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La nonviolenza e' in cammino. 451
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 451
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Fri, 20 Dec 2002 02:14:12 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 451 del 20 dicembre 2002 Sommario di questo numero: 1. Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto: il rispetto 2. Claudio Vedovati: passione come compromissione. Un uomo di fronte alla guerra (un contributo alla riflessione proposta da Giancarla Codrignani) 3. Julia Kristeva, il perdono 4. Mario Ferrari, il pensiero e l'opera di Mary Daly 5. Clara Levi Coen, la schiera dei "sommersi" 6. Emanuel Anselmi, la razionalita' economica delle societa' tradizionali 7. Vandana Shiva, la riscoperta del principio femminile 8. Alcune preferenze e avversioni di Jenny Marx 9. Segnalazioni: un recente saggio di Franco Restaino su "Femminismo e filosofia" 10. Segnalazioni: una voce di dizionario di Benedetto Calati, "Parola di Dio" 11. Riletture: Enrica Collotti Pischel, Gandhi e la nonviolenza 12. Riletture: Albert Schweitzer, I grandi pensatori dell'India 13. Gli alti lai di Estribillo Carrasco: passi falsi e allocchi veri 14. La "Carta" del Movimento Nonviolento 15. Per saperne di piu' 1. MAESTRI. GIUSEPPE GIOVANNI LANZA DEL VASTO: IL RISPETTO [Da Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto, Introduzione alla vta interiore, Jaca Book, MIlano 1989, p. 79. Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto e' nato nel 1901 a San Vito dei Normanni da madre belga e padre siciliano, studi a Parigi e Pisa, viaggia e medita; nel 1937 incontra Gandhi nel suo ashram; tornato in Europa fonda la "Comunità dell'Arca", un ordine religioso e un'esperienza comunitaria nonviolenta, artigianale, rurale, ecumenica; promuove e partecipa a numerose iniziative per la pace e la giustizia; e' morto in Spagna nel 1981. Tra le opere di Lanza del Vasto segnaliamo particolarmente Pellegrinaggio alle sorgenti, Vinoba o il nuovo pellegrinaggio, Che cos'e' la nonviolenza, L'arca aveva una vigna per vela, Introduzione alla vita interiore, tutti presso Jaca Book (che ha pubblicato anche altri libri di Lanza del Vasto); Principi e precetti del ritorno all'evidenza, Gribaudi, Torino 1988; Lezioni di vita, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1980] Il rispetto e' lo sguardo del cuore. 2. RIFLESSIONE. CLAUDIO VEDOVATI: PASSIONE COME COMPROMISSIONE. UN UOMO DI FRONTE ALLA GUERRA (UN CONTRIBUTO ALLA RIFLESSIONE PROPOSTA DA GIANCARLA CODRIGNANI) [Ringraziamo Claudio Vedovati (per contatti: cvedovati at excite.com) per averci inviato come contributo alla riflessione promossa da Giancarla Codrignani il testo del suo intervento al convegno "La polveriera. I Balcani tra guerre umanitarie e nazionalismi" (Bari, 14-15 gennaio 2000) promosso dall'Assopace di Bari e dalla Convenzione permanente di donne contro le guerre. Claudio Vedovati ha una rilevante esperienza come ricercatore del Centro per la Riforma dello Stato] Ho partecipato alcuni mesi fa ad un convegno a Bari sulla guerra nei Balcani e mi ha colpito un'osservazione di Pasquale Voza sulla necessita', nel parlare della guerra, di metterci della passione. Ma mi ha anche colpito come quest'idea della passione si risolvesse risolta tutta nel significato d'emotivita'. A me la passione ha preso in senso diverso e mi ha portato per tutt'altra strada: la passione intesa come connessione intima con le cose, come compromissione. E mi sono chiesto che connessione c'e' tra analisi e passione, che passione c'e' nelle nostre analisi, in altre parole in che rapporto entriamo con le cose attraverso le nostre analisi. E' da questo sentire, che e' anche un punto di vista, che mi appaiono poco convincenti i nostri discorsi, quelli che abbiamo fatto o letto sui giornali e sulle riviste della sinistra, non perche' non concordi nel merito delle singole analisi: sono solide e diciamo che possiamo differenziarci solo per piccoli scarti. Non e' questo il punto: io non parlo delle analisi, ma delle rappresentazioni. Le rappresentazioni non sono solo immagini della realta', sono anche un modo con il quale parliamo di noi stessi. Attraverso le rappresentazioni noi ci collochiamo nelle cose, diciamo qualcosa di noi. Entriamo in relazione e diciamo chi siamo e cosa vogliamo. Parliamo delle nostre passioni, diciamo - e ci diciamo - cosa abbiamo dentro, che cosa abbiamo alle spalle, che idea del futuro abbiamo, anzi che idea del futuro siamo. Le analisi invece stanno lontane da noi, dai nostri corpi e dal nostro sentire, ne prescindono. Sembrano stare gia' nelle cose ben oltre la relazione che abbiamo con esse. Le analisi ci sono, vecchie o nuove, convincenti o meno. Quello che manca, qui a sinistra, e' un discorso su di noi. Credo sia utile capire, nel momento in cui parliamo della guerra nei Balcani (cosi' come abbiamo parlato altre volte di guerra o parliamo di tante altre cose nel nostro fare politica), come ci rappresentiamo e stiamo nella realta', cosa diciamo di noi stessi. E' da qui, da questo che e' un interrogativo, che noi possiamo ragionare sui nessi che ci sono tra ordine politico, ordine sessuato, sessualita' maschile. * Torno ancora a Pasquale Voza, che nel suo intervento riprendeva in termini critici quella grande tradizione della soggettivita' moderna che ha posto individui atomizzati e astratti a fronte di un universalismo altrettanto astratto, e che ha prodotto quei modelli di razionalita' che permettono oggi di parlare, assurdamente, di "guerra umanitaria" per giustificare il ritorno della guerra nella normale prassi della politica. E' questa tradizione, che oggi critichiamo e sentiamo stretta per la nostra soggettivita', che ci permette di parlare di cittadini, individui, proprietari, contratto sociale, pubblico e privato, costituzioni, rappresentanza. Bene, io non credo che noi ci collochiamo in maniera asimmetrica rispetto a essa, non ci mettiamo a distanza da questa tradizione, da questa idea della politica e delle soggettivita', nel momento in cui rappresentiamo la realta' fingendo che ci sia o possa esserci distanza e una non passione, una non compromissione con le cose, una non contiguita' tra il soggetto che parla, noi, e l'oggetto che analizziamo, la guerra. Io sento che queste nostre analisi, in cui parliamo di globalizzazione, egemonie mondiali, economia di guerra e cosi' via, contengono dentro di se' una distanza che e' anche una finzione della rappresentazione: c'e' una realta' che sta la' e noi che stiamo qui, c'e' una realta' con cui possiamo confliggere ma senza esserne in qualche modo compromessi, che non ci interroga e non dice nulla di noi. Non ne facciamo parte fino in fondo. La denuncia e' un rito, sincero, con cui fingiamo la nostra estraneita': noi siamo da un'altra parte. Ci sono i soggetti e gli oggetti e non c'e' relazione tra le due cose. Io credo invece che se il discorso sulla guerra non coglie le connessione intime che ci sono tra i soggetti e la guerra di cui parlano allora non c'e' sinistra, non c'e' possibile ragionamento sulle cose. Non c'e' sinistra nel senso che non c'e' il soggetto che parla. Questo soggetto che finge di non esserci, d'essere estraneo alle cose di cui parla, ricorda non casualmente le forme della soggettivita' maschile. Dice Maria Luisa Boccia, una donna, che bisogna mettersi in relazione con l'evento a partire da se' e che fare questo e' un porsi in contraddizione con tutte quelle rappresentazioni che cancellano le diversita' e le differenze. Tra queste rappresentazioni ci sono certamente anche i discorsi maschile sul genere. E la guerra, a sua volta, interviene anche sul terreno della diversita'. Perche' e in che senso, allora, la guerra ci riguarda, e ci riguardano i bombardamenti intelligenti, le pulizie e gli stupri etnici, le armi "umanitarie"? Non semplicemente perche' il nostro paese sia stato coinvolto in prima persona in questa guerra o perche' essa si sia svolta a poche decine di chilometri dalle nostre coste, ne' perche' ci sia un sentire in noi, civile ma astratto, che ci fa essere parte in causa d'ogni ingiustizia. Tantomeno, credo, perche' il nostro discorso politico, che denuncia le asimmetrie dei poteri mondiali e le forme, vecchie o nuove, d'imperialismo, parli di processi che, ovviamente, ci coinvolgono tutti. La guerra ci riguarda in maniera del tutto diversa, e secondo me meno semplicistica, se pensiamo a noi stessi come soggetti, se ci interroghiamo sulla soggettivita' come cosa non astratta, quindi anche sessuata. * Esiste un filo che lega la sessualita' maschile e la guerra? La sessualita' maschile e le pratiche del conflitto? La sessualita' maschile e le forme del potere? Queste sono le domande che mi voglio porre come uomo. Io credo che esista, indipendentemente dal mondo che potremmo immaginarci se esso fosse nelle mani delle donne come questo lo e' stato in quelle degli uomini, un mondo senza eserciti o guidato da donne invece che da uomini. Esiste ed e' un filo complesso, che va rintracciato nella storia del corpo maschile, nella storia delle rappresentazioni che questo corpo ha fatto a se stesso e di se stesso, nel modo in cui e' percepito e vissuto il rapporto tra corpi e potere, potenza, violenza. E' un filo complesso che ci chiede di avere della sessualita' un'idea ricca, che non riguarda esclusivamente i comportamenti sessuali e sessuati - utilizzando una parola che evoca gia' un orizzonte piu' ampio - ma che e' in relazione con l'organizzazione della realta', con il modo di pensare. Un filo in cui il corpo e' anche una metafora non innocente (si fa corpo, in altre parole si sta insieme; c'e' il corpo della societa', i corpi separati dello stato, l'esercito come corpo, il corpus delle leggi), che richiede di essere indagata nella sua materialita' e nella sua forza simbolica, ovvero guardando alla capacita' che l'idea di corpo ha di costruire societa', di regolare i legami sociali, di mediare tra le cose. Di cosa e' fatta dunque questa storia del maschile e del suo corpo? Lo dico a partire dalla mia esperienza, ovvero dal modo con cui insieme con altri uomini mi sono messo in relazione con la storia del mio genere: questa e' una storia d'impotenza e di rimozione del desiderio, una storia misera (uso apposta una parola forte, "rubata" all'esperienza delle donne e al pensiero della differenza sessuale). Misera non perche' il corpo maschile sia biologicamente misero e impotente, ma perche' cosi', contro le tante apparenze, gli uomini lo hanno storicamente e sottilmente rappresentato prima di tutto a se stessi: un corpo incapace di fare alcune cose, che puo' essere messo da parte, oltre il quale e' necessario andare. Un corpo che puo' essere portato in guerra e sacrificato, che lavora prescindendo dai propri tempi e bisogni, che finge di non esserci anche nella politica, che puo' farsi invisibile, che non sa o non puo' dare spazio pubblico a certe emozioni, che si pensa come soggetto astratto. Un corpo che viene abitato e che costringe a trovare identita' solo proiettandosi al suo esterno, in quella societa', in quei saperi, in quella politica, nel cui nome poi si parla e si agisce. Questa rappresentazione cela quanto il corpo maschile sia il risultato di stratificazioni storiche, di costruzioni sociali, di relazioni, e l'imprigiona in un'immagine tutta biologizzata, immanente: un corpo maschile che e' uno stato di natura, un corpo intrusivo, violento, in cui la potenza non puo' che esprimersi se non come aggressivita' e distruttivita'. Quell'homo homini lupus che non a caso la filosofia moderna ha posto a fondamento della societa' umana. Un corpo che e' dunque un ostacolo oltre il quale andare. Questa rappresentazione e' appunto una prigione, una trappola terrificante per il maschile stesso. Questa idea biologizzata del genere lascia infatti come unica alternativa cio' che abbiamo chiamato la civilta', la cultura, e inteso come addomesticamento degli istinti primordiali, come civilizzazione. Non c'e' dunque via d'uscita per il maschile, ma una perenne miseria in cui la vita sociale del corpo e' contenimento dell'istinto, imparare a non essere violenti, resistere alle tentazioni. Questo e' un modello culturale che il maschile usa come strumento di potere nelle relazioni di genere e che riafferma continuamente a se stesso con esercizi che non a caso ritroviamo anche nelle guerre, nelle istituzioni militari, nella costruzione delle gerarchie, nella politica. Secondo questo modello, e solo in apparente contraddizione con un'immagine biologizzata di se', "uomini non si nasce, si diventa", perche' l'identita' va continuamente accertata superando gli istinti e contemporaneamente riaffermando il loro carattere istitutivo. * Dobbiamo scavare molto profondo per trovare il nostro legame con la guerra. E li' troviamo il rapporto che il maschile ha con il generare, con il dare vita: il suo corpo non genera, e lo vive come uno scacco, una privazione. La storia del genere maschile e' anche un continuo tentativo di recuperare terreno rispetto a questo scacco, senza pero' saper trovare dentro di se' altre forme di ricchezza, altre capacita' relazionali, altri modi del generare la vita e il senso. Il rapporto tra la guerra e il generare non e' casuale: l'idea di guerra e' stata tante volte associata nella nostra cultura, anche a sinistra, con l'idea del generare, la guerra "levatrice". Di questo legame ci parlano gli stupri etnici dei Balcani, che sono una forma complessa di controllo sul corpo femminile, incapacita' di intervenire in altro modo su cio' che fonda il legame sociale, le relazioni che stanno intorno al generare. E' questo maschile che non sa fare i conti con il generare, che non sa darsi valore nel processo che produce la vita, che decide e poi va con il proprio corpo in guerra, a morire nelle trincee o a lanciare bombe dai cieli. E' lo stesso maschile che ha difficolta' di comunicazione emotiva, che e' costruito da generazioni d'uomini che hanno paura di toccarsi se non con pacche sulle spalle e pugni, che e' fatto di corpi che non sanno affidarsi l'uno all'altro, neanche nel rapporto tra padri e figli, e che per accedere ad altri ruoli non ha che la metafora del "femminilizzarsi", come se non potesse contare su una ricchezza e una diversita' propria e dovesse per forza attingere ad un'idea, biologizzata anch'essa, della donna. Ridurre la guerra a un gioco maschile e' troppo poco e io non sto dicendo questo. Il punto e' tutt'altro e non puo' prescindere dal prendere in considerazioni gli stati, le nazioni, le culture, le politiche, gli interessi. La sfida e' cogliere il legame e le tensioni che ci sono tra l'ordine sessuato e l'ordine politico. Proprio su questo terreno la sinistra e' in difficolta' e riproduce spesso, nelle sue analisi, una scissione dei ruoli che serve solo a rimuovere. Mettere insieme i due ordini, sessuato e politico, mette invece in evidenza le tensioni che ci sono nell'idea di politica moderna, e le fa esplodere: parlo dell'idea di cittadinanza, di stato, di democrazia, parlo dell'agire politico, delle forme del conflitto, del diritto, della produzione e del lavoro. * La soggettivita' moderna che si fonda come astratta e universale, proprietaria e borghese, e' la stessa che si finge neutra nel genere. E c'e' un rapporto tra la storia del maschile, come esso ha pensato e praticato la soggettivita' moderna, e le democrazie che nascono con le guerre religiose ed etniche (l'esercito di Cromwell nel Seicento inglese, i cittadini della Rivoluzione francese), le nazioni che si mobilitano sul legame di sangue e la cittadinanza che si costruisce andando sui campi di battaglia. C'e' perfino un legame evidente tra questa idea, che sembra avanzatissima, di guerra invisibile, defisicizzata, che non si vede, apparentemente senza corpi, e le strategie con cui il maschile rende invisibile, per affermarla, la propria soggettivita'. E ancor di piu' mi inquieta mettere in connessione la guerra che si trasforma in tecnica, a cui la politica demanda la soluzione dei conflitti che essa genera e non sa risolvere, la democrazia pensata come idea astratta, procedura che prescinde dai corpi, e infine la politica che diventa sempre piu' tecnica, amministrazione, gestione quotidiana. A cosa dobbiamo richiamarci nel parlare di questa guerra? Da una parte ci sono gli stati che hanno dato vita alle democrazie moderne, costruite sull'idea di cittadinanza e uguaglianza, che si mobilitano per un ideale universalistico e astratto, cioe' la difesa dei diritti umani, che pero' intervengono in un conflitto che definiscono "etnico" e per difendere una "etnia", riconoscendo dunque un legame che e' in contraddizione con i propri fondamenti. Dall'altra uno stato autoritario che si richiama all'idea di territorialita' e di cittadinanza, fondativa dello stato moderno e della democrazia, ma che lo fa per fare pulizia etnica. Questo apparente scambio di ruoli, o cortocircuito del moderno, ci dice quanto il problema della guerra sia per noi ora connesso con le forme piu' profonde del moderno e non e' dunque in un semplice richiamo a esse che troviamo la via d'uscita. La sinistra, che nasce dentro questa tradizione, rimuove con le connessioni anche se stessa. E non e' quindi in grado di affrontare il nesso che c'e', tra il fare guerra e il pensare la realta'. In questo sistema di cortocircuiti che fa paura la sinistra rimane immobile e senza strumenti, oscillando tra condanna rabbiosa e impotente e partecipazione passiva o complice agli eventi. Due modalita' che si risolvono in finzione, in esercizi di estraneita' e lontananza. Io ho imparato - proprio insieme ad altri uomini che avevano bisogno di mettere in discussione l'identita' di genere ereditata, perche' avevano con essa un rapporto difficile, critico, conflittuale, doloroso - che e' importante non avere paura della passione, delle connessioni profonde che ci legano alle cose, soprattutto a quelle che vorremmo tenere lontano. Che qui nascono nuovi spazi in cui dar vita al futuro. Noi partimmo dallo stupro, non solo quello etnico che viene praticato in guerra, ma quello quotidiano, che accade sotto i nostri occhi - lo stupro dei padri, degli amici, dei fratelli - per capire cosa dicesse dell'identita' e della storia del nostro genere. Lo stupro, come la guerra, non e' un oggetto su cui esercitare le proprie capacita' analitiche, ma un evento con cui entrare in rapporto a partire da un bisogna di liberta'. La guerra, come lo stupro, non richiede una "illuminata solidarieta'" ai corpi di chi subisce violenza, ma la messa in discussione di modelli storici, di connessioni profonde. La sinistra che parla della guerra e si mobilita contro di essa, ma dimentica di dire di se' e ha paura di vedere quanto queste guerre la riguardino profondamente, ricorda tanti uomini "illuminati" per cui lo stupro e' solo l'opera di un mostro, ricorda gli uomini della medicina che fingono di non avere un corpo quando agiscono sui corpi altrui, ricorda gli uomini del diritto che credono di esercitare in nome di una astrazione e vogliono regolare con l'astrazione ogni forma di relazione, come fanno anche gli uomini della politica usando l'idea di rappresentanza e quelli di scienza quella di neutralita'. * La soggettivita' sessuata e' un grande scandalo del moderno, scandalo nel senso originario della parola, un ostacolo. Sono i corpi che non si possono cancellare. Una visibilita' che il maschile ha cercato di rimuovere ma che continua a confliggere, a fare tensione. Questo conflitto e' un'opportunita' grande, un'opportunita' politica, non solo privata. Che anzi fa esplodere il modo in cui ci rappresentiamo il pubblico e il privato, il sessuato e il politico. Far vivere questo conflitto nelle analisi vuol dire anche viverlo dentro di se'. Quando evochiamo solo i grandi processi, cos' forti e potenti, cosi' non nostri, e noi cosi' deboli e impotenti, stiamo invece sottraendoci lo spazio per questo conflitto, lo spazio per stare, dirci, esserci. Non c'e' piu' possibilita' di entrare in relazione con le cose. Perche' il conflitto diventa tutto esterno, fuori di noi: e' la rivoluzione passiva che invocavano alcuni interventi. Io invece credo che il luogo del conflitto c'e' e sta anche dentro di noi, dentro i singoli soggetti, nelle relazioni della sinistra, nel modo in cui si e' sinistra, si fa sinistra, si fa politica, nella forma che si da alle cose. Qui lo spazio c'e', qui non possiamo nasconderci dietro un avversario potente e immenso contro il quale non c'e' nulla da fare se non attrezzarsi a resistere. Non vedo futuro nel resistere: noi dobbiamo anche imparare a cambiare noi stessi. Nei momenti di crisi cambiano le forme delle cose e il rapporto che si ha con esse. Per costrizione o per scelta. La contiguita' che sento tra alcune cose - la mia identita' maschile, la guerra e la crisi della sinistra - mi permette di guardare senza impotenza all'impasse di culture, di pensieri e di pratiche che sono state dominate proprio dal maschile. Posso usare cio' che serve e abbandonare il resto. Il partire da se', un se' che la sinistra maschile proprio non vuole pronunciare, non e' una fuga nel soggettivismo, nel privato. No, perche' e' questo se' che ha fondato il moderno, definito il pubblico e il privato, deciso le forme del conflitto. Questo e' un lavoro politico e collettivo, che gli uomini, noi maschi per essere chiari, dobbiamo fare collettivamente, trasformando le nostre relazione a partire dal riconoscimento della differenza sessuale, di noi come soggetti sessuati, guardandoci negli occhi per capire cosa scegliamo che ci accomuni, cosa riconoscere della nostra storia di genere e che fratture ci sono invece necessarie. Per darci delle opportunita'. La storia della sinistra sara' fatta anche da queste scelte, e agli uomini che non capiscono, che pensano che partire da se', soggettivita' sessuata, differenza, sia "parlare arabo" io vorrei dire che su questo possono cominciare a riflettere, sul rapporto che potrebbe esserci tra questo "non capire" e la crisi. 3. MAESTRE. JULIA KRISTEVA: IL PERDONO [Da Julia Kristeva, Sole nero, Feltrinelli, Milano 1988, 1989, p. 175. Julia Kristeva e' nata a Sofia in Bulgaria nel 1941, si trasferisce a Parigi nel 1965; studi di linguistica con Benveniste; intensa collaborazione con Sollers e la rivista "Tel Quel"; impegnata nel movimento delle donne, psicoanalista, ha dedicato una particolare attenzione alla pratica della scrittura ed alla figura della madre; e' docente all'Universita' di Paris VII. Opere di Julia Kristeva: tra quelle tradotte in italiano: Semeiotike', Feltrinelli, Milano; Donne cinesi, Feltrinelli, Milano; La rivoluzione del linguaggio poetico, Marsilio, Venezia; I samurai, Einaudi, Torino; Stranieri a se stessi, Feltrinelli, Milano. In francese: presso Seuil: Semeiotike', 1969, 1978; La revolution du langage poetique, 1974, 1985; (AA. VV.), La traversee des signes, 1975; Polylogue, 1977; (AA. VV.), Folle verite', 1979; Pouvoirs de l'horreur, 1980, 1983; Le langage, cet inconnu, 1969, 1981; presso Fayard: Etrangers a nous-memes, 1988; Les samourais, 1990; Le vieil homme et les loups, 1991; Les nouvelles maladies de l'ame, 1993; Possessions, 1996; Sens et non-sens de la revolte, 1996; La revolte intime, 1997; presso Gallimard, Soleil noir, 1987; Le temps sensible, 1994; presso Denoel: Histoires d'amour, 1983; presso Mouton, Le texte du roman, 1970; presso le Editions des femmes, Des Chinoises, 1974; presso Hachette: Au commencement etait l'amour, 1985] Il perdono e' la fase luminosa dell'oscura atemporalita' inconscia: la fase in cui quest'ultima cambia legge e adotta l'attaccamento all'amore come un principio di rinnovamento dell'altro e di se'. 4. RIFLESSIONE. MARIO FERRARI: IL PENSIERO E L'OPERA DI MARY DALY [Questo articolo abbiamo tratto dal quotidiano "Il manifesto" del 15 dicembre 2002] Il pensiero e l'opera di Mary Daly sono note al pubblico italiano grazie alla traduzione delle prime due opere La Chiesa e il secondo sesso (uscita nel '68 e pubblicata in Italia nell'82 dalla Rizzoli nella traduzione di Liliana Lanzarini) e Al di la' di Dio Padre. Verso una filosofia della liberazione della donna (uscita nel '73 e pubblicata in Italia dagli Editori Riuniti nel '91 nella traduzione di Donatella Maisano e Maureen Lister). Ovviamente, in Italia, la conoscenza piu' accurata di Daly ci perviene soprattutto da questi due testi, ma non va dimenticato che il suo percorso filosofico ha goduto ulteriori sviluppi con Gyn/Ecology (1978), Pure Lust (1984), Outercorse (1992) e Quintessence (1998). Al di la' di Dio Padre resta comunque l'opera centrale che segna la svolta decisiva di Mary Daly. In questo testo la sua ricerca teologica si svolge definitivamente ai margini del pensiero tradizionale e guadagna una posizione del tutto singolare in relazione al modo di pensare/partecipare la trascendenza. Se La Chiesa e il secondo sesso ha tentato di aprire, all'interno alla chiesa, un confronto schietto e leale sulla condizione di oppressione delle donne, Al di la' di Dio Padre si esprime con una forza ancora piu' dirompente e affronta di petto ogni resistenza e tentativo di oscurare o non vedere il problema del sessismo, mostrando in maniera sempre piu' radicale l'oppressione delle donne come condizione mediata dal pensare e dall'agire dei maschi. Cio' che colpisce nella scrittura di Mary Daly e' la sua liberta' e capacita' di coinvolgere la lettrice o il lettore con uno stile vivace e agile entrando immediatamente nel vivo delle questioni. Il ragionamento e' accompagnato da immagini ed esemplificazioni che rendono il testo piu' semplice e comprensibile. Tuttavia, qualora a fruirne sia un lettore maschio, impatta brutalmente in un testo altrettanto duro che lo mette a confronto con l'imbarazzante e continuo riferimento alla capacita' oppressiva del patriarcato e lo vincola a un'insolita sensazione di inadeguatezza di fronte al significato piu' profondo del testo. Le difficolta' di comprensione non sono certo di natura logica o concettuale ma, come dice Mary Daly, sono di ordine ontologico. Il modo, cioe', con cui gli uomini e le donne fanno esperienza di se' e della realta' comporta una sostanziale differenza, legata al semplice fatto che, ad esempio, un maschio non sa e non puo' sapere cosa significhi vivere come donna, per di piu' in un contesto sociale sessista. Pertanto, le donne che parlano ed esprimono se stesse in una condizione liberata dal giogo vincolante e opprimente del patriarcato si scambiano e dicono parole autentiche e nuove il cui contenuto non e' piu' riducibile a quello inteso dai maschi. Un lettore, allora, puo' confessare a se stesso la propria inadeguatezza nell'affrontare un testo femminista con un approccio tipicamente e riduttivamente razionale o mentale, puo' arrendersi alla pretesa di ricondurre il testo dalyano ai canoni del pensiero tradizionale svuotandolo in tal modo di ogni originalita', ma puo' anche accettare il rischio di contare sulla mediazione di donne che, sentendosi invece immediatamente interpretate dalla sensibilita' e dalle vedute di Daly, lo accompagnano e lo introducono a una comprensione piu' empatica e vitale del testo. Una volta superato questo elemento di empasse, che permette di vivere sulla propria pelle il senso della parzialita' dell'esperienza maschile, qual e' l'apporto piu' originale e rivoluzionario che si puo' scoprire nelle pagine di Mary Daly? Sicuramente e' il modo nuovo di comprendere l'esperienza trascendente e di prenderne parte. In un primo momento, il pensiero di Daly mette profondamente in discussione la sicurezza consolidata mediante la dottrina e le teologie cristiane. Queste sono, infatti, formulate all'interno di un contesto linguistico e simbolico monopolizzato dagli uomini e per questo motivo e' molto probabile che "se Dio e' maschio allora il maschio e' Dio". Il fatto piu' inquietante e' quindi l'imprigionamento totale dell'esperienza umana dentro i confini del pensiero maschile che, per sua natura, secondo Daly, e' un pensiero sessista e porta in se' la matrice violenta dell'originario rapporto oppressivo degli uomini nei confronti delle donne, proiettandola in tutti i campi del pensare e dell'agire. Chiaramente anche Dio e' prigioniero del sistema nel quale e' inscritto e non puo' che risultare ad esso funzionale. Percio' la posta in gioco chiede l'accettazione di rinunciare a tutto cio' che di Dio e' stato detto, a cominciare dalla Bibbia stessa. Da qui in avanti l'esperienza trascendente va riscritta ma non piu' codificata. In che maniera? Vivendo e coinvolgendosi nel movimento dinamico e appassionante della vita stessa. Cosi', tolto il riferimento assoluto a un Dio oggettificato e ipostatizzato dalle dottrine maschili, le donne e gli uomini si ritrovano finalmente in un processo di liberazione in cui non devono piu' fare i conti con la resistenza autoritaria e alienante di Dio o di chi sostiene di parlare in nome Suo, ma possono prendere parte al divenire della realta' che si disvela come infinita novita' e ricchezza di possibilita' praticabili. Le parole stesse di Mary Daly, tratte da una delle sue pagine piu' intense, esprimono con forza l'intuizione profonda del suo pensiero: "Perche' 'Dio' deve proprio essere un sostantivo? Perche' non un verbo, il piu' attivo e dinamico dei verbi? Dare per nome a 'Dio' un sostantivo non e' stato un assassinio di quel dinamico Verbo? E non e' il Verbo infinitamente piu' personale di un semplice, statico, sostantivo? (...) Questo Verbo - il Verbo dei Verbi - e' intransitivo. Non deve essere concepito come avente un oggetto che ne limiti il dinamismo. E' il contrario del non essere". Questo nuovo punto di vista provoca una specie di disordine mentale rispetto agli insegnamenti appresi dalla tradizione, ribaltando anzitutto il senso di assolutezza implicato nelle categorie e nel linguaggio teologico. D'altronde, chi accetta il rischio di rinunciare alla costruzione rassicurante, ben definita, organica e sistematica di ogni dottrina, si ritrova di fronte a un vuoto di contenuti che, nello stesso tempo, si disvela come un pieno di potenzialita' e possibilita' da vivere. Partecipare del Divenire significa coinvolgersi con il movimento stesso della vita e sentire che la vita e' gravida di infinite potenzialita' che permettono di sprigionare la creativita', vitalita', capacita' di vivere il proprio esserci in maniera contestuale nel qui e ora. A conti fatti una situazione simile non trova adeguati riferimenti nell'immaginario umano perche' ogni tentativo di configurare e definire un'esperienza difficilmente si sottrae al rischio di inaugurare nuovi stereotipi o modelli di vita. In effetti, il discorso di Daly si fa interessante proprio per questo. La rinuncia a tutto cio' che e' gia' dato e normato, fa provare la fatica di cosa significa essere liberi coinvolgendosi nel movimento stesso della vita, non piu' sulla scorta di ruoli o di regole prescritte, ma sulla spinta della passione, del piacere, del godimento e del sentirsi vivi. Con Mary Daly non ha piu' senso oggettificare la trascendenza e diagnosticare se il suo pensiero si collochi sul versante della immanenza o meno. Nelle parole di Daly si coglie un qualcosa di veramente nuovo in ordine alla trascendenza perche' suo unico contenuto diventa il valore attuale e contestuale della vita nella sua interezza. Nell'ambito di discussioni con amici e amiche, ricordo che questo modo originale di concepire la trascendenza ha provocato spesso un irresistibile fascino in chi sente il sapore di un nuovo respiro e liberta', ma ha suscitato anche aspre resistenze in chi, credo, ne prova paura e ne contesta il carattere eccessivamente utopico e improponibile. Cio' che spiazza, evidentemente, e' la prospettiva di stare all'interno dei diversi contesti di vita partecipando al loro svolgimento dinamico senza poter contare su punti di riferimento ampiamente prevedibili. E' l'esperienza di cio' che Daly indica come il rimettersi al centro della propria vita, rinunciando all'apparato concettuale e normativo che, nel contesto patriarcale, condiziona e controlla lo svolgimento della vita. E' l'esperienza di sentirsi restituiti alla propria possibilita' di vivere. Nel caso degli uomini, ad esempio, ci sono numerosi riferimenti all'esperienza politica, sociale, ecclesiale, individuale, che fanno pensare a un agire molto prevedibile che trova perfetta corrispondenza in una sorta di stereotipi ripetitivi. La stessa Daly riporta esempi particolarmente efficaci di uomini che, in nome di sacrosanti valori quali la vita e la liberta', ripetutamente mettono in moto la macchina della guerra, non senza estorcere, magari, una benedizione da parte della chiesa. Il tutto si e' ripetuto e si ripete infinite volte nella storia, senza che alcuno interrompa questa maledetta e monotona violenza con la forza di un agire che si confronta con la storia e con i singoli contesti. La Chiesa stessa vincola ripetutamente l'espressione e la comprensione della fede a precisi modelli e canoni di riferimento, senza trovare parole nuove che producano liberazione e salvezza scaturendo da un coinvolgimento autentico con la storia. Anche nelle relazioni individuali si registrano molti casi di uomini che non sanno giocarsi sul terreno della novita' e cercano soccorso in tutto cio' che e' gia' stato collaudato. E' precisamente guardando a queste nuove prospettive che Daly libera la comprensione del divino da ogni costrizione e riduzione definitoria riorientando lo sguardo delle donne e degli uomini alla ricchezza del Divenire e delle potenzialita' praticabili nella propria esistenza al di la' di ogni codificazione, dottrina, norma e regola. E' la rivelazione di un'eccedenza di possibilita' e di potenzialita' finora rimaste sommerse. 5. MAESTRE. CLARA LEVI COEN: LA SCHIERA DEI "SOMMERSI" [Da Clara Levi Coen, "Come le donne ebree vedono Primo Levi", in AA. VV., Primo Levi: la dignita' dell'uomo, Cittadella, Assisi 1995, p. 16. Clara Levi Coen, illustre pensatrice, membro della Societa' Filosofica Italiana, insigne studiosa dell'opera di Martin Buber (col quale ebbe anche una lunga amicizia); tra le sue opere: Martin Buber, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole (Fi) 1991] Ma innumerevole e' la schiera dei "sommersi". Essi fanno parte dell'esercito dei "morti invano" ed essi cantano, in una poesia di Primo Levi: "Siamo invincibili perche' siamo i vinti, / invulnerabili perche' gia' spenti". Essi, insieme con i morti di tutte le guerre e di tutte le stragi, essi i "morti invano" hanno una loro inalienabile dignita', donata loro dalla sofferenza e dalla morte. 6. RIFLESSIONE. EMANUEL ANSELMI: LA RAZIONALITA' ECONOMICA DELLE SOCIETA' TRADIZIONALI [Ringraziamo Emanuel Anselmi (per contatti: anselmie at libero.it) per questo intervento. Emanuel Anselmi e' un collaboratore del Centro di ricerca per la pace di Viterbo; dottore in economia, gia' obiettore di coscienza in servizio civile presso la Caritas] Al di la' delle convinzioni dell'opinione pubblica, spesso poco informata e disinteressata, che considera il problema della poverta' dei paesi in via di sviluppo come una distrazione della storia, "colpevole" di aver determinato lo sviluppo economico solamente in una esigua parte del panorama geopolitico mondiale, lasciando - per un suo imperscrutabile disegno - ad un miserabile destino la maggior parte di esso; o, peggio ancora, si vanta di una supposta superiorita' intellettuale e culturale, rispetto alle popolazioni vittime delle piaghe della malnutrizione e della degenerazione dell'ambiente naturale, che avrebbe permesso all'Occidente di raggiungere e mantenere un elevato livello di consumi e di benessere materiale, atteggiamento questo che coerentemente sfocia nell'aperto razzismo; il modo di pensare della maggior parte degli economisti che si potrebbero definire "ortodossi" e' comunque quello di far derivare le personali proposte per la soluzione di siffatto problema da alcuni preconcetti che mi permetto di paragonare a quelle sensazioni appena descritte riguardanti il senso comune. Una larga frangia di studiosi contemporanei, ad esempio, attribuisce la causa della poverta' dei paesi del sud del mondo alla pressione demografica: lo stato di cronica denutrizione e di conseguente impoverimento ambientale sarebbe dunque determinato dall'ostinazione di talune popolazioni alla procreazione. Come superare pero' l'imbarazzo che deriva dall'obiezione secondo cui la principale attivita' di quei paesi consiste nell'esportazione di materie prime e prodotti agricoli - la logica vorrebbe che, se vengono esportati, significa che ne esiste un eccesso rispetto al fabbisogno interno -, ebbene gli odierni esponenti del neomalthusianesimo questo non ce lo spiegano. Naturalmente non voglio con questo negare il dramma del progressivo aumento della popolazione su scala mondiale: esso va ad aggravare una situazione di per se' molto complessa, ma non e' che una conseguenza. L'insufficiente comprensione, da parte occidentale, del problema del sottosviluppo deriva direttamente dall'insistenza con la quale le "teste d'uovo" continuano a considerare i fatti secondo l'ottica ed i parametri di valutazione che sono il frutto dello stesso fatto di vivere in paesi capitalisticamente avanzati, un angolo visuale che li induce ad esportare ricette inopportune e sorpassate - poiche' storicamente e geograficamente codificate altrove - in contesti del tutto estranei. E' chiaro che per una famiglia dell'Africa subsahariana un altro figlio significa una persona in piu' che grava sul bilancio familiare, ma quando questo avra' una sufficiente eta' (generalmente molto bassa, viste e considerate le necessita') potra' contribuire alla sussistenza della propria famiglia o comunita', svolgendo lavori che col tempo - e con la sua crescita - diventeranno sempre piu' complessi e faticosi, costituendo una forma di assicurazione per la vecchiaia dei suoi avi. I figli dunque rappresentano una necessita' economica, l'unica ricchezza di cui si dispone (1). * L'incomprensione nei confronti delle cause reali della poverta' nelle formazioni periferiche dell'economica mondiale ha condotto poi alcuni portabandiera della saggezza occidentale a sostenere che una situazione di tale gravita' e' dovuta ad una cultura insufficiente, caratterizzata dall'ignoranza di scienze quali la biologia, dall'assenza delle attivita' di intrattenimento tipiche del modello economico di crescita capitalistica (la televisione, ad esempio), percio' al povero indigeno non resta che darsi alla procreazione, come sola arma per vincere una situazione al limite della sopportazione. Di conseguenza il controllo demografico rimane l'unica soluzione al problema della fame, e la contraccezione (tra i cui metodi, la sterilizzazione appare quello piu' efficace) e' il sistema da applicare, sapientemente condotto con la regia dei rappresentanti dei paesi ricchi. L'ingerenza dei Paesi economicamente avanzati nelle ricette di politica economica applicate ai Paesi emergenti si mostra in tutta la sua portata con i connotati dell'identita' modello di sviluppo=capitalismo, attraverso il quale da un lato vengono omologate le numerose differenze, rintracciabili nelle realta' del Sud del mondo, nell'unica categoria del sottosviluppo, mentre dall'altro si individua una sola e fondamentale traiettoria percorribile in termini di sviluppo economico-sociale lungo la quale, per ciascuna comunita' nazionale, e' doveroso muoversi se l'obiettivo e' il raggiungimento del benessere misurato in termini di Prodotto Interno Lordo, sottintendendo che il livello di civilizzazione di un paese dipende dal proprio livello di produzione e che una maggiore attenzione alla protezione del proprio patrimonio ambientale passa necessariamente per un aumento del reddito pro-capite tale da spostare l'attenzione dei "consumatori" da valori materiali a valori post-materiali o "verdi", quali il desiderio di avere citta' e campagne piu' pulite e belle o la consapevolezza del destino al quale vengono abbandonati i rifiuti che derivano dai processi produttivi e di consumo (2): e' evidente che alcuni paesi si muoveranno piu' in fretta, altri piu' lentamente, ma tutti nella medesima direzione, dando vita ad una competizione in cui non vi e' spazio per cultura e valori tradizionali e in cui ciascun popolo si vede impegnato nel compito storico di partecipare alla gara dello sviluppo (3). Cosi' i tecnocrati occidentali decidono che i vecchi sistemi di vita sociale delle popolazioni precapitalistiche sono ostacoli allo sviluppo: ideali ed abitudini, modelli lavorativi e di apprendimento, reti di solidarieta' e regole di governo tipiche delle societa' tradizionali costituiscono dei "freni al progresso". * In questo scenario il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale rappresentano le istituzioni che hanno il compito di tirare i paesi sottosviluppati all'interno dell'arena competitiva del mercato internazionale, attraverso gli strumenti della concessione di credito prima e dei piani di aggiustamento strutturale poi: e se il primo rimedio si risolve nell'innesco di quel circolo vizioso della poverta' secondo il quale la maggior parte delle risorse trasferite a titolo di prestito vengono immediatamente consumate dal paese beneficiario - per effetto dell'atavico bisogno di mezzi di sussistenza -, facendo di conseguenza aumentare il debito contratto (grazie agli interessi che si sommano al capitale prestato), i secondi si occupano dello smantellamento degli apparati di intervento dello Stato in campo economico, che consistevano in sussidi ai produttori di beni di consumo di prima necessita', protezione fiscale e doganale ad imprese locali inefficienti, occupazione improduttiva nella Pubblica Amministrazione, sanita', istruzione, trasporti pubblici... Tali misure mirano ad una diminuzione della domanda interna, un trasferimento di risorse economiche e finanziarie in favore del settore agricolo ed industriale le cui produzioni sono rivolte all'esportazione, una riduzione del deficit e del debito estero, al fine di dare una maggiore credibilita' finanziaria ai paesi interessati, cosi' da stimolare l'afflusso di investimenti esteri (4). Il risultato effettivo invece e' un approfondimento del divario tra le classi sociali, a tutto vantaggio delle elites di privati legati agli scambi internazionali, mentre i percettori dei redditi fissi, gli agricoltori tradizionali ed i disoccupati subiscono un ulteriore processo di immiserimento, determinando una logica di profitto di breve periodo a completo detrimento della tutela ambientale (5). Che si tratti delle conseguenze della razionalita' economica sottesa a tali misure, a questo punto pare dubbio: l'insistenza nel voler modellare il take off dei paesi economicamente arretrati su quello dei paesi avanzati ha dimostrato di non essere in grado di provocare un processo di sviluppo autosostenuto. La teoria dello spostamento di interesse, da parte del pubblico, dal consumo di beni fisici al godimento di quelli estetici e spirituali, che sarebbe avvenuto, secondo la tesi sociologica accolta dall'economia ortodossa, a seguito dell'aumento del reddito, puo' essere ritenuta valida nella realta' sociale occidentale, poiche' avvalorata dall'ideologia consumistica e dalla retorica pubblicitaria, ma non ha alcun senso pretendere che sia valida per le societa' tradizionali. Ben piu' razionali sembrano percio' i sistemi di agricoltura ed artigianato ritenuti arcaici, ritrovabili presso diverse comunita' del sud del mondo, che rispettano certi delicati equilibri ecologici, i quali non possono non essere inclusi nelle valutazioni sulla fattibilita' e sulla convenienza economica di qualsiasi progetto, e ritenuti come ulteriori principi alla base dell'economia politica. E' possibile in tal caso parlare di "ambientalismo dei poveri": con tale espressione si e' soliti individuare tutti quei movimenti di base che nascono direttamente dalla montagne, dalle foreste, dai campi e dalle spiagge dei Paesi emergenti, che rivendicano, assieme ai diritti civili e ad una piu' equa distribuzione delle risorse, una maggiore protezione dell'ambiente. Se si tiene conto che la scienza economica, attualmente, deve essere considerata come la scienza che ha il compito di mantenere la specie umana in esistenza il piu' a lungo possibile - fuori quindi dall'atteggiamento predatorio sotteso alla vecchia logica dell'efficienza nella combinazione di date risorse, che una volta si considerano scarse ed un'altra volta illimitate, a seconda di che cosa si vuole dimostrare e dei soggetti che si vuole avvantaggiare -, bisogna tenere in debito conto che e' la biosfera nella sua interezza ad essere coinvolta negli svariati processi economici e che la visione sistemica della vita, proposta dal Nobel Ilya Prigogine, non e' una astratta dissertazione filosofica, ma un concreto e verificabile principio della fisica. * Se quanto precede e' vero, quindi, pare che la razionalita' economica debba dar ragione a movimenti quali quello guidato da Chico Mendes in America Latina o quello rappresentato dalle Chipko, le contadine indiane del Garwhal, Himalaya, movimenti che per l'appunto si sono posti l'obiettivo di un modello economico attento alle esigenze fondamentali delle popolazioni locali interessate e dell'ambiente circostante. Per quel che riguarda le vicende delle Chipko, e' possibile darne una descrizione sommaria. Fin dal 1960, alcuni lavoratori edili avevano creato, in quei luoghi, una cooperativa operaia ed ottenuto alcuni permessi per il taglio della foresta, al fine di fabbricare attrezzi agricoli. Ma alcuni imprenditori forestali molto facoltosi, dopo essersi guadagnati i favori delle autorita', riuscirono a mettere gli edili fuori gioco e ad ottenere nel 1971, dallo stesso servizio forestale che impediva alla cooperativa di tagliare dieci frassini per i propri aratri, il permesso di abbatterne trecento per ricavarne racchette da tennis. I contadini locali, che in un primo momento, dopo essersi coalizzati, riuscirono ad impedire il taglio, videro che dopo poco tempo il servizio forestale aggiudico' ad un'altra societa' duemilacinquecento alberi della foresta di Reni; la comunita' tradizionale ben ricordava come il disboscamento le aveva fatto perdere casa, raccolto e bestiame, travolti dalle inondazioni del fiume Alaknanda, e le donne del luogo, nonostante le minacce dei fucili spianati dai boscaioli, dimostrarono la loro opposizione assoluta abbracciando gli alberi che volevano abbattere (chipko significa "abbraccio"), ed i boscaioli desistettero (6). * L'episodio dimostra che nella maggior parte dei casi la responsabilita' dell'indiscriminato sfruttamento dell'ambiente e' ascrivibile agli interessi di ristretti gruppi finanziari, e non alla poverta' di popolazioni costrette, in virtu' del loro interesse alla sopravvivenza, a comportamenti non eco-compatibili. Le contadine indiane del Garwhal si sono dimostrate sin troppo razionali nel difendere quanto esse ritenevano stesse alla base della propria sopravvivenza e dei loro costumi sociali ed economici: il patrimonio forestale della regione costituisce un ecosistema al quale la popolazione locale si ritiene giustamente attaccata, secondo un'ottica di appartenenza reciproca tra essa ed il proprio ambiente che si riflette da secoli nella peculiarita' delle filosofie orientali, profondamente naturaliste e dunque cosi' distanti dalla "cultura occidentale", che al contrario sancisce il primato dell'uomo sull'ambiente ed e' percio' intrisa del suo carattere manifestamente accaparratore nei confronti della natura stessa, vista come un oggetto da conquistare e modificare a proprio piacimento (7). * Note Il presente articolo costituisce un adattamento di una parte del lavoro da me compiuto in occasione della tesi di laurea in economia su Commercio internazionale e sviluppo sostenibile, Universita' degli Studi della Tuscia, Viterbo 1999. 1. George S., Come muore l'altra meta' del mondo, Feltrinelli, Milano 1978. 2. Inglehart R., The silent revolution: changing values and political styles among western publics, Princeton University Press, 1977. 3. Sachs W., Le ombre dello sviluppo sull'ecologia, in "Capitalismo Natura Socialismo", n. 7, marzo 1993. 4. Querini G., La politica ambientale dell'Unione Europea, Kappa, Roma 1996. 5. Mazoyer M. e Roudart L., I contadini del Sud soffocati dal libero scambio, in "Le Monde Diplomatique" edizione italiana, ottobre 1997. 6. Dumont R., Un mondo intollerabile, Eleuthera, Milano 1990; Shiva V., Monocolture della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1995. 7. Masullo A., Umanesimo e tecnica, seminario, Scuola estiva di alta formazione in collaborazione con l'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Terni 2002. 7. RIFLESSIONE. VANDANA SHIVA: LA RISCOPERTA DEL PRINCIPIO FEMMINILE [Da Vandana Shiva, Terra madre, Utet, Torino 2002, p. 58. Vandana Shiva, scienziata e filosofa indiana, direttrice di importanti istituti di ricerca e docente nelle istituzioni universitarie delle Nazioni Unite, impegnata non solo come studiosa ma anche come militante nella difesa dell'ambiente e delle culture native, e' oggi tra i principali punti di riferimento dei movimenti ecologisti, femministi, di liberazione dei popoli, di opposizione a modelli di sviluppo oppressivi e distruttivi, e di denuncia di operazioni e programmi scientifico-industriali dagli esiti pericolosissimi. Opere di Vandana Shiva: Sopravvivere allo sviluppo, Isedi, Torino 1990; Monocolture della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1995; Biopirateria, Cuen, Napoli 1999, 2001; Vacche sacre e mucche pazze, DeriveApprodi, Roma 2001; Terra madre, Utet, Torino 2002 (edizione riveduta di Sopravvivere allo sviluppo); Il mondo sotto brevetto, Feltrinelli, Milano 2002] La tragedia della violenza e della frammentazione non puo' continuare; la riscoperta del principio femminile e' quindi essenziale, non solo per liberare la donna e la natura, bensi' per liberare tutti dalle categorie patriarcali riduzioniste che sono alla base del malsviluppo. Il potenziale rivoluzionario e liberatore insito nel recupero del principio femminile sta nella capacita' di quest'ultimo di sfidare concetti, categorie e processi che hanno causato la minaccia alla vita, fornendo categorie antagoniste che creino e allarghino gli spazi necessari alla conservazione e al rafforzamento della vita intera, nella natura e nella societa'. 8. ALBUM DELL'OTTOCENTO. ALCUNE PREFERENZE E AVVERSIONI DI JENNY MARX [Da Karl e Jenny Marx, Lettere d'amore e d'amicizia, Savelli, Roma 1979, p. 188. Sono le risposte - conservate nell'album di Laura Marx - date da Jenny Marx (crediamo sia Jenny von Westphalen, moglie di Marx, e non l'omonima loro figlia) ad una di quelle serie di domande fatte per gioco familiare e amitiale, nel 1869] La mia virtu' preferita: l'umanita' La qualita' che preferisco nell'uomo: il coraggio morale La qualita' che preferisco nella donna: la devozione Il vizio che scuso: la prodigalita' Il vizio che detesto: l'invidia La mia avversione: cavalieri, preti, soldati L'occupazione preferita: la lettura Personaggi storici per cui sento antipatia: Bonaparte e suo nipote Il poeta preferito: Shakespeare Il prosatore preferito: Cervantes Il musicista preferito: Haendel, Beethoven, Wagner Il colore preferito: il rosso La massima preferita: sii fedele a te stessa Il motto preferito: tutti per uno, uno per tutti 9. SEGNALAZIONI. UN RECENTE SAGGIO DI FRANCO RESTAINO SU "FEMMINISMO E FILOSOFIA" Segnaliamo nel fascicolo 3/2001 della "Rivista di storia della filosofia" (il trimestrale fondato da Mario Dal Pra, pubblicato dalla casa editrice Angeli di Milano) il saggio di Franco Restaino, "Femminismo e filosofia: contro, fuori o dentro?", alle pp. 477-494. Franco Restaino e' uno degli studiosi che con piu' attenzione da anni si e' disposto all'ascolto del pensiero delle donne; ha curato, insieme ad Adriana Cavarero, Le filosofie femministe (Paravia, Torino 1999), e sulle filosofe e teologhe femministe del Novecento ha scritto densi capitoli della monumentale Storia della filosofia fondata da Nicola Abbagnano (Utet, ed in edizione economica Tea). 10. SEGNALAZIONI. UNA VOCE DI DIZIONARIO DI BENEDETTO CALATI: "PAROLA DI DIO" Suggeriamo la rilettura della bella, profonda, preziosa voce "Parola di Dio" redatta da Benedetto Calati nel Nuovo dizionario di spiritualita' (a cura di Stefano De Fiores e Tullo Goffi), Edizioni Paoline, Roma 1979, alle pp. 1134-1151. Benedetto Calati, monaco, uomo di testimonianza e di pensiero, nacque a Pulsano (Taranto) nel 1914 , ed e' scomparso a Camaldoli (Arezzo) nel 2000. Tra le sue opere: Sapienza monastica (Saggi di storia, spiritualita' e problemi monastici), a cura di Alessandra Cislaghi e Giordano Remondi, Studia Anselmiana, pp. 591, Roma 1994; Esperienza di Dio, liberta' spirituale (Introduzione alla Regola di san Benedetto); appendice: Il mio sonno o le mie veglie, Servitium editrice, pp.116, Sotto il Monte (Bergamo) 2001; Conoscere il cuore di Dio (Omelie per l'anno liturgico), Edizioni Dehoniane, pp. 142, Bologna 2001; Il primato dell'amore (Diciotto anni a servizio dei fratelli); appendice: Benedetto Calati in dialogo con Thomas Merton, Ed. Camaldoli, pp. 63, Camaldoli (Arezzo) 2001. Un libro intervista e': Raffaele Luise, La visione di un monaco (Il futuro della fede e della chiesa nel colloquio con Benedetto Calati), Cittadella, pp. 95, Assisi 2000; su rivista: Intervista di Alessandra Cislaghi, E' di nuovo tempo di esilio e di profeti, "Jesus", gennaio 1994. Tra gli scritti su Benedetto Calati: Rossana Rossanda, Un monaco senza indulgenze, "il manifesto", 26 novembre 2000; Raniero La Valle, Benedetto Calati, la solitudine del monaco, "Esodo" n. 4, ottobre-dicembre 2001; Angelo Bertani, Lo sguardo della profezia, "Jesus", gennaio 2001; Maria Cristina Bartolomei, Dom Benedetto Calati. In memoria, in "Appunti di teologia", Venezia, anno XIV, n. 1, gennaio-marzo 2001; Enrico Peyretti, Benedetto Calati, monaco, "il foglio" n. 276, dicembre 2000; "Koinonia", n. 1, gennaio 2001; Giordano Remondi (a cura di), Nello stesso spirito (scritti di Guido Innocenzo Gargano, Lorenzo Saraceno, Pier Cesare Bori, Emanuele Bargellini, Giordano Remondi, Raniero La Valle), ed. Camaldoli, Camaldoli (Arezzo) 2001 (il contenuto del libro corrisponde a quello del fascicolo della rivista "Vita Monastica", anno LV, n. 218, luglio-settembre 2001); El P. Benedetto Calati, Un monjo benedicti' italia' fidel al Concili Vatica' II, "Questions de vida cristiana", Publicacions de l'Abadia de Montserrat, 199-200, Desembre 2000; Luigi Francesco Ruffato, Benedetto Calati, il profeta di Camaldoli, "Messaggero di sant'Antonio", n. 4/2002. 11. RILETTURE. ENRICA COLLOTTI PISCHEL: GANDHI E LA NONVIOLENZA Enrica Collotti Pischel, Gandhi e la nonviolenza, Editori Riuniti, Roma 1989, pp. 112. Un'agile presentazione. 12. RILETTURE. ALBERT SCHWEITZER: I GRANDI PENSATORI DELL'INDIA Albert Schweitzer, I grandi pensatori dell'India, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1983, pp. 176. Un grande uomo di pace all'ascolto della sapienza indiana. 13. GLI ALTI LAI DI ESTRIBILLO CARRASCO: PASSI FALSI E ALLOCCHI VERI A cosa servono i finti passi falsi? A gabbare gli allocchi veri. Il ministro della Difesa dichiara che l'Italia mette a disposizione della guerra all'Iraq spazi aerei e basi militari, ovvero proclama la partecipazione italiana alla guerra (ancora non dichiarata, ma gia' iniziata con i ripetuti intensificati bombardamenti angloamericani in attesa di una reazione dell'Iraq che possa poi essere utilizzata come casus belli, ed in mancanza di quella inventando qualcos'altro, ci pensera' poi la propaganda a farla digerire come scusa credibile). Dinanzi alle scandalose esternazioni del ministro della Difesa abbiamo protestato in molti, ed avendone ben donde. Il ministro con classica mossa berlusconiana dichiara allora: per carita', decidera' il parlamento. Si acquietano i signori allocchi, e il partito della guerra ha conseguito il risultato che si prefiggeva. Poiche' cosi' si e' spostato l'oggetto del discorso: dall'inammissibilita' della partecipazione italiana alla guerra, a chi decide questa inammissibile partecipazione, se governo o parlamento. Gioco delle tre carte come se ne incontravano un tempo nelle sagre paesane (ed oggi nelle televendite e al governo del paese). Sara' quindi necessario ribadire che l'Italia non puo' partecipare alla guerra perche' la sua legge fondamentale questa guerra esplcitamente "ripudia". E che ne' il governo ne' il parlamento sono autorizzati a decidere una partecipazione alla guerra che si va preparando poiche' essa partecipazione sarebbe incostituzionale, cioe' illegale e criminale; e se il governo e/o il parlamento decidessero di precipitare il nostro paese in guerra coloro che parteciperebbero a tale deliberazione dovrebbero risponderne come golpisti e stragisti dinanzi a una ordinaria corte di giustizia. Ed al ministro della Difesa vorremmo ricordare che c'e' un motivo per cui il suo dicastero si chiama della Difesa e non piu' della Guerra, come in regimi precedenti a quello fondato sulla Costituzione Repubblicana. 14. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 15. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: www.nonviolenti.org; per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it; angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: www.peacelink.it. Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 451 del 20 dicembre 2002
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