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La nonviolenza e' in cammino. 462
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 462
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Mon, 30 Dec 2002 22:10:38 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 462 del 31 dicembre 2002 Sommario di questo numero: 1. Lidia Menapace, Schadenfreude 2. Enrico Peyretti: forza e violenza. La violenza e' debolezza. La nonviolenza e' forza 3. Davide Melodia: la nonviolenza, una scelta difficile (parte seconda) 4. Maria Maniscalco, per sconfiggere la mafia 5. Vita Cosentino, una questione di liberta' 6. Maria Castiglioni, cronaca di un conflitto in margine 7. Un ricordo di Bibi Tomasi 8. Riletture: Vittorio Lanternari, Antropologia e imperialismo 9. Riletture: Vittorio Lanternari, Movimento religiosi di liberta' e di salvezza dei popoli oppressi 10. Riletture: Vittorio Lanternari, Occidente e Terzo Mondo 11. La "Carta" del Movimento Nonviolento 12. Per saperne di piu' 1. RIFLESSIONE. LIDIA MENAPACE: SCHADENFREUDE [Ringraziamo Lidia Menapace (per contatti: menapace at tin.it) per questo intervento. Lidia Menapace ha preso parte alla Resistenza ed e' una delle figure piu' luminose della cultura e della vita civile italiana, dei movimenti delle donne, di pace, di solidarieta', di liberazione. La maggior parte dei suoi scritti e interventi e' dispersa in quotidiani e riviste, atti di convegni, volumi di autori vari; tra i suoi libri cfr. (a cura di), Per un movimento politico di liberazione della donna, Bertani, Verona 1973; La Democrazia Cristiana, Mazzotta, Milano 1974; Economia politica della differenza sessuale, Felina, Roma 1987; (a cura di, ed in collaborazione con Chiara Ingrao), Ne' indifesa ne' in divisa, Sinistra indipendente, Roma 1988; Il papa chiede perdono: le donne glielo accorderanno?, Il dito e la luna, Milano 2000; Resiste', Il dito e la luna, Milano 2001] Si suol dire che mancano alla lingua italiana termini di altre lingue e credo sia vero e del resto reciproco. Goethe non sapeva come tradurre in tedesco "il dolce far niente" e lo trascrisse tale e quale nel suo Italienische Reise. Tuttavia nella nostra tradizione letteraria e' stata una questione cruciale: nell'Umanesimo quando l'italiano ambiva ad accreditarsi come terza classicita', gli studiosi usavano comporre lunghi glossari per dimostrare che ad ogni parola latina o greca ne corrispondevano due o tre italiane: il nostro thesaurus era molto maggiore. Rimanevano invece senza prove di superiorita' quanto ai generi, dato che in italiano non era stato scritto nessun poema epico ne' tragedia, i due generi piu' nobili secondo la Poetica di Aristotele. Non cito i guai prodotti da simili giochini eruditi, se non col nome di Torquato Tasso che ci perse la ragione. Una delle parole intraducibili e' Sehnsucht che in tedesco dice insieme nostalgia e melanconia (del resto due parole di origine greca); e Schadenfreude, letteralmente gioia di far danno, termine piu' forte e tremendo del nostro cattiveria o malignita' o malizia. Quelli che si dilettano a fare ipotesi sul "genio dei popoli" magari affermano che noi italiani saremmo piu' buoni (e anche ridanciani, se e' vero che ci mancano i termini tragici). Sono sciocchezze da usare durante le vacanze per ginnastica mentale. * Comunque una vera Schadenfreude l'ho provata nei confronti degli sciatori che - arrivati quassu' in Trentino a frotte - trovano le piste di neve artificiale e per di piu' un clima mite, sicche' la neve artificiale fonde e non si scia. Perche' mai - si chiedera' qualcuno - ce l'ho tanto con chi scia? Ho sciato tanto (solo sci di fondo peraltro, non ho mai amato andare in su appesa allo skilift e poi fiondarmi in discese mozzafiato e spaccacaviglie, ma i gusti sono gusti) e non ho atteggiamenti vendicativi per chi ora puo' farlo mentre a me la fatica, la fragilita' delle giunture e un po' di artrosi consigliano di lasciar perdere. Non e' per lo sci, ma perche' ci vanno senza ragionare. Faccio allora tutto il ragionamento sullo sci, per dimostrare quanto e' violenta la nostra cultura verso l'ambiente e quanto e' irragionevole che a fenomeni naturali inconsueti si risponda in modo tecnologico invece che critico. Dunque: da un po' di inverni quasi non nevica o molto meno e in stagioni "sbagliate". Solo venti anni fa nel Sudtirolo una nevicata in alta quota a fine ottobre faceva la base, poi veniva il freddo e quella base si consolidava e a Natale i turisti arrivavano e la trovavano: noi indigeni ci guardavamo bene dall'andare a sciare a Natale quando le giornate sono brevi, ci lasciavamo le sciate di fine gennaio tutto febbraio, in alto anche marzo quando i giorni sono piu' lunghi e meno rigidi. Questo equilibrio si e' ormai interrotto; nevica poco, presto e poi piu' niente, si scioglie poi per la temperatura mite. Una persona ragionevole e attenta si chiederebbe perche' non nevichi piu' e infatti un po' di scienziati se lo sono chiesti e hanno concluso che l'effetto serra produce una tropicalizzazione del clima con piogge molto raggruppate e siccita': insomma stiamo uscendo con una certa velocita' dalla zona temperata, fatto cui non si rimedia strillando emergenza a ogni disastro, ne' alzando il riscaldamento quando fa freddo e mettendo piu' impianti di aria condizionata quando fa caldo, umidificando l'aria delle nostre case ecc. Provo un vero disagio fisico per gli inverni miti e gli autunni piovosissimi e mi pare di essere in sintonia con la natura, che perde essa pure la trebisonda. Sono in un paese del Trentino non alto, ma che di solito aveva neve di questa stagione: non ce ne e' un fiocco, ma nel prato ci sono qualche primula e qualche pratolina e il ginestrino e' tutto fiorito quasi due mesi prima del solito. * Ma di nuovo: che c'entrano gli sciatori? C'entrano perche' invece di interrogarsi sulla mancanza di neve e trascurare le stazioni di sci, quando albergatori, agenzie e tutta l'industria del "tempo libero" hanno offerto piste innevate con neve artificiale, hanno subito detto di si'. Di per se' e' orrendo sciare su un nastro bianco con intorno prati e campi e sassi e terra nuda, e' bruttissimo, ma i gusti sono gusti. Il fatto e' che per fare la neve artificiale si usa l'acqua delle sorgenti, che percio' si inaridiscono, la falda acquifera si abbassa, da anni i ghiacciai sono in ritiro, il danno e' visibile; inoltre per far durare le neve artificiale che qualche dissennato tour operator definisce "la neve piu' cara del mondo" all'acqua vengono mescolati sali: al disgelo l'acqua che imbeve la terra brucia i prati e non e' recuperabile per usi di potabilita' e nemmeno per irrigazione. Vi e' una sorda contesa tra contadini e albergatori, ma i contadini sono piu' "deboli" e gli albergatori hanno alleati piu' significativi, ad esempio gli sciatori. Cio' che non si sa o non si capisce e' che la montagna con tutta la sua imponenza e' un sistema fragile, e non considerare cio', magari seguitando a dire quanto "si ama la montagna", produce siccita', mutamento del clima, frane, alluvioni ecc. E la mia Schadenfreude? Finalmente ha nevicato, ma poiche' gli inverni sono piu' miti, la neve artificiale si scioglie e non si puo' sciare: devo dire che mi sono fatta una risata maligna. * Sono convinta che stiamo davvero mettendo a rischio equilibri climatici e che cio' sia pericoloso. Ma la stessa maniera di replicare ai problemi in modo prometeico, minacciando la terra invece di secondarla si nota in almeno due altre questioni, la riproduzione e le malattie. E' noto che la fertilita' nei paesi detti avanzati e' in calo per motivi che molti scienziati attribuiscono anche ai ritmi di vita e di lavoro, allo stress da competizione, a inquinamenti vari, a ingurgitamento di sostanze che nemmeno si conoscono durante i processi produttivi ecc. ecc.: le prove sono molteplici, ma una classica e' che negli Usa circa il 25% delle coppie risultano essere sterili e che gli ispanici che arrivano negli Usa conservando una cultura molto favorevole ad avere numerosi figli dopo circa uno o due decenni di residenza hanno un aumento forte della infertilita' di coppia. La cosa piu' ragionevole sarebbe di cercare quali sono le cause della ridotta fertilita'. Ma questo potrebbe chiedere un giudizio critico sui nostri modi di vita e percio' non si fa. Invece si cercano le forme piu' fantasiose di riproduzione artificiale, assistita, medicalmente protetta, forme di intervento incerte, invasive, spesso da ripetere. In ogni caso reputo ingiusto negarne l'accesso a particolari categorie di persone (a chi non e' sposato, a chi e' omosessuale, ecc.), ma anche penso che non sia lecito usare ingenti risorse nella ricerca per far avere figli a ogni costo alle persone dei paesi ricchi, finche' figli o figlie delle donne dei paesi poveri muoiono come mosche per malattie infettive, denutrizione, stenti, aiuti umanitari, cooperazione internazionale ecc. E' violento tenere le risorse solo per noi. * La stessa cosa si pu' dire dell'Aids. Ragionevole sarebbe chiedersi perche' all'improvviso le capacita' di difesa immunitaria cedano e se anche qui non vi sia qualcosa da imputare al nostro modo di vivere, se per caso in qualche laboratorio non si stessero sperimentando armi biologiche ecc. ecc. Insomma la scienza odierna, che e' molto complicata ma ha una alta capacita' narrativa, cioe' e' capace di dirci con precisione che cosa sta cercando, qui non ci dice nulla. Una biologa del Cnr mi diceva anni fa che i laboratori sono tutti dei colabrodo e che percio' non sarebbe stato azzardato pensare che, magari lavorando per il Pentagono, avessero lasciato scappare il virus Hiv. Oppure poteva essere che il nostro organismo, colpito con strepitosa frequenza da nuovi materiali ai quali deve reagire, reagisca alla fine in modo scomposto, e poi si arrenda cedendo tutte le difese immunitarie. Comunque sia, la ragione suggerirebbe di lavorare nella direzione di scoprire le cause dell'Aids e di apprestare perci' dei medicamenti non solo sintomatici. Subentra qui pure il profitto che offusca la ragione: si producono costosissimi farmaci ritardanti o statici e non si fabbrica il vaccino che costerebbe pochissimo: davvero bene ha fatto Mandela a insorgere contro la brevettazione dei farmaci salvavita e a mettersi d'accordo con il Brasile che violando i brevetti produce farmaci contro l'Aids a basso prezzo. * Sono questi i casi che producono in me una vera Schadenfreude quando i calcoli dei profittatori potenti fanno cilecca e non riescono. Come sempre, essendo la Schadenfreude una cosa meschina, il vantaggio e' poco; ma forse puo' servire da svegliarino. 2. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: FORZA E VIOLENZA. LA VIOLENZA E' DEBOLEZZA. LA NONVIOLENZA E' FORZA [Ringraziamo Enrico Peyretti (per contatti: peyretti at tiscalinet.it) per questo intervento. Enrico Peyretti e' uno dei maestri piu' nitidi della cultura e dell'impegno di pace e di nonviolenza. Tra le sue opere: (a cura di), Al di la' del "non uccidere", Cens, Liscate 1989; Dall'albero dei giorni, Servitium, Sotto il Monte 1998; La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998; Per perdere la guerra, Beppe Grande, Torino 1999. E' diffusa attraverso la rete telematica (ed abbiamo recentemente ripresentato in questo notiziario) la sua fondamentale ricerca bibliografica Difesa senza guerra. Bibliografia storica delle lotte nonarmate e nonviolente] 1. Forza e violenza, lungi dall'essere sinonimi, designano qualita' ed azioni umane tra loro opposte. Pero' ci sono punti di contatto e di confusione, specialmente nel linguaggio. Provo ad argomentare (in modo breve, iniziale) questa tesi, grato a chi vorra' valutare gli argomenti, criticarli, svilupparli. La forza costruisce, la violenza distrugge. La forza e' vitale, la violenza e' mortale. La forza e' del malato, la violenza della malattia. Possiamo dire che un amore e' forte, e che un odio e' violento. Non possiamo parlare di amore violento, di un amore che fa male all'amato, ma possiamo dire che un odio e' forte. La violenza del male non intacca la forza del bene, se questo e' sufficientemente puro, tanto da essere forte e non debole. Infatti, un bene debole e scarso e' contagiato dalla violenza del male. Cosi' accade alla politica che continua a fare troppo affidamento sulla violenza e poco sulla forza umana. La forza non teme la violenza. La violenza teme la forza. La forza e' in se' buona. La violenza non e' mai buona. * 2. La differenza tra le due realta' si vede bene nel fatto che un buon genitore o educatore puo' e talora deve usare la forza (psicologica, autorevole, punitiva, al limite moderatamente fisica) per educare il bambino/adolescente, ma non puo' usare la violenza. * 3. I due concetti sono spesso e facilmente sovrapposti, scambiati, eguagliati, ma la loro differenza e' considerevole. L'equivoco linguistico e' usato per nascondere la negativita' della violenza sotto la positivita' della forza. Nelle espressioni: "forze armate", "uso della forza" (titolo di un libro apertamente militare del generale Carlo Jean, Laterza 1996) la parola forza e' usata come eufemismo ingannevole per mascherare e rendere rispettabile e onorata la violenza omicida di massa organizzata, quale e' l'azione militare nella sua essenza. Occorre ripulire ognuno dei due concetti dalle contaminazioni dell'altro. La distinzione e' chiara in Gandhi: la "forza della verita'" (satyagraha, forza dell'attenersi alla verita', continuamente ricercata, mai posseduta infallibilmente) e' nonviolenza attiva, lotta senza violenza, forza alternativa alla violenza, mezzo efficace per combattere la violenza. La nonviolenza e' forza perche'e' cammino di fuoriuscita dalla debolezza della violenza. * 4. La polizia e' forza, la guerra e' violenza. La differenza riguarda l'etica e le finalita' delle due azioni (cfr. nel mio libro Per perdere la guerra, Beppe Grande Editore, Torino 1999, il capitolo La polizia non e' la guerra, pp. 39-41). La distinzione e' necessaria per evitare sia un assolutismo nonviolento (cosi' Giuliano Pontara chiama l'esclusione di qualunque uso di forza contro le violenze; vedi il suo ragionamento in Introduzione a Antigone o Creonte. Etica e politica nell'era atomica, Editori Riuniti, Roma 1990, pp. XII-XIV, e La personalita' nonviolenta, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1996, pp. 42-48) sia il diffuso malinteso che (talora con malafede) considera la nonviolenza come una non-azione, una passivita'. * 5. La forza puo' essere fisica, materiale, morale. La forza fisica e' un puro mezzo personale, ambiguo: puo' sollevare e puo' abbattere. Jean Valjean la usa per sollevare. Il suo valore e significato dipende tutto dallo scopo per cui questa forza e' impiegata. Si puo' usare la forza fisica come violenza, ma di per se' essa non e' violenza. Un gigante puo' essere malvagio o buono, certo non e' violento per il solo fatto di essere grande e forte. Non c'e' merito di chi ha la forza fisica (salvo averla mantenuta ed accresciuta curando la salute), ne' demerito di chi non ce l'ha (salvo aver trascurato o danneggiato la salute). * 6. La forza materiale e' estrinseca alla persona, posticcia: e' lo strumento, l'arma, il denaro. Essa stabilisce tra le persone diseguaglianze tutte esteriori, aggiunte. La forza materiale e' pericolosa anzitutto per chi la possiede, perche' lo illude di essere forte o ricco per qualita' propria, specialmente se questi l'ha conquistata, se l'ha presa, ma anche se l'ha onestamente guadagnata. In ogni caso l'uomo non e' cio' che possiede: "Anche se uno e' molto ricco, la sua vita non consiste nei suoi beni' (Luca, 12, 15). Tutte le sapienze umane mostrano la fragilita' della ricchezza, canna bella ma fessa, a cui non conviene appoggiarsi, "miseria brillante" (Kant). Limitandomi alla sapienza biblica, segnalo solo qualche idea: la ricchezza tenuta per se' e' un padrone (Luca 16, 13), e' tristezza (Luca 18, 23), e' una violenza: "C'e' pace tra la iena e il cane? E c'e' pace tra il ricco e il povero? I leoni nel deserto vanno a caccia di onagri, cosi' i poveri sono il pascolo dei ricchi" (Siracide 13, 18-19). La forza materiale e' un peso sulla persona, la tiene in basso come una zavorra, mentre crede di essere in alto, sopra gli altri; facilmente ne corrompe la mente e l'animo; la lega impedendole i mutamenti esistenziali; la induce ad approfittarne nella prevaricazione e nella violenza: "Chi ha un martello in mano scambia il mondo per un chiodo" (proverbio americano). * 7. C'e' un tipo di forza materiale che esercita di per se stessa una violenza, anche tacita: e' la forza terribile contenuta nelle armi, strumenti studiati solo per ferire ed uccidere. L'arma in mano dice, non necessariamente ma presumibilmente, la volonta' di usarla, dunque e' di per se' una forza minacciosa, incute paura, fa soffrire, riduce in soggezione: la sola presenza dell'arma e' violenza. L'esempio ora fatto e' indicativo dell'esistenza di zone sfumate tra le due realta' opposte di cui parliamo. L'arma in mano al poliziotto sicuramente corretto e' segno di forza protettiva (anche se e' triste constatarne la necessita'), non di violenza. L'arma in mano allo sconosciuto, di cui non conosciamo le intenzioni, e' sentita come minaccia, dunque e' violenza. L'arma in mano a san Francesco non fa nessuna paura: sappiamo che non minaccia nessuno, forse la distruggera'. Sirio Politi, fortissimo nonviolento (fu presidente del Mir), teneva appesa al muro, nella piccola casa nel porto di Viareggio, una pistola saldata ad una piastra, come quadro della violenza neutralizzata, inchiodata. C'e' un crinale, spesso sottile come una lama, dal quale si puo' passare alla forza della vita, oppure alla violenza della morte. A proposito di lama: cio' si vede classicamente in uno strumento come il coltello da cucina, che puo' quotidianamente amministrare il cibo della vita o tragicamente tagliare il filo della vita. * 8. La forza morale e' qualita' umana positiva e preziosa, intrinseca alla persona; e' risultato di educazione, volonta', esperienza, e di spirito ricevuto dall'alto; si sviluppa se messa alla prova. E' la virtu' classica della fortezza. In generale, la forza solleva pesi materiali e morali; regge la fatica materiale e morale; sopporta il dolore materiale e morale. In particolare, la forza morale mantiene o ritrova serenita' interiore nell'amarezza dell'offesa e di fronte allo spettacolo disperante del male; e' tenace nonostante le delusioni; "trasforma il dolore in forza" come dice Nadia Neri di Etty Hillesum (in Un'estrema compassione, Bruno Mondadori, 1999). La forza morale resiste alla violenza patita (mai subita) e alle seduzioni della violenza. La violenza non vince mai sulla forza morale, anzi la stimola e la accresce, anche quando sopprime il resistente. Il martire e' testimone di questa forza, che passa e prosegue in coloro che vedono la sua azione e passione. * 9. C'e' una falsa forza, che sembra ma non e' forza, ed esercita violenza almeno strutturale, statica: e' questa la potenza (non nel senso aristotelico di capacita', "potere di", ma in quello di dominio, "potere su"). Ne scrive bene un filosofo: "In generale, la reazione piu' probabile [all'angoscia da impotenza] e' quella di cercare un riscatto nella potenza facendone un idolo, venerato in qualcuna delle sue molteplici forme (potenza fisica, militare, politica, economica, religiosa, ecc.). Ma, a sua volta, la potenza, che si esplica essenzialmente nella capacita' di prendere e realizzare decisioni sacrificali a carico degli altri, non ammette la liberta', l'incontro con l'altro, con il bene o con la verita', perche', nella sua essenza, e' la coazione a dominare. Per la potenza ogni alterita' e' solo un oggetto di dominio. Ma quelli che derivano dalla potenza sono atti di angoscia, non di liberta'. Atti proiettivi e in qualche modo deliranti, incapaci di riconoscere la realta'. Anche per questo la potenza non puo' contare, a ben vedere, sulla durata temporale di cui sono capaci le scelte. Per quanto s'impongano in un dato periodo, gli imperi, che sono la forma eminente della potenza storica, sono tutti accomunati dall'assoggettamento a una legge inesorabile: gli imperi crollano. La potenza manifesta, prima o poi, la radice non elaborata di impotenza da cui proviene. E' fragilita' ripudiata e tramutata in arroganza". Cosi' scrive Roberto Mancini, filosofo, in Il silenzio, via verso la vita (Edizioni Qiqaion, Bose 2002, p. 148). * 10. La parola e' forza tipicamente umana e puo' essere arma violenta, quando e' calunnia, menzogna, come avverte il proverbio: "Ne uccide piu' la lingua che la spada". Ma puo' bene essere forza di verita' disarmata, che smaschera e denuncia le falsita', che indica la via giusta, che fa avanzare la verita' con la sua forza inerme, inoffensiva, ma fortemente incisiva sulla realta': infatti, la parola che contiene verita' modifica le cose come sono conducendole verso la loro verita'. In questo caso la parola e' forza contro violenza: "dire la verita' al potere" e', per Gandhi, un compito del combattente nonviolento. * 11. La violenza toglie la forza della vita organica, nel violentato e anche nel violento. Essa riduce la vittima vivente a cosa morta. Anche i buoni strumenti della vita - case, scuole, fabbriche, strade, ponti, ecc. - sotto i colpi della violenza diventano scheletri morti, spaventosi monumenti alla morte. Le case sventrate da bombe e fuoco, perduti i vivi abitanti, esibiscono vuote orbite di teschio. Ma anche il violento muore nell'uccidere. Dice Simone Weil: "Si maneggi la forza [qui nel significato di violenza] o se ne sia feriti, in ogni modo il suo contatto pietrifica e trasforma un uomo in cosa" (in La Grecia e le intuizioni precristiane, 1939). Sara' per questo che la pena di morte non riduce affatto i delitti di sangue, perche' chi uccide e' gia' pietra morta, forse cerca conferma nella mannaia. Ma bisognera' aggiungere che la pietra umana, come le ossa nella visione di Ezechiele (cap. 37), puo' riprendere vita, perche' lo spirito soffia dove vuole, anche dentro l'uomo moralmente morto. * 12. La violenza e' vile, cioe' debole, perche' sceglie di colpire i piu' deboli, piu' disarmati, non avvertiti, e strategicamente non affronta i piu' forti fisicamente o materialmente. La violenza che si eleva a giustizia contro altra violenza condannata come ingiusta, e' debolezza, subordinazione mentale, ripetizione, mancanza di iniziativa innovatrice. E' l'errore logico, fino a questo momento, della concezione militare, che caratterizza larghissimamente (non totalmente) la politica ed anche il diritto penale e il potere giudiziario. E' l'illusione madornale di combattere il male con altro male, con l'effetto di confermarlo e stabilirlo come metodo principe di azione. * 13. La nonviolenza e' forza, e' lotta. Sviluppata e organizzata in metodi studiati e sperimentati, sostenuti dalla forza e dall'unita' morale dei lottatori, essa puo' arrestare la violenza. La nonviolenza e' la rivoluzione storica del nostro tempo, percio' contrastata in ogni modo, perche' e' il passaggio della civilta' della violenza alla civilta' della forza. 3. RIFLESSIONE. DAVIDE MELODIA: LA NONVIOLENZA, UN SCELTA DIFFICILE (PARTE SECONDA) [Ringraziamo Davide Melodia (per contatti: melody at libero.it) per questo intervento, la cui prima parte e' apparsa nel n. 460 del 29 dicembre. Davide Melodia, infaticabile costruttore di pace, e' nato a Messina nel 1920; prigioniero di guerra nel 1940-46; maestro elementare, pastore evangelico battista, maestro carcerario, traduttore al quotidiano "Il Giorno", pittore, consigliere comunale e provinciale, dirigente dei Verdi; pacifista nonviolento, segretario del Movimento Nonviolento (1981-'83), segretario della Lega per il Disarmo Unilaterale (1979-'83), membro del Movimento Internazionale della Riconciliazione, vegetariano, predicatore evangelico, dal 1984 quacchero. Ma questa mera elencazione di alcune sue scelte ed esperienze non ne rende adeguatamente la personalita', vivacissima e generosa. La piu' recente delle opere di Davide Melodia e' Introduzione al cristianesimo pacifista, Costruttori di pace, Luino (Va) 2002] Per passare dall'utopia alla realizzazione - totale o parziale - della pace, che fare? Per lottare efficacemente e consapevolmente contro la violenza, o contro un avversario violento e possente, bisogna tener conto delle sue ragioni, dell'educazione, dei principi, valori, non valori, mezzi, metodi ed altro per cui agisce in un dato modo. E poiche' alcune caratteristiche dell'avversario violento sono anche dentro di noi, dobbiamo, se ne abbiamo il tempo e la volonta', porci psicologicamente come sul divano dello psicoanalista e analizzare in primis le radici della violenza: la societa' violenta in cui si vive causa violenza; la cultura, la letteratura maggioritaria causa violenza; la televisione, la radio, tutti i mass media maggioritari, gli spettacoli causano violenza; l'educazione tradizionale causa violenza; la violenza causa violenza; la violenza subita causa violenza; l'ingiustizia causa violenza; la fame causa violenza; la menzogna causa violenza; la paura causa violenza; la vendetta causa violenza; la vendetta della vendetta causa violenza; la schiavitu' causa violenza; l'odio causa violenza; l'odio razziale causa violenza; l'odio religioso, il fanatismo causa violenza; l'invidia causa violenza; la brama di potere causa violenza; l'imperialismo causa violenza; l'egemonismo causa violenza; il militarismo causa violenza; la non conoscenza dello straniero causa violenza. E in coscienza non possiamo affermare che, in una o piu' delle suddette condizioni noi, personalmente, non abbiamo adottato una forma o l'altra di violenza. * Ma l'idea e il messaggio umanitario e sociale della nonviolenza, e l'esempio di Gesu', di Gandhi, di Martin Luther King, ci ha ad un certo momento affascinati, e l'abbiamo - intellettualmente almeno - abbracciata. Ed a questo punto, se non teniamo conto delle difficolta' da un lato, e delle grandi potenzialita' della nonviolenza dall'altro, per mettere in pratica queste, siamo e restiamo soltanto dei dicitori, non dei facitori. Per brevita', tracciamo un breve elenco delle risposte della nonviolenza: non accettare il concetto di nemico; cercare i valori dell'altro; cercare l'umanita' nell'altro; non accettare che diversita' significhi avversita'; cercare i punti di convergenza e non di divergenza fra i valori propri e quelli dell'altro; sollecitare le aspirazioni alla pace in se' e nell'altro; intervenire come mediatori fra gli uni e gli altri in conflitto; offrirsi quali ambasciatori di pace fra i contendenti; cercare di fugare le paure dell'altro, dopo avere fatto un percorso di autoliberazione dalle cause della paura. * Siccome, in generale, chi non conosce direttamente la nonviolenza tende a sottovalutare lo spirito di pace di chi la sceglie, e pensa che lui o lei abbia rinunciato per paura o debolezza ad usare la forza, e il coraggio, che, sempre in generale, si crede necessario opporre al "nemico", vediamo di fare chiarezza tra forza, violenza e nemico. La forza, di per se', e' un elemento neutro, e non avendo ovviamente una personalita', ne' una volonta' propria, dipende da chi la usa e da come la usa. E, a questo punto, usare la forza per una attivita' normale, lecita, come il lavoro, o lo sport, non crea problemi. I guai sorgono quando la forza, che e' come un oggetto, viene usata per fare violenza a qualcuno, a un gruppo sociale, ad un popolo. Allora la forza diviene in un certo senso la longa manus dell'intento violento, quasi una complice involontaria. La violenza ha la capacita' di fare del male, di aggredire anche senza l'uso della forza, e questo e' un motivo ulteriore per non confondere forza e violenza. Ogni valutazione va fatta, insomma, tenendo ben presente il grado di responsabilita' di tutto e di tutti. * Il nonviolento non rinuncia alla lotta violenta perche' teme di battersi, ma perche' vuole liberare la lotta dalla violenza, cosi' da fare della lotta uno strumento di crescita e di ricerca della verita', della giustizia e della liberta' senza portare dolore e distruzione, come accade a tutto cio' che passa per la violenza. Il nonviolento non rinuncia alla lotta quindi, ma si adopera a separare i due elementi-momenti di forza e violenza, tenendoli ciascuno al proprio posto, accuratamente. Usando la forza in modo serio, consapevole, responsabile, costruttivo, il nonviolento lascia agli esseri umani il piacere di usufruire della forza, laddove e quando essa serva quale strumento positivo, riconoscendo in essa un dono della natura, degno di essere, non di scomparire. Ma anche qui, come in tutti gli aspetti della nonviolenza, la forza, essendo uno strumento, per quanto prezioso, deve venire usato senza esaltazione. Ogni strumento deve servire per raggiungere un fine. E' quindi il fine che va tenuto costantemente in vista, nella considerzione che merita. E il fine che il nonviolento si prefigge, a sua volta, non va raggiunto con qualsiasi mezzo, bensi' con i mezzi che gli sono omogenei. I mezzi a disposizione del nonviolento, nella occasione di una lotta per ottenere giustizia, o altro obiettivo degno di una lotta, sono molteplici. Devono pero' avere radici nel profondo della coscienza di chi si accinge alla lotta. Ad esempio, il rispetto. Questo elemento, che ovviamente fa parte del bagaglio culturale del nonviolento (usiamo il termine ben sapendo che nessuno lo e' perfettamente, ma aspira e tende ad esserlo), non e' fondato semplicemente sul vecchio adagio "rispetta per essere rispettato", ma parte dalla profonda convinzione che l'altro e' un essere umano come te, che l'altro ha dei valori come li hai tu, che l'altro e' figlio dello stesso creatore, che l'altro ha gli stessi diritti che hai tu. Se il principio di rispettare non e' una formalita', bensi' e' una esigenza dell'anima, finalizzata a "trarre dall'altro il meglio di ss'", corrisponde esattamente ad un principio quacchero, quello di "trarre dall'altro l'Eterno che e' in lui". Come il dantesco "amor che a nullo amato amar perdona", cosi' questo atteggiamento non puo' non trovare una risposta positiva nell'altro. E' difficile resistere ad una mano tesa. E infine : l'altro non e' il nemico. E' diverso, certo. E' educato alla violenza, forse. Ma e' un essere umano. Sta a te fargli scoprire la sua umanita', se qualcuno gliel'ha tolta. Il "nemico", per il nonviolento, non deve esistere. Gandhi, ad un Lord inglese che gli disse: "Cristo ci ha insegnato: 'ama i tuoi nemici'", rispose: "io non ho nemici". Ed io, ho dei "nemici"? 4. RIFLESSIONE. MARIA MANISCALCO: PER SCONFIGGERE LA MAFIA [Dal sito de "Il paese delle donne" (www.womenews.net) riprendiamo questo articolo. Maria Maniscalco, sindaco di San Giuseppe Jato, e' fortemente impegnata nel movimento antimafia] Per sconfiggere la mafia si e' da tempo affermata la consapevolezza che bisogna colpire i mafiosi oltre che nella sfera personale anche in quella patrimoniale. Eppure, a questo risultato che oggi puo' sembrare una ovvieta', si de pervenuti attraverso un percorso lungo e difficile tutt'altro che concluso, anzi spesso insidiato. Infatti, malgrado i progressi degli strumenti legislativi e tecnologici messi in atto per aggredire i beni dei mafiosi, il grosso di queste ricchezze non e' stato neppure scalfito e la mafia continua ad accumulare ingenti patrimoni, dimostrando ancora una volta di essere molto agguerrita nell'uso dei moderni sistemi informatici, tecnologici ed economici, per occultare e trasferire capitali, ma anche nel continuare a servirsi di sistemi "tradizionali", quali quello dei prestanome. * La ricchezza, la disponibilita' di denaro e di beni, e' la prima motivazione che spinge un individuo ad aderire all'organizzazione mafiosa ed a rimanerci. Proprio partendo da queste considerazioni, l'associazione Libera raccolse piu' di un milione di firme su un disegno di legge d'iniziativa popolare che divenne la legge 109 del 1996. Questa legge punta a restituire ai cittadini i beni confiscati alla criminalita' organizzata e a raggiungere un duplice obiettivo: uno sul piano pratico, l'altro sul piano simbolico. Sul piano pratico si tratta di far produrre terreni acquisiti illecitamente creando posti di lavoro la' dove il mafioso aveva investito i propri denari. Sul piano simbolico si tratta di riparare un danno che la collettivita' ha subito con la presenza della mafia restituendo ad un uso sociale un bene e riaffermando il potere dello Stato, che e' a vantaggio di tutti, contro il potere dei mafiosi. La legge ha sicuramente funzionato, tanto che, nei 14 anni antecedenti la sua entrate in vigore, i beni confiscati erano stati 34 in tutta Italia, mentre dal 1996 al 2001 sono stati confiscati complessivamente quasi 3.300 tra case, terreni, aziende, ecc. Tuttavia, di questi beni confiscati, solo un migliaio sono stati finora destinati al riutilizzo sociale. Questo perche' la procedura di sequestro, confisca, destinazione ed uso e' tuttora molto lunga. E' stato calcolato che dal momento del sequestro fino al momento della destinazione, i tempi sono mediamente superiori a 4.093 giorni. * C'e' un altro aspetto della normativa che deve essere affrontato e risolto ed e' quello delicatissimo relativo ai destinatari dei beni. La legge 109 del '96 prevede che i beni vengano assegnati ai Comuni che a loro volta li concedono a cooperative di tipo sociale, formate cioe' da giovani, ex tossicodipendenti, ex detenuti, disabili, ecc. Parliamo cioo' di categorie sociali estremamente deboli. Se si aggiunge che i terreni destinati sono da anni incolti e gli edifici sono spesso, a causa del lungo stato di abbandono, nel degrado, si capisce come sia difficile raggiungere risultati visibili e positivi nel riuso, dato che, per lo piu' ne' i Comuni hanno risorse finanziarie per recuperare e riutilizzare questi beni, ne' tantomeno le cooperative sociali che gia' di per se' sono soggetti economicamente deboli. Percio' ogni tanto torna alla ribalta una proposta che, partendo dalle obiettive difficolta' prima dette, prevede la messa in vendita dei beni confiscati. Una larga parte dell'opinione pubblica piu' avvertita, a prescindere dal colore politico, e' contraria alla vendita dei beni confiscati perche' si darebbe la possibilita' ai mafiosi di entrarne di nuovo in possesso attraverso dei prestanome, mettendo cosi' in scacco lo Stato. * La soluzione invece, potrebbe essere quella attualmente in fase avanzata di sperimentazione, condotta dal consorzio "Sviluppo e Legalita'", costituito inizialmente tra i Comuni di Corleone, Monreale, San Cipirello, San Giuseppe Jato, Piana degli Albanesi, su iniziativa del prefetto di Palermo, dr. Renato Profili. Il consorzio, nato nel 2000, con la collaborazione di Libera e delle agenzie Sviluppo Italia e Sudgest, sta portando avanti un piano che prevede la formazione dei soci di una cooperativa alla quale sono stati assegnati terreni confiscati ai Brusca, a Bagarella, a Riina, a Provenzano. Sudgest ha approntato un progetto che contiene, oltre che la messa a coltura dei terreni, anche la creazione di un laboratorio di piante officinali, un centro equi-turistico, una mini cantina e di un centro agrituristico. Il progetto ha gia' avuto il finanziamento dal Ministero dell'Interno per circa 4 miliardi delle vecchie lire. In questo modo, attraverso il finanziamento ed il tutoraggio per il riuso sociale dei beni confiscati, si darebbe davvero la possibilita' a tanti giovani di poter avere un posto di lavoro e dare alla collettivita' la misura concreta della rivincita dello Stato nei confronti del mafioso. Altro esempio e' quello realizzato nelle campagne di Castelvetrano in provincia di Trapani, da padre Lo Bue, che segue una cooperativa di ex tossicodipendenti che producono un olio d'oliva che viene venduto in un circuito di cooperative commerciali. Per avere un quadro completo, si dovrebbe parlare dello stato in cui versano i beni confiscati, le aziende - di produzione, di commercio e di servizi -; del fatto che durante la fase del sequestro e della confisca, prima della destinazione ai Comuni, spesso le case continuano ad essere abitate dai parenti dei mafiosi ed i terreni ad essere coltivati da persone vicine agli ex proprietari, e questo sotto gli occhi di tutti. Oppure di come questi beni si degradino velocemente anche perche' sono gli stessi mafiosi ad ordinare danneggiamenti, furti, incendi per vendetta. Ma tutto questo sarebbe un altro discorso, molto interessante, ma troppo lungo. * La battaglia di civilta' e di giustizia per la confisca ed il riuso sociale dei beni dei mafiosi (ma anche degli usurai e dei corrotti) ha un grande valore sociale, economico e simbolico. E lo Stato ha il dovere di giocare tutto il suo peso e la sua determinazione ad ogni livello per creare quella fiducia dei cittadini nelle istituzioni la quale e' indispensabile per sconfiggere la mafia anche sul piano culturale. 5. RIFLESSIONE. VITA COSENTINO: UNA QUESTIONE DI LIBERTA' [Dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riportiamo questo intervento di Vita Cosentino, sempre lucida intellettuale femminista] Ho partecipato ai lavori del Forum sociale europeo di Firenze e mi sono trovata bene. Ero con il mio corpo assieme ad altri 65.000, pure mi sentivo perfettamente a mio agio e mi e' sembrata una realta' composita e mobile alla ricerca di altre forme della politica. Io - come alcune altre - vi ho trovato una forte impronta femminile: lo ha gia' detto Naomi Klein per il modo di prendere le decisioni, io sono soprattutto colpita dal ritrovare al suo interno l'idea che e' possibile cambiare il mondo senza la conquista del potere (e' anche argomento di due libri appena usciti, uno in Argentina e l'altro in Francia e non ancora tradotti in Italia) che per me e' stata l'invenzione piu' potente del femminismo. Qui pero' cominciano le questioni critiche perche' e' in gran parte inconsapevole che questa idea sia stata anticipata dal femminismo e questo mancato riconoscimento fa problema a donne che quella scommessa portano avanti da piu' di 30 anni, cosi' come fa problema anche a me il mescolarsi di idee e pratiche che vanno in questa direzione con vecchi schemi di politica antagonista, con ripetizioni (maschili) di ricerca di massima visibilita'. Cosi' di ritorno dal forum voglio affrontare solo una questione che riguarda la domanda che mi portavo dentro: la possibilita' o meno di praticare esplicite relazioni politiche di differenza donna/uomo. In alcuni momenti l'ho sentita veramente a portata di mano, in altri toccarne l'impossibilita' si e' esplicitato in conflitto. Ascoltando le reazioni dentro di me ho capito, come cerchero' di mostrare, che in gioco c'e' la liberta' nel pensare, di uomini, di donne. Ho sentito per me donna un possibile terreno di scambio quando ho percepito un ragionare maschile piu' libero: meno preoccupato a costruire una teoria in cui tutto si tiene e da cui dedurre un agire e un organizzare, e piu' attento a cogliere le occasioni che si aprono nella contraddittorieta' del presente per dei soggetti vivi e pensanti; e invece un'impossibilita' quando non c'era questa condizione. Mi spiego con due esempi concreti dell'una e dell'altra situazione. Per un'apertura di possibilita' di relazione mi riferisco all'intervento di Roberto Savio al seminario coordinato da Anna Pizzo su "Informazione e cultura", ma lo stesso discorso vale per esempio per l'intervento di Pierluigi Sullo al seminario per la "Democrazia partecipativa" e per altri che ho ascoltato. Roberto Savio e' il coordinatore del gruppo di lavoro per la comunicazione del Forum mondiale di Porto Alegre e il suo discorso era al tempo stesso realistico e animato da una forte scommessa politica che faceva conto sulla forza che risulta da soggetti consapevoli, da una miriade di comportamenti quotidiani diversi, da altri stili di vita, altre esistenze, altre idee. Era realistico perche' prendeva atto che viviamo nel capitalismo e che tutto sta nella logica del mercato, che e' la logica del "fare soldi". Anche per l'informazione - diceva - la logica e' la stessa: e' dominata da alcuni grandi editori a cui non interessa comunicare, ma vendere. In questa stessa logica del capitalismo Savio, pero', vedeva anche il suo punto debole e come prospettiva politica indicava, lo riassumo in breve con parole mie: "se noi invece di spendere energie a lamentarci che non abbiamo spazio sui giornali andiamo decisamente per la nostra strada facendo sempre piu' opinione pubblica su un'altra idea del vivere e della societa' umana, questo fa saltare il meccanismo. Un gruppo editoriale come Murdoch che ha come suo unico interesse vendere se continua a parlar d'altro e a ignorarci vedra' crollare le sue vendite come gia' sta incominciando a succedere, e sara' costretto per il suo profitto ad occuparsi di noi e dei temi che ci stanno a cuore". Si puo' condividere o meno il ragionamento (io lo condivido anche), ma ho piu' apprezzato l'operazione di liberta': non rinuncia a un'analisi complessiva, tuttavia non la riempie completamente, si limita a delineare un possibile orizzonte politico in cui e' ancora tutto da giocare. A queste condizioni io mi sento attratta a partecipare al gioco con la mia differenza. Viceversa mi sono sentita nella disperazione dell'incomunicabilita' quando al laboratorio sui saperi (organizzato anche da amiche e amici dell'autoriforma della scuola di Firenze assieme al forum locale) e' intervenuto Marco Revelli e ho aperto un conflitto, aiutata dal fatto che al tavolo c'era anche Ida Dominijanni che ha mostrato tutt'altro approccio rendendo manifesta la contraddizione. Il suo sguardo era fisso sul capitalismo di cui analizzava la tendenza in epoca di globalizzazione e le trasformazioni che operava per cui la conoscenza e' vittima della globalizzazione e il sapere e' sottomesso alla logica produttiva. Da qui tirava due conseguenze: la morte dell'intellettuale che prima era chi poteva riflettere sui processi sociali rimanendo indipendente dai processi di produzione, invece ora con un'intellettualita' di massa che porta saperi frammentati manca la possibilita' di una sintesi conoscitiva organica; la seconda era il venir meno dello spazio pubblico: la scuola sussunta dal capitale diventa una fabbrica di mezzi di produzione regolata dal marketing. Da qui allora il problema di come ricostruire lo spazio pubblico, se statale o autogovernato, e la proposta del reddito minimo di sopravvivenza. Il mio e' solo un breve riassunto ricostruito sugli appunti: l'analisi era organica, l'oratore raffinato, ma io che di scuola mi sono occupata tutta la vita mi sentivo sulla luna, assieme alle maestre che fanno le maestre anche sotto il terremoto... in quel modo di costruire un'analisi che vuole spiegare tutto e abbracciare tutto c'era l'azzeramento dei soggetti viventi in carne ed ossa, del loro agire quotidiano, delle idee che vi portano e che hanno cambiato e cambiano i luoghi stessi. Non a caso il suo discorso tutto imperniato sulle trasformazioni ignorava totalmente la femminizzazione della scuola, che e' la trasformazione piu' significativa degli ultimi trent'anni. Insomma c'e' un conto da fare sul tipo di relazioni che si instaurano parlando e rimettere in discussione - questo ho cercato di dirgli - le gerarchie di valore e il potere quando si parla: sia nel senso di una parola che cerca la supremazia teorica, sia nella costruzione del ragionamento politico in un modo che crea una sorta di rapporto di subordinazione tra chi elabora la teoria (l'intellettuale organico?) e chi agisce (le masse?). A queste condizioni io mi sento respinta e ricacciata in qualche modo in una dinamica da cui sono gia' fuggita tanto tempo fa approdando al femminismo. Per concludere, quello che ho visto al Forum europeo - ma anche in altre situazioni - e' che e' cominciato un "disfare" maschile di apparati concettuali e modi di essere intellettuale che contenevano anche una pretesa di dominio sulla realta' e questo, per quanto mi riguarda, crea un terreno favorevole a una relazione di differenza che incrementa la liberta'. Ma questo e' tutt'altro che assodato come ho cercato di mostrare con due esempi di uomini. Accennero' solo a un terzo che fa vedere come la questione della liberta' sia tutta aperta anche fra le donne. Al seminario "Donne - uomini: conflitto necessario per un futuro comune" organizzato e presieduto dalle donne della Marcia mondiale per la pace ho assistito a un conflitto in questo senso condotto da un giovane uomo di Roma, nei confronti delle donne della presidenza. Ma questa e' un'altra storia che racconta Maria Castiglioni sempre sul nostro sito... 6. RIFLESSIONE. MARIA CASTIGLIONI: CRONACA DI UN CONFLITTO IN MARGINE [Anche questo intervento abbiamo tratto dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it). Maria Castiglioni e' una rigorosa intellettuale femminista] Alle 9 di mattina l'aula magna del Palacongressi [di Firenze, in occasione dell'incontro su "Donne-uomini: conflitto necessario per un futuro comune" l'8 novembre 2002 nell'ambito del Forum sociale europeo] e' semivuota, ma nel giro di un'ora si riempie velocemente: donne di ogni eta', alcuni uomini, per lo piu' giovani, una folla di circa 700-800 persone attenta e partecipe. E' la prima volta che un tema attinente la sfera dei rapporti interpersonali, in particolare quella tra i sessi, viene posto in modo esplicito in un contesto cosi' pubblico e allargato, all'interno degli appuntamenti del Social Forum. Quindi sento, anche per me, attesa e curiosita'. Nadia de Mond della Marcia mondiale delle donne coordina il dibattito. Non riesco a rintracciare una diversita' sostanziale negli interventi che si susseguono. Dall'accento posto sull'oppressione delle donne che "devono lavorare insieme per giungere a progetti comuni, superando la disomogeneita', dovuta alla mancanza di un'identita' collettiva" (Angelika Psarra, giornalista greca), alla denuncia dettagliata della discriminazione orizzontale e verticale subita dalle donne sui luoghi di lavoro e alla conseguente necessita' di estendere i servizi sociali e lottare contro la precarieta' lavorativa (Laura Gonzales de Txabarri, sindacalista basca), fino all'appello a "procedere per astrazioni per trovare punti unificanti, perche' occorre andare oltre l'affermazione che il personale e' politico" (Christine Delphy, Marcia mondiale delle donne francese). * L'intervento piu' articolato e puntuale mi e' sembrato quello di Lidia Cirillo (Marcia mondiale delle donne italiana) che si e' soffermata sulla questione del potere, domandandosi: "E' possibile riscattare il potere?"; e poi, a proposito delle politiche di parita', interrogandosi sulla "natura" del potere su cui si avanzano pretese di ripartizione: "Di che cosa vogliamo il 50%?", si e' chiesta, proseguendo il discorso sulla necessita' di una "terza via" tra il rifiuto del potere e le politiche di parita'. In un breve excursus storico, ha richiamato alcune forme di "democrazia diretta" utilizzate dalle donne: i club femminili della Rivoluzione Francese, la lotta delle suffragiste inglesi, l'Internazionale femminile del 1920, le donne del Rawa afgano, fino ai gruppi di autocoscienza, definiti una "prima forma di autorganizzazione e base della spinta emancipatoria". "Ma - ha proseguito - questo tipo di democrazia non esiste: quella con cui abbiamo a che fare e' la democrazia dei ceti politici e degli interessi forti. Rischiamo allora di di lottare per il 50% di niente", ha concluso, rinviando alla necessita' di lavorare per una democrazia "capace di superare la distanza tra popolo e politica". * Gli interventi successivi mi sono sembrati molto orientati alla denuncia delle condizioni di vita delle donne (in Irlanda, in Spagna, in Africa, etc.) con un rimando costante alla necessita' di unirsi e lottare per cambiare le cose, fatta eccezione per Bianca Pomeranzi, con il suo richiamo alla pratica femminista (che esigerebbe un diverso assetto delle "forme" degli incontri), e Maria Grazia Campari che ha evidenziato la necessita' di mediare nel conflitto tra i due generi attraverso "risultati consensuali via via proggressivi". Anche un uomo, Stefano Ciccone, ha rappresentato una nota un po' diversa, riconoscendo alle donne di aver posto in primo piano la questione di una pratica e di una politica che non tagliasse fuori il corpo. Anche il mio intervento ha ripreso questo tema, a partire da un invito a non negare, in nome di un rivendicazionismo superficiale e datato, i propri desideri, tra cui quelli riguardanti le relazioni di cura (fischi dalla platea) e una certa indifferenza per il potere, dimostrata tra l'altro dalla scarsissima adesione delle donne alle politiche di parita' e dalla stessa ammissione di Lidia Cirillo circa la "vacuita'" della lotta per le quote (altri fischi). Ho fatto anche rilevare che ognuna delle donne che era li' presente aveva sicuramente trovato una buona integrazione tra la vita domestica, quella lavorativa e la passione politica e che pertanto non valeva la pena di soffermarsi troppo su questa difficolta' che, nei fatti, aveva gia' trovato una sua possibilita' di soluzione per tutte noi presenti (altra bordata di fischi). Ho chiesto alla platea (e alle relatrici) di spiegare in che cosa consistesse quella differenza, cosi' spesso evocata, con l'invito a non ridurla al mercato dell'economia e ai diritti, ma aprendola al "mercato" delle relazioni e dei desideri (la coordinatrice mi ha invitato a chiudere in fretta). Chi ha ripreso il mio intervento mi ha accusata di volere rimandare le donne a casa, di schiacciarle sulla sola funzione riproduttiva etc. etc. Le amiche, generosamente, mi hanno detto che non sono stata capita, ma io credo semplicemente di aver fatto prevalere una certa vis polemica, a detrimento della comunicazione. Perche' un conto e' il protagonismo, altro e' l'esserci. E questa e' una strada lunga o, per riprendere un'espressione di Luisa Muraro, una "porta stretta". 7. MEMORIA. UN RICORDO DI BIBI TOMASI [dal sito della Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it) riprendiamo questo ricordo di Bibi Tomasi] Bibi Tomasi nasce a Bologna nel 1925. Il suo nome anagrafico e' Lillyam. La madre e' una maestra e nutre un amore assoluto per la figlia; il padre e' professore di filosofia, ateo e libertario. Bibi dira': ho potuto fare la vita che ho fatto perche' ho avuto due genitori cosi'. E' figlia unica, ma in casa vivono due cani: da qui ha origine l'amore per gli animali che saranno sempre i suoi compagni di gioco. Sempre a Bologna, Bibi frequenta il liceo classico, almeno fino all'autunno del 1944 quando, nel Nord Italia sconvolto dai bombardamenti, i genitori insistono perche' la figlia segua un amico in Sicilia, dove la guerra e' finita. Il suo destino e' segnato: si ritrova nella campagna di Agrigento, ospite di una famiglia chiusa ed opprimente. Proprio qui incontra l'amore, anzi il puro amore, come lo definirebbe Simone Weil. L'altra si chiama Maria. La tragedia scoppia quando le due amanti vengono scoperte e stroncate dagli uomini del clan. Questa sorta di guerra nella guerra e' la storia che Bibi riscrive durante tutta la sua vita in poesie e racconti, ma soprattutto e' la trama del romanzo Il paese di calce. E' infatti da questa esperienza iniziale di amore e perdita che nasce la sua scrittura. Finita la guerra, Bibi sceglie la professione giornalistica a cui si dedichera' per sempre. Negli anni Settanta ripensera' al suo mestiere di scrivere, esplorandone i momenti con occhi nuovi. "Ho parlato di amore perche' scrivere e' spesso un innamoramento. Non mi sono forse io, giovanissima, innamorata di questo mestiere? E non l'ho forse fatto esclusivamente per amore? Si'. Forse avevo confuso lo scrivere stesso per amore e senza rendermene conto mi ero servita di strumenti usuali per riuscirci. La competitivita' che avevo nei confronti di mio padre, e che lui stesso mi aveva insegnata, e' stato il primo presupposto per la conquista di questo mestiere. Ho cominciato con orgoglio e senso della competizione, in un mondo regolato da mio padre e dagli uomini, su coordinate assolutamente maschili. Cioe' create dagli uomini. Ma mi sono disillusa presto, ho presto capito che il mio mestiere sarebbe esistito sempre nella lotta e sull'esistenza di altri, ho presto capito che il mio mestiere non sarebbe stato in effetti lo scrivere, ma il competere, l'arrivare prima. E ci sono sovente riuscita, con un senso di nullita' personale che il femminismo mi ha aiutata a smascherare, a riconoscere" (appunti inediti). Nel 1970, Bibi incontra il femminismo nascente e diventa subito una figura di riferimento, un personaggio con un forte carisma prepolitico, emozionale, poetico e sovversivo. In un primo momento e' nell'MLD, ma lo lascia di colpo, durante una riunione perche' convinta che per lei che ama le donne, l'aborto non sia il problema centrale. E partendo da se', partecipa al Collettivo di via Cherubini. Nel 1975, insieme ad altre e' fondatrice della Libreria delle donne di Milano. E' mitico il suo turno del giovedi' pomeriggio: Bibi e' un richiamo per le donne piu' diverse, a cui consiglia o impone l'acquisto dei libri amati. La Libreria delle donne fu la realta' di relazioni coltivate per trent'anni. "Bibi passava come un turbine nelle esistenze delle numerose amiche e amici, osservando le loro storie con quel suo incredibile sguardo miope e strabico che coglieva i paradossi; ascoltava e condivideva, a volte invadeva precipitosamente le vite altrui, e poi tutto diventava scrittura, ritmo e risata". Da questo forte intreccio, nasce nel 1980 La sproporzione (La Tartaruga), una raccolta di racconti. Nei primi anni Novanta, riprende in mano Il paese di calce e lo riscrive nel suo stile ultimo, eliminando la punteggiatura, le maiuscole, il centro del discorso. Il paese di calce esce nel 1999 con Pratiche editrice. Negli ultimi anni aveva incominciato a non stare piu' bene e una mattina dell'aprile del 2000, Bibi muore per arresto cardiaco. Di lei potete leggere: I padri della fallocultura; La sproporzione; Il paese di calce; La patita dei gatti blu. 8. RILETTURE. VITTORIO LANTERNARI: ANTROPOLOGIA E IMPERIALISMO Vittorio Lanternari, Antropologia e imperialismo, Einaudi, Torino 1974, 1975, pp. XII + 426. Uno dei frutti piu' rilevanti della ricerca e della riflessione teorica e metodologica del grande studioso. 9. RILETTURE. VITTORIO LANTERNARI: MOVIMENTI RELIGIOSI DI LIBERTA' E DI SALVEZZA DEI POPOLI OPPRESSI Vittorio Lanternari, Movimento religiosi di liberta' e di salvezza dei popoli oppressi, Feltrinelli, Milano 1960, 1977, pp. XXX + 368. Un testo classico. 10. RILETTURE. VITTORIO LANTERNARI: OCCIDENTE E TERZO MONDO Vittorio Lanternari, Occidente e Terzo Mondo, Dedalo, Bari 1967, 1972, pp. 542. Nel primo capitolo segnaliamo anche alcune interessanti pagine su Gandhi e Vinoba, ma e' l'intero libro che va letto e apprezzato. 11. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 12. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it; angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 462 del 31 dicembre 2002
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