi, i loro bisogni e le loro prospettive non vengono rappresentati ne' discussi. 3) Uso di osservatori internazionali, peacekeepers, "caschi blu" dell'Onu. Agenda di genere: Il personale suddetto, generalmente, non ha una preparazione sulle istanze di genere (i diritti delle donne come diritti umani, come riconoscere la violenza di genere). Donne e ragazze sono state sovente molestate e assalite sessualmente proprio dai "peacekeepers". 4) Elezioni di un nuovo governo. Agenda di genere: Le donne fronteggiano specifici ostacoli nell'esercitare il diritto di voto o il diritto ad essere elette, e nell'avere istanze di genere discusse come istanze elettorali. 5) Investimenti internazionali per la creazione di posti di lavoro, assistenza sanitaria, ecc. Agenda di genere: I programmi di ricostruzione possono non riconoscere o non conferire priorita' ai bisogni sanitari di donne e ragazze, alla necessita' di istruzione e di credito finanziario delle stesse. 6) Smobilitazione dei combattenti. Agenda di genere: Priorita' conferita agli ex soldati (assunti come corpo totalmente maschile), con garanzie di benefici rispetto all'assegnazione di terre o di finanziamenti a cui le donne non accedono 7) Azioni per incrementare la capacita' e la fiducia in una societa' civile. Agenda di genere: La partecipazione delle donne all'organizzazione delle loro comunita' e alle ong e' generalmente sottostimata o non vista. Le ong, da parte loro, spesso mancano dell'abilita' o dell'interesse nel dare priorita' alle istanze di genere. * Cosa fare? a) Tutte le iniziative relative ai processi di costruzione della pace dovrebbero: - Incorporare un'analisi di genere della situazione. - Incoraggiare la partecipazione delle donne nei processi decisionali relativi alla risoluzione dei conflitti. - Promuovere le donne come attrici e protagoniste (anziche' come "gruppo vulnerabile"). b) C'e' la necessita' di iniziative specifiche, dirette ad aumentare la capacita' delle organizzazioni nel maneggiare le differenze di genere e nel ridurre le ineguaglianze e le discriminazioni. Cio' puo' includere iniziative dirette specificatamente alle donne (seminari di formazione) e agli uomini (sensibilizzazione e analisi delle connessioni fra le diverse mascolinita' e la violenza). * L'analisi di genere nelle inziative di costruzione della pace Di seguito si riportano alcune domande a cui bisognerebbe rispondere quando si organizzano iniziative: non in maniera "meccanica", poiche' esse sono intese a suscitare riflessione ed azione sul come incorporare la prospettiva dell'equita' di genere nelle iniziative stesse. Domande chiave (e perche' rispondervi): 1) Come e perche' l'equita' di genere e' importante per i risultati e l'impatto dell'iniziativa? Troppo spesso le istanze relative all'equita' di genere sono considerate "aggiuntive", marginali, un sotto schema. In molti programmi si tiene conto piu' del numero di donne che partecipano all'iniziativa, piuttosto che considerare l'impatto generale delle discriminazioni dovute al genere. 2) C'e' stata un'analisi di come le donne posso contribuire alla costruzione di pace in questa situazione e di come l'iniziativa puo' contribuire all'equita' di genere? Per esempio: un programma di ricostruzione economica dovrebbe guardare a come le donne partecipano al programma nel suo insieme, piuttosto che mettere da parte una somma marginale di finanziamenti per i progetti delle donne. 3) E' stato effettuato il contatto con le organizzazioni pacifiste locali, in special modo quelle che coinvolgono le donne? E' importante costruire sul locale, con chi e' "esperto/a" del luogo. 4) C'e' una comprensione chiara delle differenti maniere in cui le persone fanno esperienza di un conflitto? Lo sbilanciamento fra uomini e donne nell'accesso al 'potere', alla conoscenza, alle risorse, si riflette in numerosi aspetti. 5) C'e' una comprensione chiara dei differenti bisogni, interessi e priorita' dei ragazzi e delle ragazze? E' importante non assumere che tutti i minori condividano gli stessi bisogni ed interessi. Capire che ragazzi e ragazze vivono situazioni differenti deve far parte dell'analisi generale. 6) L'analisi ha incluso considerazioni sulla divisione sociosessuata del lavoro, sul differente accesso e controllo rispetto alle risorse? Ha calcolato il lavoro domestico? Le dichiarazione di principio sul muoversi verso l'equita' di genere abbondano: e' rarissimo invece che l'analisi di genere diventi routine nella preparazione di un progetto, sebbene sia un'informazione cruciale per comprendere ogni specifica situazione. 7) C'e' una comprensione chiara della violenza di genere e della violazione dei diritti umani delle donne? La violenza di genere e la scarsita' di rispetto per i diritti delle donne sono spesso citate come priorita' a cui rispondere nei processi di costruzione della pace, tuttavia molte organizzazioni mancano di formazione appropriata e non sono grado di rispondere efficacemente. 8) Le donne hanno partecipato in modo significativo nella fase di progettazione dell'iniziativa? I promotori della stessa hanno dimostrato la capacita' e la volonta' di coinvolgere le donne? Le metodologie partecipative non assicurano automaticamente che le voci delle donne vengano ascoltate, e che le loro prospettive vengano rappresentate nel progetto. E' importante capire che ostacoli le donne fronteggiano e ridurlo al minimo. 9) Le donne sono percepite come attrici e protagoniste, piuttosto che primariamente come vittime? Le organizzazioni di cooperazione allo sviluppo si sono spesso concentrate sulle donne come vittime, piuttosto che rafforzare e sostenere la loro capacita' di sopravvivere, di agire, di articolare visioni alternative e di ricostruire. * Indicatori di successo nell'aver lavorato per l'equita' di genere - La sicurezza degli esseri umani e' migliorata (l'iniziativa ha saputo distinguere fra la sicurezza delle donne e quella degli uomini, quella dei ragazzi e quella delle ragazze, e il risultato e' che la sicurezza di ognuna/o e' aumentata). - E' aumentata la capacita' di "leader" locali nell'assumersi responsabilita' per la pace (i/le leader sono uomini e donne; hanno la capacita' di riconoscere i bisogni e i contributi di uomini e donne). - La societa' civile si e' rafforzata (le donne sono partecipanti attive nelle organizzazioni della societa' civile; tali organizzazioni rappresentano le istanze dei loro membri maschi e femmine; gruppi per l'equita' di genere sono attivi nell'implementare agende politiche). - Aumentata fiducia nella capacita' di funzionare del sistema politico e legale (i diritti delle donne sono garantiti per legge; uomini e donne hanno fiducia nella democrazia dei sistemi; la partecipazione delle donne alla politica e' aumentata). - La societa' e' de-militarizzata e le economie di guerre vengono convertite (donne ed uomini beneficiano di iniziative economiche). 2. RIFLESSIONE. LUIGI FERRAJOLI: PERCHE' L'ONU NON PUO' PROMUOVERE NE' AUTORIZZARE LA GUERRA ALL'IRAQ [Questo articolo abbiamo estratto da "La rivista del Manifesto", n. 34 del dicembre 2002 (in rete: www.larivistadelmanifesto.it). Luigi Ferrajoli, illustre giurista, nato a Firenze nel 1940, gia' magistrato tra il 1967 e il 1975, dal 1970 e' docente universitario. Opere di Luigi Ferrajoli: tra i lavori piu' recenti segnaliamo particolarmente la monumentale monografia Diritto e ragione, Laterza, Roma-Bari 1989, giunta alla terza edizione; il saggio La sovranità nel mondo moderno, Laterza, Roma-Bari 1997; e La cultura giuridica nell'Italia del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1999] 1. Un decennio di guerre Il passato decennio fu dichiarato nel 1990, dall'Assemblea generale dell'Onu, "decennio del diritto internazionale": avrebbe dovuto essere, dopo la fine della guerra fredda, il decennio del consolidamento della pace e delle istituzioni internazionali. Finita la divisione del mondo in blocchi, cessato l'incubo della guerra nucleare, venuto meno ogni pericolo di aggressione da parte di potenze nemiche, sembrava che nulla si opponesse a un futuro di pace e a una rifondazione delle relazioni internazionali, basata su quella che Juergen Habermas ha chiamato "una politica interna del mondo" (1) all'altezza dei grandi problemi del pianeta: il disarmo progressivo e una graduale cessazione della produzione di armi; la riduzione delle enormi disuguaglianze, responsabili ogni anno della morte per fame e malattie di milioni di esseri umani; una politica di sviluppo sostenibile della ricchezza e dell'economia, idonea a salvaguardare l'ambiente per le generazioni future. E' in questa prospettiva, del resto, che si erano orientate le Conferenze di Vienna e di Parigi sulla riduzione degli armamenti convenzionali, sull'eliminazione delle armi nucleari e di quelle chimiche e batteriologiche, sulla riforma della Nato e del vecchio Patto di Varsavia. * E' invece accaduto esattamente il contrario. Nel nuovo mondo unipolare, improvvisamente privato del Nemico e impegnato soltanto a celebrare i trionfi del libero mercato, si sono ignorati, e sono stati anzi aggravati, tutti i grandi problemi del pianeta. Si e' cosi' approfondito il divario tra paesi ricchi e paesi poveri, si e' lasciato libero corso alle devastazioni dell'ambiente, si sono chiuse ermeticamente le nostre frontiere a masse crescenti di affamati, senza minimamente curarsi dell'odio e della rivolta, che frattanto montavano contro l'Occidente, e delle minacce alla pace e alla sicurezza generate dalla nostra miopia. Infine, si e' supplito a questa imprevidenza irresponsabile e a questa totale incapacita' di governo con la politica delle armi. Sono state installate basi militari in tutti gli angoli del pianeta. E' stata rifondata e rafforzata la Nato ed e' stato escluso, nel documento del 24 aprile 1999, ogni limite ai suoi poteri di intervento. Negli ultimi anni, con la presidenza Bush, hanno ripreso a crescere le spese militari, soprattutto americane. E' cosi' che abbiamo avuto, anziche' il decennio del diritto internazionale, il decennio delle guerre: la guerra del Golfo del 1991, la guerra nel Kosovo del 1999, la guerra in Afghanistan dell'anno scorso, infine, la guerra annunciata che incombe contro l'Iraq. Al tempo stesso si e' sviluppato, nel senso comune, un processo di normalizzazione della guerra quale strumento di soluzione dei problemi e dei conflitti internazionali. Nell'opinione pubblica occidentale sono state ormai tranquillamente avallate come legittime le tre guerre passate, quelle nel Golfo, in Kosovo e in Afghanistan. Una parte non irrilevante dell'opinione pubblica europea e la maggioranza, temo, dell'opinione pubblica americana ritengono oggi perfettamente legittima una guerra preventiva degli Stati Uniti contro l'Iraq, anche senza una specifica autorizzazione del Consiglio di sicurezza. La Carta dell'Onu, secondo costoro, e' stata definitivamente archiviata. La schiacciante maggioranza, per cosi' dire moderata, delle forze politiche - in Italia, dall'intero centro-destra alla maggioranza dell'Ulivo - ritengono infine legittima una guerra contro l'Iraq autorizzata dal Consiglio di sicurezza dell'Onu, confondendo l'Onu, ossia l'ordinamento internazionale istituito dalla Carta dell'Onu, con qualunque cosa il Consiglio decida, anche in contrasto con le norme in essa stabilite. * L'espressione "pacifismo" o "pacifismo assoluto" e' diventata frattanto poco meno che un insulto: equiparata nel migliore dei casi ad "anti-americanismo" pregiudiziale e, nel peggiore, a fuga dalla realta' e a ideologismo irresponsabile. Al contrario, l'adesione della sinistra alla guerra, quanto meno nel caso di un'autorizzazione del Consiglio di sicurezza dell'Onu, viene presentata, dalla maggior parte dei commentatori, come un segno di "responsabilita'", di "maturita' politica" e di "affidabilita'" come forza di governo. * 2. L'Onu e la guerra E' questo senso comune, alimentato da luoghi comuni e da una totale noncuranza per quanto e' disposto dalla Carta dell'Onu, che dobbiamo analizzare. Di solito esso non si fa carico di un'argomentazione razionale, ne' tanto meno giuridica a sostegno della guerra. Sono percio' preziosi gli interventi che a tal fine, anziche' limitarsi alle contumelie nei confronti dei pacifisti, enunciano argomenti giuridici e razionali. Non parlo, ovviamente, delle posizioni dei falchi, favorevoli a schierarsi con gli Stati Uniti senza riserve ne' condizioni, ne' tantomeno scrupoli di carattere giuridico. Parlo della posizione di coloro che giudicano la guerra giuridicamente legittima, e l'adesione dell'Italia doverosa, se essa avvenisse con l'avallo dell'Onu, e precisamente del Consiglio di sicurezza. E' quanto hanno sostenuto il presidente della Camera Pier Ferdinando Casini sulla "Repubblica" del 26 ottobre 2002 e poi Giorgio Napolitano su "l'Unia'" del 5 novembre 2002 (2), in risposta entrambi al severo e ripetuto richiamo di Pietro Ingrao al rispetto dell'articolo 11 della nostra Costituzione. L'argomentazione giuridica a sostegno di questa tesi e' molto semplice. Primo: l'art. 11 della nostra Costituzione non contiene soltanto il ripudio della guerra, ma anche "le limitazioni di sovranita' necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni". Secondo: l'ordinamento istituito dalla Carta dell'Onu prevede, nell'art. 42 del suo capitolo VII, che il Consiglio di sicurezza, ove accerti "una minaccia alla pace" e l'inadeguatezza delle misure "non implicanti l'impiego della forza armata", possa "intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale". Conclusione: l'intervento armato in Iraq sara' pienamente lecito e l'Italia non potra' non aderire, ove ottenga, scrive Napolitano, "il sigillo di un voto del Consiglio di sicurezza dell'Onu che la legittima come decisione non di guerra, ma, all'opposto, come decisione per la pace, per il suo mantenimento o ristabilimento". "La copertura dell'Onu - scrive a sua volta Casini - rende senz'altro legittime azioni militari dell'Italia". Perche' questa argomentazione e' tanto suggestiva e semplicistica quanto sommaria e fallace? Perche' elude pressoche' tutte le questioni che sono poste dalla Carta dell'Onu in materia di uso legittimo della forza. * Segnalera' qui quattro questioni, alcune delle quali vengono spesso tra loro confuse nel dibattito politico e che occorre invece distinguere analiticamente. La prima questione e' se il terrorismo internazionale giustifichi la guerra. Questa domanda puo' essere a sua volta scomposta in altre due. La prima e' del tutto indipendente dal diritto: la guerra e' uno strumento idoneo a battere il terrorismo? La seconda e' piu' propriamente giuridica: e' sufficiente che il terrorismo sia riconosciuto come una minaccia alla pace perche' possa legittimare una guerra? La seconda questione riguarda il rapporto, che di solito si da' per scontato, tra la lotta al terrorismo internazionale e la minaccia di una guerra contro l'Iraq. Anche questa questione puo' essere scomposta in due domande. Innanzitutto, con quali argomenti si giustifica la guerra contro l'Iraq? Perche' l'Iraq appoggia il terrorismo, oppure perche' e' dotato o si sta dotando di armi di distruzione di massa? In secondo luogo: ammesso che questi presupposti siano provati, e' legittimo in base ad essi una guerra preventiva? La terza questione riguarda la natura dell'intervento armato che puo' essere autorizzato dal Consiglio di sicurezza. Ammesso che nella condotta irachena ricorrano i presupposti per un uso della forza da parte dell'Onu, un simile uso della forza puo' consistere in una guerra? In altre parole: esiste una differenza, e in che cosa consiste, tra uso legittimo della forza da parte dell'Onu e guerra? La quarta questione, infine, riguarda il senso del nostro "stare con l'Onu", e percio' la natura delle scelte che saremo chiamati a operare nell'ipotesi che, con o senza l'autorizzazione del Consiglio di sicurezza, si arrivi a una guerra. * 3. Guerra e terrorismo Cominciamo dalla prima questione. E' vero o no che il terrorismo e' una minaccia alla pace? si chiedono Casini e Napolitano, richiamando subito dopo il nesso che lega la seconda parte del nostro articolo 11 e la previsione, nella Carta dell'Onu, di interventi armati contro minacce alla pace. Certamente si': il terrorismo e' una minaccia alla pace. Ma una tale minaccia, dobbiamo aggiungere, se e' una condizione necessaria, non e' certo una condizione sufficiente a giustificare la guerra. La questione si era gia' posta l'anno scorso, in occasione della guerra in Afghanistan. Dicemmo allora che nei confronti di un'organizzazione terroristica ramificata in decine di paesi la guerra - a parte qualunque considerazione di principio, morale o giuridica - e' uno strumento del tutto inadeguato: idoneo a uccidere migliaia di vittime innocenti ma non certo a sgominare, ma semmai ad alimentare, il terrorismo. I fatti ci hanno dato ragione, ed e' incredibile che questo non sia riconosciuto da nessuno di quanti allora sostennero la guerra con il fine di debellare il terrorismo. Certamente, la guerra contro l'Afghanistan e' stata vinta e l'orribile regime dei talebani e' stato abbattuto. Ma non era questo lo scopo della guerra, ne' poteva legittimamente esserlo. Rispetto al suo scopo, che era la sconfitta del terrorismo, la guerra e' fallita: migliaia di civili innocenti sono stati uccisi, ma Osama bin Laden e il mullah Omar sono sopravvissuti. In ogni caso il terrorismo non e' stato affatto, da quella guerra, debellato: tanto e' vero che lo si continua a invocare come giustificazione di una nuova guerra. A cosa e' servita allora la guerra dell'anno scorso? E come possiamo pensare che una nuova guerra riuscirebbe a raggiungere l'obiettivo fallito dalla prima? Oppure, visto che si sa che il terrorismo di Al Qaeda e' presente in decine di paesi, dobbiamo rassegnarci alla terribile prospettiva di una guerra planetaria infinita, con milioni di morti? E chi ci assicura, poi, che una guerra infinita riuscirebbe a debellare le organizzazioni terroristiche, e non avrebbe invece l'effetto di assecondarle, alimentarle, moltiplicarle in una spirale senza fine? La verita' e' che il fallimento della guerra e' dovuto alla sua totale incongruenza rispetto ai fini dichiarati. E questa incongruenza del mezzo della guerra rispetto al fine e' gia' di per se' un sintomo della sua illiceita' giuridica, cioe' del suo contrasto con la razionalita' strumentale storicamente sedimentatasi nelle forme e nei principi fondamentali del diritto. Giacche' il terrorismo non e' equiparabile alla guerra, la quale e' solo tra Stati ("publicorum armorum contentio", la defini' Alberico Gentili), bensi' un fenomeno criminale, che va affrontato non con la guerra ma con la scoperta e la punizione dei colpevoli, non con gli eserciti ma con la polizia, non con le bombe ma con il difficile accertamento delle responsabilita'. E richiede percio' mezzi diversi dagli inutili e spettacolari bombardamenti dal cielo: il coordinamento internazionale delle polizie dei vari paesi, le capacita' investigative occorrenti a identificare e a neutralizzare la rete complessa delle organizzazioni clandestine e delle loro complicita', l'isolamento politico dei gruppi armati e, ovviamente, quell'impiego della forza necessario a disarmarli e a catturarli. Richiede, soprattutto, l'asimmetria tra crimine e pena istituita dal diritto, la cui efficacia e la cui forza simbolica risiedono precisamente nel suo interporsi nel ciclo altrimenti inarrestabile della violenza terroristica, della vendetta e della guerra, configurandosi nelle forme, rispetto a queste asimmetriche e alternative, della sanzione e della giurisdizione penale. La guerra, al contrario, puo' soddisfare il desiderio di vendetta, puo' magari far vincere le elezioni, puo' servire a esorcizzare le paure, o anche a mettere le mani sul petrolio o a sperimentare nuove armi e ad esibire potenza e ruolo imperiale. Ma e' del tutto controproducente come mezzo di difesa nei confronti dei terroristi. Per questo essa e' tutto fuorche' quella misura coercitiva non diciamo "necessaria", ma anche solo "adeguata", che e' richiesta dall'art. 42 della Carta dell'Onu "per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale". * 4. Terrorismo internazionale e questione irachena Veniamo quindi alla seconda questione. Che rapporto c'e' tra la lotta al terrorismo e l'attacco all'Iraq? Il presidente Bush e i suoi sostenitori hanno avuto l'abilita' di mescolare la questione del terrorismo internazionale con quella dell'Iraq come se fossero la stessa, identica cosa. Sono cosi' riusciti a mobilitare le paure dei cittadini americani a sostegno della guerra, quale che sia e pur che sia. Ora, ammesso - pur se non concesso ed anzi, come ho appena detto, escluso - che il terrorismo giustifichi la guerra, come si puo' usare un tale argomento per scatenare una guerra contro l'Iraq senza che ci siano prove che questo paese sia collegato al terrorismo di Al Qaeda, piu' di quanto non lo siano l'Arabia Saudita o decine di altri paesi tra i sessanta indicati dai servizi segreti americani come luoghi nei quali e' ramificata la rete terroristica? Certamente, Saddam Hussein e' un orrendo dittatore, la cui cacciata sarebbe benefica per il popolo iracheno. Ma non puo' essere questa, sulla base della Carta dell'Onu e perfino del diritto internazionale del vecchio modello Westfalia, una giustificazione della guerra. * Resta l'ipotesi, pur giudicata improbabile dai precedenti ispettori (3), che Saddam Hussein disponga di armi di distruzione di massa: ipotesi che il Consiglio di sicurezza, con la sua risoluzione 1441 dell'8 novembre 2002, ha dato incarico di accertare, nella maniera piu' approfondita, a una nuova commissione di ispettori. La domanda che dobbiamo porci e' se sia legittima un'autorizzazione del Consiglio di sicurezza dell'Onu a una guerra preventiva, qualora l'esito delle ispezioni fosse giudicato insoddisfacente. Ora e' ben vero che l'esistenza di simili armi - da chiunque detenute e soprattutto se in possesso di un dittatore irresponsabile - rappresenta una minaccia alla pace, e sarebbe opportuno e lungimirante procedere a una loro distruzione generalizzata. E tuttavia questa minaccia non e' certo sufficiente a legittimare l'autorizzazione di una guerra preventiva. Sia il Consiglio di sicurezza che la Corte internazionale di giustizia hanno piu' volte non soltanto escluso, ma condannato non diciamo la guerra ma perfino singole azioni militari intraprese contro l'astratto pericolo di un'aggressione da parte di Stati sospettati di essere in possesso di armi di distruzione di massa. C'e' perfino un precedente che riguarda l'Iraq di Saddam Hussein: il 19 giugno 1981 il Consiglio di sicurezza adotto', con il voto anche degli Usa, una risoluzione di condanna dell'attacco israeliano al reattore atomico Osiraq, vicino a Bagdad, respingendo la tesi di Israele secondo cui l'azione era stata giustificata dalla "necessita' di difendersi dalla costruzione di una bomba atomica in Iraq" (4). Il possesso di armi di distruzione di massa non sarebbe dunque sufficiente a giustificare una guerra preventiva, neppure se autorizzata dal Consiglio di sicurezza. Armi di distruzione di massa sono detenute da decine di paesi, molti dei quali governati da dittatori. D'altro canto, l'ipotesi di una guerra di difesa preventiva, cioe' finalizzata a prevenire l'impiego di tali armi in un possibile attacco dell'Iraq all'Occidente, e' del tutto assurda, essendo tale attacco inverosimile; il solo pericolo semmai, qualora Saddam possedesse simili armi, sarebbe che ne facesse uso proprio se provocato dalla cosiddetta guerra "preventiva". * Ma e' l'idea stessa di una guerra preventiva o di un diritto di difesa preventiva che e' radicalmente esclusa dalla Carta dell'Onu: il cui articolo 51 prevede soltanto, come presupposto del "diritto naturale di autotutela", "che abbia luogo un attacco armato". * 5. Guerra e uso legittimo della forza Vengo ora alla terza questione enunciata all'inizio. Ammesso - e di nuovo non concesso, ed anzi nuovamente escluso - che esistano i presupposti per un intervento armato contro l'Iraq sotto l'egida dell'Onu, potrebbe esso avere, come purtroppo hanno avuto i tre interventi dello scorso decennio (contro l'Iraq, la Serbia e l'Afghanistan), la natura della guerra, con bombardamenti aerei, migliaia di vittime civili, devastazioni dell'ambiente e delle strutture produttive dei paesi aggrediti? La risposta, ovviamente, e' no. Ma non nel senso che si debba semplicemente non chiamare guerra, come sembra proporre Napolitano, ma "azione coercitiva internazionale" o "intervento di polizia internazionale" quella medesima cosa che ha tutti i caratteri della guerra, che e' stata sperimentata nelle tre guerre degli scorsi anni e che ci si appresta a ripetere, con enorme spiegamento di forze, nei confronti dell'Iraq. Questo e' un gioco di parole, una truffa delle etichette gia' perpetrata nel corso della guerra in Afghanistan, rispetto alla quale e' senz'altro preferibile la schiettezza di quanti chiamano la medesima cosa con il suo nome: "guerra", appunto. Preferibile, se non altro, perche' la truffa delle etichette, oltre alla degradazione dei nemici a criminali, ha avuto l'effetto ulteriore di consentire la non applicazione ai nemici-criminali-terroristi del diritto umanitario di guerra: si pensi solo alle gabbie di Guantanamo, nelle quali, in violazione delle convenzioni di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra, sono stati internati, con inammissibili vessazioni e mortificazioni, i talebani catturati. Evidentemente, l'uso legittimo della forza previsto dagli articoli 42-48 della Carta dell'Onu per "mantenere la pace" non puo' che essere una cosa ontologicamente diversa dalla guerra. Diciamo dunque che esso non puo' essere una guerra, e non semplicemente, come scrive Napolitano in un secondo intervento apparso su "l'Unita'" del 9 novembre 2002 (5), che "non puo' essere chiamato guerra" "per la contraddizione che non lo consente", come Napolitano aggiunge: ma nel senso che cio' che e' in contraddizione con il fine del mantenimento della pace e' che si faccia la guerra, e non che si chiami "guerra" cio' che appunto e' una guerra. Su questo, spero che Napolitano concordera', non ci possono essere dubbi. Altrimenti avremmo - di fatto, pur se mascherato dalle parole - il paradosso ("la contraddizione che non lo consente") che per sventare una minaccia alla pace si fa la guerra: che la pace puo' essere mantenuta con la guerra. * Certo, puo' sembrare difficile identificare la differenza tra la guerra e l'"azione coercitiva internazionale" che, secondo l'articolo 42 della Carta, puo' essere intrapresa con "forze aeree, navali o terrestri"; tanto piu' che una simile azione presupporrebbe l'attuazione, finora mancata, dell'intero capitolo VII, a cominciare dall'istituzione del Comitato di stato maggiore, investito dall'articolo 47 della "responsabilita' della direzione strategica" dell'intervento "alle dipendenze del Consiglio di sicurezza". Ma la differenza tra le due cose resta chiarissima, sia nella sostanza che nelle forme. Innanzitutto l'impiego della forza previsto dalla Carta dell'Onu non puo' essere diretto a debellare il nemico, ma solo a neutralizzarlo ove cio' sia necessario per "mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale". Deve trattarsi, in altre parole, di un uso controllato e limitato della forza, che escluda comunque il sacrificio di persone innocenti. In secondo luogo tale uso della forza deve svolgersi costantemente sotto la direzione del Consiglio di sicurezza. La mancata attuazione del capitolo VII della Carta - la cui responsabilita', sia detto per inciso, ricade interamente sulle grandi potenze - non toglie affatto, ma al contrario comporta che il Consiglio non possa delegare interamente la gestione dell'intervento a uno o piu' Stati membri, ma debba al contrario mantenerne costantemente la direzione e il controllo, decidendo i mezzi da impiegare, l'inizio e la fine delle operazioni e tutte le fasi intermedie. "Il Consiglio di sicurezza", dice l'articolo 53 con riferimento all'impiego di forze diverse da quelle previste dal capo VII, quali quelle istituite da accordi o da organizzazioni regionali (per esempio la Nato), "utilizza" tali forze "per azioni coercitive sotto la sua direzione", nessuna delle quali, aggiunge, "potra' venire intrapresa... senza la (sua) autorizzazione". Basterebbe questo a escludere come illegittima una risoluzione dell'Onu che avesse previsto un qualche nesso automatico, come pretendevano gli Stati Uniti, tra la (valutazione della) sua violazione e (non diciamo la guerra ma) l'azione coercitiva internazionale. Ma, soprattutto, basta questo ad escludere come illegittima un'interpretazione della risoluzione 1441 dell'8 novembre, subito avanzata dai falchi statunitensi e fatta propria da esponenti della nostra destra, che vedesse un'implicita autorizzazione all'intervento armato nelle "serie conseguenze" in essa minacciate in caso di sue violazioni da parte dell'Iraq. Simili automatismi sono infatti esclusi inequivocabilmente, oltre che dai gia' menzionati articoli 47 terzo comma e 53 della Carta, dall'articolo 48, secondo il quale "l'azione necessaria per eseguire le decisioni del Consiglio di sicurezza per il mantenimento della pace" deve essere intrapresa "secondo quanto stabilisca il Consiglio di sicurezza" medesimo. Se cosi' non fosse una tale azione scadrebbe, inevitabilmente, nella guerra - la guerra per mantenere la pace! -, come purtroppo e' accaduto nelle precedenti guerre del decennio, a cominciare dalla prima guerra del Golfo. * Insomma, l'appello al diritto formulato dal pacifismo giuridico non equivale affatto alla rinuncia all'uso della forza. Al contrario, il diritto e' precisamente la regolazione della forza: e' la sua limitazione ai soli casi e nella sola misura in cui e' necessaria per minimizzare la violenza; e' il suo monopolio giuridico in capo a un organismo terzo e super partes; e' la garanzia che il suo impiego non colpisca gli innocenti. E', in breve, la negazione della guerra, che e' per sua natura violenza illimitata, sregolata e indiscriminata, cosi' come la guerra e' la negazione del diritto. Ed e', oltretutto, il solo mezzo efficace per fronteggiare il terrorismo e le altre minacce alla pace. * 6. Il futuro del diritto internazionale Infine, la quarta e ultima questione. Giorgio Napolitano raccomanda "fiducia nella capacita' del Consiglio di sicurezza di valutare tutti i rischi, i costi, le implicazioni di un'azione militare e di risolversi ad autorizzarla (almeno 9 Stati membri su 15) solo in caso di estrema, ineludibile necessita'". Dopo quanto si e' detto, dovrebbe essere chiaro che un simile caso "di necessita'" non e' oggi all'ordine del giorno. Il Consiglio di sicurezza, e' opportuno ricordare, non e' un sovrano assoluto. E' sottoposto alla Carta dell'Onu, sulla base della quale mancano oggi i presupposti perfino di quell'azione coercitiva che e' prevista dal suo capitolo VII e che, comunque, non potrebbe mai essere una guerra. Che vuol dire, allora, aver fiducia nell'Onu? Se ci sara' una guerra, i casi saranno due: o sara' un illecito dei soli Stati aggressori, oppure sara' un illecito cui avra' concorso, con il suo avallo, il Consiglio di sicurezza. E in questo secondo caso, ben piu' grave e disastroso per il futuro del diritto internazionale, come potremmo avere fiducia nel Consiglio di sicurezza, che avesse avallato la guerra, ben sapendo che esso e' stato sottoposto dal presidente americano alle pressioni sprezzanti, al limite dell'ultimatum ("non esiteremo ad agire da soli", "stiamo perdendo la pazienza"), che tutti abbiamo letto sui giornali? Ma fortunatamente non siamo ancora a questo punto. Un'esplicita autorizzazione della guerra da parte del Consiglio di sicurezza non c'e' stata ed e' probabile che non ci sara'. E allora, la questione su cui occorre confrontarsi - e sulla quale la sinistra rischia assurdamente di dividersi - non e', genericamente, se dobbiamo o meno uniformarci alle decisioni dell'Onu, ma quali sono il significato e il fondamento di tali decisioni. Le questioni, precisamente, sono due, l'una subordinata all'altra. Prima questione: le "serie conseguenze" di cui parla il punto 13 della risoluzione 1441 alludono a un'implicita, ipotetica e illegittima autorizzazione di un attacco armato in caso di fallimento delle ispezioni, oppure richiedono - in conformita' alla Carta dell'Onu, e come hanno dichiarato i rappresentanti della Francia, della Russia e della Cina in un comunicato del 9 novembre - di essere deliberate con una seconda, apposita risoluzione? In concreto, tutte le varie forze politiche che in Italia dichiarano di schierarsi con l'Onu - Pier Ferdinando Casini e Giorgio Napolitano, per esempio - cosa faranno se gli Stati Uniti, sulla base di un'interpretazione chiaramente illegittima della risoluzione, decideranno di attaccare? Si accoderanno, oppure si opporranno, invocando l'art. 53 della Carta dell'Onu, secondo cui "le azioni coercitive" si svolgono "sotto la direzione" del Consiglio di sicurezza, senza la cui "autorizzazione", deliberata evidentemente da un'esplicita e autonoma risoluzione, "nessuna azione coercitiva potra' venire intrapresa"? Seconda questione, che si spera non si porra' mai: che fare, se ci si schiera con l'Onu, di fronte a una seconda risoluzione del Consiglio di sicurezza che domani, ove si ritenessero fallite le ispezioni, esplicitamente autorizzasse la guerra? Per rispondere a questa domanda dobbiamo intenderci su che cosa vuol dire "schierarsi con l'Onu". Vuol dire stare dalla parte dell'ordinamento dell'Onu, quale risulta dalla sua Carta statutaria, oppure, aprioristicamente, dalla parte del Consiglio di sicurezza, pur se esso autorizzasse una guerra in assenza dei presupposti e delle forme previste dalla Carta? Ovviamente vuol dire schierarsi in difesa dell'ordinamento dell'Onu, anziche' delle sue violazioni. Ma anche questo non e' affatto chiaro nel senso comune che si e' venuto (de-)formando intorno all'Onu, e che sembra accomunare sia i sostenitori che gli oppositori della guerra. "Lei riconosce all'Onu - ha chiesto Bruno Vespa agli invitati in una sua trasmissione - il diritto di decidere la guerra?". E tutti hanno risposto di si', pur dividendosi tra quanti avrebbero accettato e quanti avrebbero rifiutato una simile decisione, senza neppure porsi il problema della sua possibile illegittimita'. * Ritorniamo a questo punto all'articolo 11 della nostra Costituzione. E' ben vero che esso deve essere letto per intero. Ma la sua seconda parte non deroga affatto alla prima, essendo la guerra ripudiata dalla Carta dell'Onu non meno che dalla nostra Carta costituzionale. Del resto le due carte nacquero nella stessa temperie storica e ideale e coincidono in parte perfino sul piano letterale. Le parole"´come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali" del nostro articolo 11 sono infatti riprese dall'articolo 1, primo comma della Carta dell'Onu. E la sola eccezione da entrambe ammessa al divieto della guerra e' la legittima difesa da un'aggressione in atto, prevista dall'art. 51 della Carta dell'Onu e dall'art. 52 della nostra Costituzione. Non solo: l'art. 2, III comma della Carta dell'Onu vieta non soltanto "l'uso", ma anche "la minaccia" dell'uso della forza. * Tutto questo vuol dire che se ci sara' la guerra essa sara', comunque, una violazione della Carta dell'Onu e, per quanto ci riguarda, ove l'Italia aderisse, della nostra Costituzione. Sara', sulla base dell'art. 5, lettera d) dello Statuto della Corte penale internazionale entrato quest'anno in vigore, un "crimine di aggressione". Ma si trattera', ben piu' che di un crimine, di una pesante ipoteca sul futuro del nostro pianeta. Giacche' la lesione del diritto internazionale, piu' ancora di quanto non sia avvenuto con le altre guerre, sarebbe in questo caso a tal punto clamorosa e premeditata, da configurarsi non gia' come un costo ma come un obiettivo, volto evidentemente a rifondare le relazioni internazionali non piu' sull'Onu ma sul dominio militare della superpotenza americana e sulla sovranita' assoluta del suo presidente, nuovamente investito dell'antico, illimitato, diritto di guerra. L'idea di un "nuovo ordine", basato sul modello americano - "liberta', democrazia e libera impresa" - come unico modello legittimo, da imporre se lo si ritiene anche con le armi, e' del resto apertamente espressa nel documento strategico inviato in settembre dal presidente Bush al Congresso degli Stati Uniti. La domanda drammatica cui dovremo allora rispondere riguarda la natura di questo "nuovo ordine". Auspicabile o deprecabile che sia, e' realistica una sua qualche attuazione? E' pensabile che il mondo possa essere governato con la guerra? O non ci attende, su questa strada, oltre a una guerra infinita, un futuro di violenze e di terrorismi, di infinite e sempre piu' terribili minacce alla pace e alla nostra stessa sicurezza? * Note 1. "Con la fine dell'equilibrio del terrore - ha scritto Juergen Habermas - sembra che sul piano della politica internazionale della sicurezza e dei diritti umani si sia dischiusa, nonostante tutti i contraccolpi, una prospettiva per cio' che C. F. von Weizsaecker ha definito 'politica interna del mondo' [Weltinnenpolitik]", Cfr. Die Einbeziehung des Anderen, 1996, traduzione italiana di L. Ceppa, L'inclusione dell'altro. Studi di teoria politica, Feltrinelli, Milano 1998, p. 139. L'espressione e' ripresa in J. Habermas, Die postnationale Konstellation (1998), trad. it. di L. Ceppa, La costellazione post-nazionale. Mercato globale, nazioni e democrazia, Feltrinelli, Milano 1999, pp. 26 e 90-101. Si veda anche L. Bonanate, 2001: la politica interna del mondo, in "Teoria politica", XVII, 2001, n. 1, pp. 20-21 e il mio Per una sfera pubblica del mondo, ivi, n. 3, pp. 3-21. 2. Pier Ferdinando Casini, La Costituzione non ci obbliga ad essere inermi, "La Repubblica", 26 ottobre 2002, pp. 1 e 17; Giorgio Napolitano, La guerra giusta esiste, "l'Unita'", 5 novembre 2002, pp. 1 e 20. 3. Come ha ricordato Lucio Magri, La guerra preventiva, in questa rivista ["La rivista del manifesto"], n. 32, ottobre 2002, p. 3, una commissione dell'Onu incaricata di accertare il potenziale militare dell'Iraq concluse che esso era ridotto al dieci per cento rispetto a quello precedente alla guerra del Golfo. 4. Il caso e' illustrato da A. Di Blase, Guerra preventiva e diritto internazionale, in corso di stampa, p. 14 del dattiloscritto, ove sono altresi' ricordate numerose risoluzioni del Consiglio di sicurezza e pronunce della Corte internazionale di giustizia, che hanno sempre escluso la legittimita' di azioni di difesa preventiva. 5. Giorgio Napolitano, Le azioni dell'Onu non sono guerra, in "l'Unita'", 9 novembre 2002, pp. 1 e 31. 3. APPELLI. TENDE DI PACE A RAFAH [Da Stefano Orlando (per contatti: steorlando at hotmail.com) riceviamo e diffondiamo questa lettera di tre volontari che reca notizia di una esperienza di interposizione nonviolenta, e propone di proseguirla ed estenderla. Cogliamo l'occasione per esprimere ancora una volta il nostro sostegno a tutte le persone, israeliane, palestinesi, volontari internazionali, che in Israele e in Palestina si stanno impegnando con la scelta della nonviolenza per la pace, per la vita e per la dignita' umana; per far cessare tutte le uccisioni e le violenze; per far cessare l'occupazione dei territori, favorire la nascita dello stato di Palestina e garantire l'esistenza dello stato di Israele, promuovere la convivenza, la riconciliazione e e la sicurezza di due popoli e due stati; per sconfiggere e far cessare definitivamente tutte le stragi e tutti i terrorismi, di stato, di gruppi criminali, di singoli] Siamo tre ragazzi italiani che stanno partecipando alla campagna di interposizione civile nonviolenta dell'International Solidarity Movement (in sigla: Ism, sito: www.palsolidarity.org) in Palestina dal 15 dicembre 2002 al 15 gennaio 2003. Ci troviamo a Rafah, nella Striscia di Gaza, dove il governo di Israele sta facendo costruire un enorme muro per separare la Palestina dall'Egitto strangolandone cosi' ulteriormente l'economia. Rafah e' una citta' martire che subisce quoptidianamente l'umiliazione di questa occupazione che distrugge la vita di tutte le famiglie. Per evitare il piu' possibile l'irrefrenabile e terrificante distruzione delle case palestinesi vicine al suddetto muro, nonche' l'uccisione indiscriminata di civili che vivono in queste zone periferiche, il 3 gennaio 2003 abbiamo dato vita ad una pacifica iniziativa di "camping": abbiamo installato una tenda nel quartiere denominato Block J, in area che si trova tra i tanks israeliani che proteggono il muro e le case che sono a rischio di demolizione. Vista la buona riuscita di questa prima esperienza (i colpi intimidatori delle mitragliatrici israeliane sono diminuiti) e la collaborazione degli abitanti e della societa' civile palestinese, stiamo installando una seconda tenda in un'altra zona. Purtroppo siamo troppo pochi (oggi solo 13 attivisti internazionali) per proteggere tutto il territorio, e corriamo sempre il rischio che le nostre tende vengano rimosse dai bulldozer israeliani. Entro fine mese dovremo quasi tutti rientrare nei nostri Paesi e certamente la nostra assenza lascera' campo libero alle azioni militari indiscriminate di Israele contro i diritti umani e in violazione del diritto internazionale. Pensiamo che sarebbe sicuramente molto utile per la popolazione di Rafah continuare ad avere un'assidua presenza di volontari internazionali che piantassero quante piu' tende e' possibile a protezione di tutte le zone a ridosso del muro. Proponiamo una vera e propria "invasione di tende" per aiutare i palestinesi a riappropriarsi della loro terra, delle loro case, della loro vita. Cio' potrebbe realizzarsi con un continuo alternarsi di volontari in modo da garantire un costante aiuto e un necessario ricambio di volontari internazionali. Stefano, Nicola, Andrea Rafah, 6 gennaio 2003 4. LETTURE. AUGUSTO CAVADI: ESSERE PROFETI OGGI Augusto Cavadi, Essere profeti oggi, Edizioni Dehoniane Bologna, Bolgna 1996, pp. 102, lire 12.000. Un intenso e appassionante libro su "la dimensione profetica dell'esperienza cristiana". 5. LETTURE. AUGUSTO CAVADI: RIPARTIRE DALLE RADICI Augusto Cavadi, Ripartire dalle radici, Cittadella, Assisi 2000, pp. 136, euro 9,30. Un libro che muovendo dal confronto tra "naufragio della politica ed etiche contemporanee" formula nitide e persuasive proposte di riflessione ed impegno. 6. RILETTURE. MARIA TERESA BIASON: LA MASSIMA O IL "SAPER DIRE" Maria Teresa Biason, La massima o il "saper dire", Sellerio, Palermo 1990, pp. 156, lire 18.000. Un'acuta riflessione sulla forma espressiva della "massima", con un'analisi dettagliata della grande opera di La Rochefoucauld. 7. RILETTURE. STEFANIA GUERRA LISI: IL METODO DELLA GLOBALITA' DEI LINGUAGGI Stefania Guerra Lisi, Il metodo della globalita' dei linguaggi, Borla, Roma 1987, 1997, pp. 176 + 16 di appendice fotografica, lire 30.000. Un testo di notevole utilita' pedagogica e didattica. 8. RILETTURE. MARIA CHIARA LEVORATO: LE EMOZIONI DELLA LETTURE Maria Chiara Levorato, Le emozioni della lettura, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 280, euro 16,53. Un utile libro sulla narrazione in quanto atto psicologico e "la lettura come ricerca del significato ed esperienza emotiva al tempo stesso". 9. RILETTURE. SIGRID LOOS: NOVANTANOVE GIOCHI COOPERATIVI Sigrid Loos, Novantanove giochi cooperativi, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1989, pp. 130, lire 15.000. Giochi per far crescere il senso di cooperazione creativa, della nota formatrice alla nonviolenza. 10. RILETTURE. MARIA RITA PARSI: IL MONDO CREATO DAI BAMBINI Maria Rita Parsi, Il mondo creato dai bambini, Mondadori, Milano 1992, pp. 192, lire 28.000. Sei esempi di creativita' infantile raccontati dall'autrice de I quaderni delle bambine. 11. RILETTURE. MARA SELVINI PALAZZOLI, STEFANO CIRILLO, MATTEO SELVINI, ANNA MARIA SORRENTINO: I GIOCHI PSICOTICI NELLA FAMIGLIA Mara Selvini Palazzoli, Stefano Cirillo, Matteo Selvini, Anna Maria Sorrentino, I giochi psicotici nella famiglia, Raffaello Cortina Editore, Milano 1988, 1997, pp. XXI + 298, lire 48.000. Un notevole libro dell'indimenticabile studiosa e terapeuta e dei suoi collaboratori. 12. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 13. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it; angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 469 del 7 gennaio 2003
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