La nonviolenza e' in cammino. 400



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Numero 400 del 30 ottobre 2002

Sommario di questo numero:
1. Benito D'Ippolito, viaggiando in treno
2. Un appello per un 4 novembre di memoria e di pace
3. Umberto Allegretti, il diritto appartiene al popolo
4. Elena Buccoliero colloquia con Daniele Lugli sull'esperienza del primo
gruppo di azione nonviolenta
5. Assia Djebar, testimoni
6. Riletture: AA.. VV., Maria Zambrano. Pensatrice in esilio
7. Riletture: Anna Achmatova, Io sono la vostra voce...
8. Riletture: Raya Dunayevskaya, Filosofia e rivoluzione
9. Riletture: Nadine Gordimer, Un mondo di stranieri
10. Riletture: Raissa Maritain, Diario di Raissa
11. Riletture: Sofia Vanni Rovighi, Introduzione a Tommaso d'Aquino
12. Da tradurre: Vladimir Jankelevitch, La mort
13. La "Carta" del Movimento Nonviolento
14. Per saperne di piu'

1. IN LUOGO DI UN EDITORIALE. BENITO D'IPPOLITO: VIAGGIANDO IN TRENO
[Il nostro bisbetico amico Benito D'Ippolito, non avendo mai voluto posseder
un'automobile ne' prender la patente di guida, per le distanze superiori a
qualche chilometro s'affida di necessita' ai mezzi di trasporto pubblici, e
queste son le cose che gli capitano]

Un ragazzino in canottiera nera
e sulla canottiera una scritta
che non riesco a leggere, e una croce
celtica.

E' biondo, roseo, ha gli occhiali
lo sguardo da miope, gentili
i lineamenti del volto.

Lo guardo e mi chiedo se sa
che quella maglietta che indossa mi dice
che mi destinerebbe ai forni ancora.

Suadente la voce che risuona
dall'alto per tutto il vagone
(voce da commesso di grandi magazzini)
ci avverte della prossima fermata.

2. APPELLI. UN APPELLO PER UN 4 NOVEMBRE DI MEMORIA E DI PACE
[Il Centro di ricerca per la pace di Viterbo ha diffuso ieri il seguente
appello]
"Ogni vittima ha il volto di Abele" (Heinrich Boell).
Il "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo alcune settimane fa ha
formulato la proposta che il 4 novembre in tutta Italia si realizzino
cerimonie di commemorazione per le vittime di tutte le guerre da parte delle
istituzioni, delle associazioni e delle persone impegnate per la pace; la
legalita', la democrazia e la nonviolenza.
Cerimonie semplici e silenziose, austere e rispettose del sentire di tutti,
di rigoroso impegno al rispetto e alla promozione della dignita' umana di
tutti gli esseri umani.
Di solidarieta' con l'umanita' intera: contro la violenza e la morte; in
applicazione non solo del dettato della coscienza illuminata dalla ragione,
ma anche dei principi giuridici e morali espressi nella Carta delle Nazioni
Unite, nella Costiuzione della Repubblica Italiana, nella Dichiarazione
universale dei diritti umani.
E quindi di opposizione nitida ed intransigente all'uccidere, al terrorismo,
alle dittature, alla guerra e ai loro strumenti e apparati.
La proposta ha ottenuto gia' apprezzamenti e sostegni significativi;
confidiamo che altri apprezzamenti ed altre adesioni si aggiungano di qui a
quel giorno. Poi ogni istituzione, associazione, persona, trovera' secondo
la sua sensibilita' e il modo di agire ad essa conforme, come
appropriatamente manifestare in modo rigorosamente rispettoso di tutti,
sobrio, leale, democratico e nonviolento, il suo cordoglio per le vittime,
il suo amore per l'umanita' e il suo impegno contro tutte le violenze.
*
Il 4 novembre e' l'anniversario della conclusione per l'Italia della prima
guerra mondiale, l'orribile "inutile strage" che fu non solo ecatombe di
tanti innocenti, ma altresi' seminagione di nuovo odio e nuove crudelta' che
ebbero come esito dittature disumane e una seconda immane conflagrazione
mondiale.
Che il 4 novembre nel ricordo di tutte le vittime delle guerre sia anche
monito ed impegno contro le guerre presenti e future, contro tutte le
violenze e contro tutti gli strumenti e gli apparati di morte.
Questa data non deve piu' essere strumentalizzata dai comandi militari che
con il loro festeggiare se stessi e le macchine belliche - potere e apparato
inteso ad addestrare a uccidere, a preparare la guerra, ed in guerra ad
irrogare la morte ad altri esseri umani - offendono le vittime delle guerre
nel modo piu' tragico e osceno.
Questa data deve divenire giornata di lutto e di memoria, e di solenne
impegno affinche' mai piu' degli esseri umani perdano la vita a causa di
guerre, e quindi affinche' mai piu' si facciano guerre.
Il 4 novembre non si facciano sciocche esibizioni, gesti inappropriati,
strumentalizzazioni provocatorie. Da parte di nessuno. Si abbia rispetto per
la memoria delle vittime, si abbia rispetto per il lutto.
*
Il 4 novembre, in silenzio e dignita', le istituzioni democratiche, le
associazioni e i movimenti umanitari, le persone di volonta' buona, vadano a
meditare in silenzio e a deporre un fiore dinanzi alle lapidi che ricordano
coloro che furono assassinati, ne rimemorino i nomi e l'umanita', le vite
assurdamente orribilmente estinte, e ci si impegni tutti a contrastare le
guerre presenti e future.
E sia infine cancellata la vergogna della macabra festa degli apparati di
morte; si affermi il diritto alla vita per l'umanita' intera.
"Ogni vittima ha il volto di Abele" (Heinrich Boell).

3. RIFLESSIONE. UMBERTO ALLEGRETTI: IL DIRITTO APPARTIENE AL POPOLO
[Questo intervento di Umberto Allegretti, giurista illustre,
costituzionalista e docente universitario, abbiamo tratto dal quotidiano "Il
manifesto" del 29 ottobre 2002]
Concordo con Parlato sull'importanza del fatto che, per merito degli
interventi di Ingrao e della lucidamente argomentata, ma alla fine
restrittiva, posizione del Presidente della Camera, si e' riavviato il
dibattito sull'art. 11 della Costituzione e sul "ripudio" della guerra.
In Parlamento, e anche da parte dei parlamentari contrari all'intervento
contro l'Iraq, questo riferimento era stato sorprendentemente poco presente.
La lettura di Casini da' a questo principio fondamentale della Costituzione
un significato contraddittorio. Da un lato, egli ammette la serieta'
giuridica del ripudio della guerra non difensiva; dall'altro ne reintroduce
la possibilita', solo che l'evento bellico sia coperto dall'autorita'
dell'Onu. Cosi' la seconda parte dell'articolo, che esige dall'Italia il
promovimento della pace e della giustizia internazionali, e, in nome di
esse, la limitazione della propria sovranita', negherebbero la prima parte,
che contiene invece un imperativo assoluto e non derogabile.
Una tale lettura non e' purtroppo isolata. Un'analoga svalutazione della
condanna della guerra aleggia sul dibattito all'Onu e si puo' perfino
sospettare la presidenza francese di pensare: la guerra e' illegittima
finche' noi, votando in seno al Consiglio di Sicurezza, non vi consentiamo.
Ma l'intero ordinamento delle Nazioni Unite e' stato stabilito in funzione
del superamento della guerra, e ha autorizzato soltanto un uso limitato e
controllato della forza da parte delle stesse Nazioni Unite, nel caso di
fallimento dei mezzi pacifici di risoluzione d'una data controversia
internazionale.
L'art. 42 non autorizza affatto l'Onu alla guerra, ma solo a usi limitati
della forza; introduce cioe' una distinzione tra mezzi forzosi ma
circoscritti e la guerra, che e', concettualmente e praticamente, violenza
incontrollata che va fino alla distruzione completa dell'avversario.
Se nei decenni e' talora prevalsa una lettura incauta dell'articolo come se
autorizzasse la guerra, e' per la cecita' che si e' impadronita della
politica e di una parte dell'opinione mondiale di fronte alla cosiddetta
ineluttabilita' della guerra.
Ne deriva che, non solo la guerra unilateralmente decisa da uno o piu' Stati
e' comunque illegittima, ma e' illegittima anche una guerra autorizzata
dalle Nazioni Unite.
E l'Italia avrebbe il dovere di non parteciparvi, perche' l'ordine di
aderire alle decisioni delle Nazioni Unite vale finche' queste non si
allontanano dai loro fini statutari di pace e giustizia e non contravvengono
al ripudio costituzionale della guerra.
In questo caso, come la Corte Costituzionale insegna riguardo le violazioni
di altri principi fondamentali provenienti dall'ordinamento internazionale,
o da quello europeo, la sovranita' italiana si riespande in nome dei
"superprincipi" che la vincolano.
E' strano tutto questo? O non e' piuttosto la traduzione in termini di
stretto diritto positivo (forse aridi nella forma, ma pieni di sostanza)
dell'intero sviluppo civile del `900, che di fronte alle sue grandi tragedie
ha elaborato principi giuridici nuovi, tra cui quello del superamento della
maledizione delle guerre, che ha sempre pesato sull'umanita', e' uno dei
piu' alti?
Vogliamo, nella nostra generazione, accettare un arretramento cosi'
catastrofico della storia umana? Nessuna "elasticita'" dei principi e' qui
invocabile: i principi si adattano, si', ai vari casi, senza pero' mai
rinnegare il proprio nucleo fondamentale.
Ma di fronte ai molti tradimenti chi sara' il loro custode? Il parlamento,
certo: ne sono tanto convinto che nel 1993, assieme a La Valle, a Gallo e a
Galasso, ho curato la presentazione alla Camera di un disegno di legge di
iniziativa popolare che estendeva ad ogni intervento militare all'estero la
necessita' della decisione parlamentare prevista dall'art. 78. Tuttavia, di
fronte alle maggioranze parlamentari pronte a solidarizzare coi governi, vi
sono anche altri organi con compiti di tutori della Costituzione (il
Presidente della Repubblica e la Corte Costituzionale, ad esempio) e vi e'
la societa' civile, che in Italia e altrove si va muovendo. Credo anzi si
possa dire che il vero custode dell'art.11 sia, debba essere, proprio il
popolo italiano.

4. DIALOGO. ELENA BUCCOLIERO COLLOQUIA CON DANIELE LUGLI SULL'ESPERIENZA DEL
PRIMO GRUPPO DI AZIONE NONVIOLENTA
[Elena Buccoliero e Daniele Lugli sono impegnati nel Movimento Nonviolento,
di cui Daniele e' segretario. Per contatti: e.buccoliero at comune.fe.it e
daniele.lugli at libero.it. Questa coversazione abbiamo ripreso da "Azione
nonviolenta" n. 4 dell'aprile 2002]
Discutere oggi l'esperienza del primo Gruppo di Azione Nonviolenta (GAN)
significa cercare di comprenderla, per poi metterla in rapporto con
l'attuale fiorire di spinte al cambiamento sociale che cosi' spesso trovano
i loro strumenti nella mobilitazione, nelle piazze, con richiami
frequentissimi alla nonviolenza.
Provare allora a capire, di quel GAN., quali tesori conserva, validi oggi,
per chi - come nel progetto lillipuziano promosso con molto impegno anche
dal Movimento Nonviolento - si ponga l'obiettivo di preparare e costruire
dalla base una capacita' nonviolenta di manifestazione o, meglio, di
espressione, di una opinione, di un dissenso.
Lo chiediamo a Daniele Lugli, segretario nazionale del Movimento
Nonviolento, membro del Movimento - e di quel primo GAN - sin dalla nascita,
essendo entrato in contatto con Aldo Capitini immediatamente dopo la prima
marcia Perugia-Assisi.
L'intervista si svolge in una piccola stazione ferroviaria. Il nostro
parlare approfitta di una consuetudine gia' aperta, al confronto e al
racconto. Daniele esordisce che non ha poi molto da dire, su questa storia
del GAN...
- Daniele Lugli: Pero', a ripensarci bene, ha avuto una sua importanza. Ci
ha insegnato la necessita' che tutti noi avessimo una buona preparazione,
tale da poter intraprendere una discussione con chi si fermava a parlare con
noi, ponendo domande o provocazioni. Poi, abbiamo dovuto imparare a
rapportarci con la polizia, prima durante e dopo le manifestazioni, in
situazioni che potevano essere anche difficili, se non si era capaci di
mantenere il dialogo.
E ancora, abbiamo sentito l'importanza di valutare attentamente l'impatto
che riuscivamo ad avere con la gente attraverso i cartelli, gli slogan e
tutto il nostro modo di porci, inteso proprio globalmente.
L'obiettivo di una manifestazione e' comunicare un messaggio, comunicarlo
davvero e nel modo piu' esatto, non esprimere un generico dissenso, ne'
tantomeno scatenare le ire della polizia.
Per questo, ogni nostra azione era pensata in tutti i minimi particolari,
con la massima cura. I cartelli per esempio erano sorretti da un telaio in
legno per poter essere appoggiati; erano belli, a nessuno sarebbe venuto in
mente di romperli. Anche il nostro modo di apparire e di proporci non era
lasciato al caso, non esprimeva nessuna aggressivita'. Vestivamo in modo
semplice ma molto proprio - io in quelle occasioni avevo sempre la cravatta.
- Elena Buccoliero: Bene, cominciamo dal principio. La preparazione delle
azioni e, prima ancora, la costituzione del GAN. Quanti eravate?
- D. L.: Inizialmente in sei, di citta' diverse. Abbiamo fatto
manifestazioni in tutta Italia, ogni volta si aggregavano le persone del
luogo, che avvicinavano altri simpatizzanti.
- E. B.: Quindi andavate nelle vostre citta'?
- D. L.: Non solo, per esempio siamo stati a Milano, a Roma... Citta' grandi
ed importanti per costruire un'opinione pubblica. Si prenotava la piazza, si
andava.
- E. B.: Qual era lo scopo del GAN?
- D. L.: Ci eravamo dati un compito molto preciso: porre all'attenzione
dell'opinione pubblica il problema dell'obiezione di coscienza. Allora gli
obiettori in Italia venivano puniti con il carcere, in altri paesi europei
invece era una scelta riconosciuta. Ritenevamo che anche l'Italia dovesse
porsi la questione.
- E. B.: Come venivano preparate le azioni?
- D. L.: Studiavamo localmente, ognuno con il proprio gruppo. A Ferrara si
leggevano testi di Gandhi, Capitini, Fornari. Ogni riunione veniva
verbalizzata. Un altro impegno era quello economico: prima di incominciare,
ognuno metteva un po' di denaro - c'era una specie di salvadanaio in mezzo
al tavolo - che poi usavamo per le spese del gruppo.
- E. B.: Come venivano suddivisi i compiti?
- D. L.: Ognuno studiava un libro e lo illustrava agli altri, assecondando
la propria formazione che poteva essere anche molto personale. C'era uno
psicologo, e portava un suo contributo sulla formazione della personalita'
nonviolenta, c'era chi aveva un interesse spiccato per la spiritualita'
indiana, chi veniva da una preparazione di tipo illuminista o marxista...
Mantenendo il fuoco sulla nonviolenza, ognuno di noi offriva agli altri il
proprio contenuto peculiare, e da qui nascevano anche occasioni pubbliche di
approfondimento.
- E. B.: Cioe', il GAN si presentava all'esterno?
- D. L.: Diciamo che il nostro studio diventava una buona base per aprire
momenti pubblici, soprattutto conferenze, nei circoli culturali, nei
partiti... Dovunque ci fossero persone disponibili a discutere, e a quel
punto non si trattava solo l'obiezione ma i fondamenti della nonviolenza, la
societa', la politica...
- E. B.: Mi chiedo se oggi, con un'offerta piu' ampia di attivita' culturali
e di intrattenimento, sia piu' difficile attirare l'interesse delle persone
intorno ad iniziative di questo tipo.
- D. L.: Non e' piu' difficile, e' diverso. Sono cambiate tante cose. In
quegli anni c'era la convinzione che l'agire collettivo avesse davvero un
senso, come soluzione di problemi collettivi. Per noi questo significava
studiare, approfondire ad un alto livello di qualita', ma forse anche questo
era piu' diffuso perfino tra il pubblico, cioe' tra chi veniva ad ascoltare
e magari non aveva un impegno preciso. Al nostro interno, poi, cercavamo di
capire che cosa un autore aveva da dirci, quali strumenti ci poteva dare.
Questo e' un criterio che vale anche nella preparazione delle
manifestazioni.
- E. B.: Cioe'?
- D. L.: Ma si', anche nelle piccolissime occasioni, anche se eravamo solo
in sei. Ogni volta chiedersi se quello che facevamo era un buon impiego
delle risorse rispetto al fine.
* Le prime manifestazioni
- E. B.: Come si svolgeva una manifestazione del GAN?
- D. L.: Stavamo in una piazza per molto tempo, fermi, con l'aria
assolutamente inoffensiva, dietro ai nostri cartelli. Abbiamo scoperto che
eravamo in grado di parlare con le persone, che l'obiezione non era un tema
inesistente in Italia, che avevamo possibilita' di ascolto, e anche chi la
pensava diversamente da noi non era cosi' radicale da rendere difficile il
dialogo. Ecco, c'era questa buona disponibilita' al dialogo accanto alla
nostra capacita' di intrattenerlo.
- E. B.: Com'erano i vostri messaggi?
- D. L.: Decisamente diversi da quelli che si era abituati a vedere, ne'
politici ne' religiosi, con messaggi molto differenti tra loro. C'era uno
strano accostamento di cose vecchie e nuove, potevi trovare una citazione di
San Cipriano, o di Mazzini, accanto ad una informazione su Amnesty
International, ancora poco conosciuta. L'effetto finale era spiazzante ma in
modo non artefatto, semplicemente i cartelli erano il frutto dei nostri
percorsi culturali e ognuno poi aveva il proprio e ci teneva moltissimo,
voleva portare proprio quello.
A volte le scritte rispondevano a fatti contingenti - ricordo un mio slogan,
"Meno armi e piu' libri per la polizia", ma insomma, quella volta ci avevano
ostacolato in tutti i modi, non ero riuscito a trattenermi...
Ecco, soprattutto c'era molta autocensura. Ci ritrovavamo a scrivere i
cartelli, ci scambiavamo gli slogan, e ogni volta la solita domanda: Serve?
Ci aiutera' a comunicare con la gente?
- E. B.: Che effetti sortivate?
- D. L.: In pochi, siamo riusciti a smuovere molto. La questione
dell'obiezione venne portata all'enfasi estrema piu' avanti, con Pannella,
con l'attenzione dei giornali (poco della tv). Ma i giornali si
interessavano anche al GAN, soprattutto quelli locali, e girando in tante
citta', mettevamo in moto tanti cronisti che riportavano le nostre istanze.
- E. B.: E nelle piazze che reazioni avevate?
- D. L.: C'era interesse, curiosita'. L'obiezione per quei tempi era un'idea
nuova, la gente veniva a discutere. Noi d'altra parte eravamo attenti a
mantenere una modalita' dialogante, aperta, assolutamente non aggressiva.
Certo, in una piazza si avvicina una percentuale di balordi altissima. Gente
che ti da' ragione per ragioni che non vorresti mai avere.
* Le strategie, il linguaggio
- E. B.: C'era sempre accordo tra di voi sui modi di manifestare?
- D. L.: Eravamo cosi' pochi! Si era stabilita una sintonia naturale, anche
i nuovi arrivati entravano in questo clima, quasi per coptazione.
Va detto che il GAN e' nato da un convegno sulle tecniche della nonviolenza
e, anche se non avevamo imparato molto, sapevamo almeno che per il successo
delle azioni e' molto importante il modo in cui ti comporti. Ecco, almeno
sapevamo che non potevamo permetterci di reagire d'istinto ad una
provocazione o alla violenza, da qualunque parte potesse arrivare.
E poi sapevamo bene quello che stavamo facendo, e avevamo maturato una
fiducia totale gli uni negli altri. Con noi c'era Pietro Pinna che dal '48
non aveva mai smesso di fare attivita', era stato in Sicilia con Danilo
Dolci, sapeva gestire azioni con estreme minoranze o grandi masse. Ed era un
vero leader; non ci ha mai soverchiato, era sempre in ascolto, ma con la
tensione a fare sempre qualcosa di piu' di cio' che eravamo disposti a fare.
Con un amico ne ridiamo ancora, il suo problema era di non andare in galera,
tutte le volte lo ribadiva, diceva i suoi limiti...
- E. B.: A proposito degli slogan, ricordo che Aldo Capitini aveva dato
istruzioni per la prima marcia e aveva poi controllato i cartelli secondo i
suoi criteri: no agli insulti, no alla violenza verbale... Tu stesso hai
parlato di autocensura di gruppo. Penso alla fiducia reciproca che doveva
circolare nel GAN - senza arrivare al parossismo della limatura, che ti
avrebbe reso insofferente...
- D. L.: Le correzioni erano sempre bene accette perche' non erano fatte per
il gusto di insistere sulle virgole, ma per affinare il messaggio. C'era
alla base il riconoscimento delle competenze altrui e un affinamento e un
affidamento molto forte, per cui per esempio uno scriveva un testo, un altro
lo rileggeva apportando le correzioni che riteneva opportune, e un terzo
ancora lo riproduceva, con la licenza di aggiungere o togliere ancora
qualcosa, se necessario. Nessuno difendeva ostinatamente la propria versione
perche' tutto avveniva nell'ottica di essere massimamente comprensibili. E
se uno di noi e' in difficolta' a capire un mio testo, come posso pensare di
parlare con gli esterni?
- E. B.: Al tempo stesso penso a come e' cambiato il linguaggio negli ultimi
quarant'anni, alla facilita' con cui si usano parole che, ascoltate fino in
fondo, sono offensive, ma ormai sono entrate nel linguaggio comune.
- D. L.: Quello che dici e' vero - ma per noi era chiarissimo il valore del
linguaggio, e di quello che andavamo a fare. Non scendevamo in piazza per
protestare, ma per porre un tema. Lo portavamo con il linguaggio della
festa, nel modo piu' corretto, perche' venisse preso sul serio, con il
rispetto che sentivamo dovuto, a noi e al nostro argomento. E poi, la
questione degli insulti: se volevamo parlare con la polizia, come potevamo
offenderla, o accusarla?
In questo spirito, ogni discorso era un invito alla persuasione, un segno di
dialogo. Con questa disposizione, se uno di noi veniva trascinato dalle
guardie, era davvero uno scandalo.
* Il rapporto con le forze dell'ordine
- E. B.: Siamo entrati naturalmente nel terzo punto, quello dei rapporti con
la polizia.
- D. L.: Il GAN ci ha costretto ad acquisire competenze che in genere sono
solo dei politici o dei sindacalisti: come si indice una manifestazione,
come ci si rapporta con le forze dell'ordine. In quel momento scoprimmo che
la Costituzione era contraddetta dal regolamento di polizia, perche' la
Carta Costituzionale riconosce il diritto di manifestare salvo venga vietato
per "comprovati motivi di ordine pubblico", mentre seguendo il regolamento
di pubblica sicurezza le manifestazioni dovevano essere autorizzate, quindi
il controllo era preventivo. (Adesso non e' piu' cosi', ci si limita a dare
comunicazione alla questura).
- E. B.: Questo indica anche una forte attenzione verso le implicazioni
giuridiche dell'azione.
- D. L.: Assolutamente si', per una conoscenza progressivamente condivisa da
tutti. Poco fa accennavo al nostro modo di infrangere i divieti...
- E. B.: Con quali argomenti vi impedivano di manifestare?
- D. L.: Venimmo accusati di "apologia di reato" semplicemente perche'
nominavamo la parola obiezione. Da allora nelle manifestazioni si fece un
passo indietro, cominciammo a chiedere pubblicamente se davvero era
illegittimo che nel nostro paese si potesse discutere di una cosa come
l'obiezione di coscienza.
- E. B.: E dopo un divieto della polizia, che cosa avveniva?
- D. L.: Ci riunivamo tra di noi per discutere la cosa. All'inizio abbiamo
accettato i divieti, poi abbiamo deciso di infrangerli ma anche in quel caso
era tutto molto preparato. Ci preannunciavamo alla questura: "Saremo
comunque a quell'ora, nel tal posto... Voi vi sbagliate ad impedire la
manifestazione per questi e questi motivi... Noi vogliamo esprimere queste
cose...". Cosi', in modo molto schietto, decidendo chi mandare, in modo da
contenere le conseguenze legali, di cui eravamo ben consapevoli. Ad un certo
punto ci impedirono perche' "turbavamo l'ordine pubblico delle coscienze".
Rispondemmo che questo era un dovere costituzionale e civile, perche' se
dormono, che coscienze sono?
- E. B.: Questo e' cio' che si dice "tenere aperto il dialogo".
- D. L.: Si', e riconoscendo anche gli aspetti positivi di chi sta
"dall'altra parte". Dicendo ogni volta che capiamo e riconosciamo
l'importanza della polizia - e bisogna che sia vero, non si puo' dirlo
cosi', per retorica -, pero' le forze dell'ordine hanno il compito di
tutelare i diritti e non di ridurne l'esercizio, ed e' comprensibile la
difficolta' ma ognuno cerca di fare il proprio mestiere al meglio, e il
nostro in quel momento era di dire delle cose. Quando l'approccio e' questo,
e' piu' difficile che si arrivi alla violenza - qualcosa ci fu, qualche
calcio, qualche trascinamento, ma niente di grave. Ricordo un poliziotto che
si lamenta in macchina mentre porta via uno di noi, rammaricandosi per la
brutta figura...
Certo mantenere un dialogo, direi proprio interpersonale, con i poliziotti
diventa praticamente inapplicabile in una manifestazione di massa.
- E. B.: Nelle tue parole mi colpisce la capacita' di rapportarsi alla pari
con chiunque, anche con chi veste una divisa o ha, in qualche modo, una
posizione di potere. Credo che dalla soggezione possano scaturire allo
stesso modo la violenza o la sottomissione. In qualche modo, voi riuscivate
a scardinare le regole del gioco invece di starci dentro, come si e'
generalmente portati a fare.
- D. L.: Beh direi che questo e' essenziale. Abbiamo sempre avuto un
rapporto alla pari con la polizia, comportandoci con il massimo rispetto ma
esigendo in cambio da parte degli agenti lo stesso tipo di considerazione.
Questo e' vero anche nell'uso del linguaggio. Chiamare "eccellenza" un
prefetto, per esempio. Non lo direi mai. "Signor prefetto", piuttosto -
cioe', si puo' avere una speciale considerazione per una funzione, non per
la persona che la svolge in quanto tale. Io non sono al disopra di nessuno
ma nessuno e' sopra di me, questo mi e' sempre stato chiaro.
Pero' bisogna sapere che rifiutare l'autorita' riconosciuta ha un prezzo,
commisurato a quello che si fa.
- E. B.: Forse "mettersi contro" - per esempio, contro una decisione della
polizia - costituisce di per se' un salto interiore, il superamento di un
diaframma?
- D. L.: No, io non provavo questo. Si trattava piuttosto di decidere quale
prezzo si era disposti a pagare. Ecco che ci documentavamo attentamente,
cercando la massima consapevolezza. Usavamo tutti gli strumenti giuridici a
nostra disposizione e, soprattutto, cercavamo di prevedere tutte le
conseguenze a cui saremmo andati incontro.
* Il confronto con la "contestazione giovanile"
- E. B.: Il GAN e' nato nel '64. Pochi anni dopo anche in Italia sono
iniziate le grandi mobilitazioni giovanili. Come hai guardato allora a
quelle manifestazioni?
- D. L.: Io, come tutti allora, facevo parte del GAN ma nel contempo ero
anche altre cose, partecipavo agli scioperi, ai picchetti davanti alle
fabbriche... ero un socialista...
Il GAN mi sembrava una possibilita' per raggiungere, operando su piccola
scala, un contatto molto largo, "economico", nel senso che per portare via
di peso sei persone ci vogliono 18-20 poliziotti... Figuriamoci se ci
fossero state le masse, pensavamo allora.
- E. B.: Allora anche tu hai sperato, ad un certo punto, che la
mobilitazione coinvolgesse il maggior numero di persone.
- D. L.: Le masse, si'. Ma fatte come il GAN. E' stato detto: "senza contare
le donne, il numero massimo e' 12, e uno ti tradisce". A parte gli scherzi,
la partecipazione ad una azione e', per me, soprattutto un momento
auto-educativo per chi la compie. Quando e' molto ampia presenta rischi
maggiori e, allora, o si sa di poter riporre una fiducia vera negli altri, o
altrimenti ci vuole un capo carismatico capace di guidare. Ognuno puo'
scegliere: pecore o incantatori. Pero' questa e' una soluzione che
personalmente non mi piace.
- E. B.: A distanza di anni, come ripensi a quel periodo, dal punto di vista
della capacita' di manifestare e di manifestarsi, di dialogare?
- D. L.: Quegli anni sono stati intensi, soprattutto hanno ampliato il senso
di partecipare in prima persona ad un'esperienza collettiva. D'altra parte,
abbiamo sopravvalutato alcune cose molto belle, pensando che si fosse
diffusa un'improvvisa maturita', intelligenza, novita'... Improvvisamente ci
sembrava di avere davanti una generazione di ragazzi prodigio, dimenticando
che erano davvero solo dei ragazzi e che quell'ansia di rinnovamento era
superficiale, come gli eventi successivi hanno poi dimostrato.
- E. B.: Una spinta al cambiamento sociale puo' essere piu' o meno mirata
all'obiettivo, piu' o meno efficace, ed e' difficile fare previsioni. Qual
e', secondo te, il criterio ultimo per distinguere?
- D. L.: Dopotutto, io credo davvero che il discrimine sia la violenza.
Negli anni Settanta abbiamo sperato che, nell'ampio movimento di
contestazione, anche i fatti di violenza si sarebbero riassorbiti. Abbiamo
imparato a nostre spese che non e' cosi', ogni atto di violenza contraddice
automaticamente il migliore dei suoi obiettivi - allora chi ne ha pagato il
prezzo sono stati i ragazzi e certamente non i peggiori, piuttosto i piu'
fragili, spesso i piu' generosi.
* La fine del primo GAN
- E. B.: Torniamo all'esperienza del GAN. Quando termina, e perche'?
- D. L.: Potrei datarla fino al 1968, quando le manifestazioni
sull'obiezione di coscienza non sono piu' promosse soltanto da noi. Entrano
i radicali, entra il movimento studentesco. Eravamo riusciti nella nostra
intenzione iniziale, cioe' sollevare una questione fino a quel momento
ignorata. Poi, nel 1972, con la prima legge sull'obiezione di coscienza, il
GAN si e' sciolto per davvero.
- E. B.: Perche' non ha proseguito?
- D. L.: Ma... Aveva esaurito il suo compito.
- E. B.: Ce ne sarebbero stati infiniti altri, suppongo.
- D. L.: Si', e' vero, e qualcosa si fece anche prima del '72, su temi che
ci premevano. In una manifestazione a Bologna, sull'obiezione, ricordo che
avevamo un cartellone dipinto da Zanni, un bravo pittore ferrarese, che
raffigurava un bimbo che muore di fame a Bombay.
Certo, i motivi per manifestare ci sono sempre. Bisognava che qualcosa di
particolare catturasse il nostro impegno, semplicemente non ando' cosi'.
- E. B.: Non e' da poco, saper smettere. Si dice che una parte del lavoro
interno delle organizzazioni serva alla loro riproduzione, al di la' del
raggiungimento degli scopi iniziali - e cosi' si stabiliscono legami di
potere. Questo del GAN e' un caso anomalo.
- D. L.: Ma si', almeno questo. Almeno sapersi accorgere che il proprio
compito e' esaurito, sapersi rinnovare. Poi ognuno di noi ha proseguito su
altri terreni.
* L'attuale diffusione dei Gruppi di Azione Nonviolenta
- E. B.: Parliamo allora del progetto di diffusione dei GAN in tante citta',
un'idea portata in buona parte proprio dal Movimento Nonviolento all'interno
della Rete di Lilliput, che l'ha fatta propria.
- D. L.: E' un piano organizzativo complesso, ambizioso. Credo sia molto
importante aver riportato l'attenzione sulla costituzione dei gruppi di
azione nonviolenta, ma che lo sara' davvero se costituisce un
approfondimento, se ci ricorda sempre molto bene di quello che e' il nostro
fine, e ci porta a misurare la congruita' dei fini coi mezzi.
I GAN, per come mi sembra vengano pensati attualmente, e' un po' come se
fossero dei gruppi polifunzionali, che affrontano le violenze strutturali,
culturali, anche dirette - se ne sono capaci - attraverso delle forme di
azione per la gran parte di carattere simbolico. In questo senso c'e' un
richiamo all'esperienza nostra, ma noi eravamo molto meno di questo, in
fondo il nostro era un GAN limitato.
- E. B.: Perche' "limitato"?
- D. L.: Innanzitutto avevamo un solo tema sul quale lavorare, quello
dell'obiezione di coscienza. Tutti gli altri, che potevano interferire o
arricchire il quadro, venivano affrontati man mano che si presentavano, ma a
noi interessava che si cominciasse a mettere a tema in modi diversi la
questione dell'obiezione di coscienza.
- E. B.: C'e' qualcosa di quell'esperienza che ritieni possa servire ai
nuovi GAN?
- D. L.: L'attenzione a costruire dal basso la capacita' di intervento
individuale e di gruppo, che voleva dire gestire per esempio il rapporto con
le questure, conoscere le norme che regolavano le manifestazioni, le
disposizioni sulla stampa, il testo unico di pubblica sicurezza... In modo
che quando decidevamo di violare delle norme - e lo facevamo proprio a
ragion veduta e a malincuore - l'avevamo valutato a fondo, non era certo per
disattenzione o voluta ignoranza della legge, per dire "noi siamo dei
disobbedienti".
Vedo invece una qualche leggerezza nel modo in cui si affrontano le
manifestazioni, una leggerezza che certo non nasce oggi per la prima volta.
Poiche' vengono tollerati normalmente dei comportamenti al limite della
legge o addirittura apertamente contrari, e vengono tollerati a lungo -
soprattutto in anni passati - e si crea una specie di consuetudine.
* La crescita personale e di gruppo
- E. B.: I GAN che stanno nascendo stanno intraprendendo percorsi di
formazione per prepararsi all'azione, e forse anche per riflettere su
questo.
- D. L.: In questo senso puo' essere utile una formazione che dia degli
strumenti, che prepari e faccia sperimentare, per quanto e' possibile, come
si tratta con quelli che manifestano assieme a te, con le forze dell'ordine
che sono li' o per contenerti o addirittura per impedirti la manifestazione,
e anche con i terzi soggetti ai quali la manifestazione e' rivolta.
- E. B.: Ci sono anche training centrati sulle tecniche dell'azione.
- D. L.: Vanno bene, ma non da soli. Si possono imparare le tecniche dello
sci, ma se non c'e' la neve, e se non si sa cos'e' la neve, le tecniche non
servono a molto. Io sento che puo' esserci il rischio di una certa
astrazione in una formazione alla nonviolenza, all'azione nonviolenta, che
sembra multiuso, serve nella manifestazione, nell'intervento, nel
conflitto... Mi sembra che abiliti un pochino troppe cose per essere
convincente.
- E. B.: Come altro si fa per "imparare"?
- D. L.: Per me e' abbastanza utile praticare l'azione, fare cose alla
propria portata. Farsi le ossa in azioni significative, importanti, ma anche
a basso rischio. Pero' questo contrasta, credo, con un atteggiamento che e'
venuto affermandosi molto negli ultimi tempi, per cui se le cose non vanno
perlomeno in televisione non valgono. La necessita' di apparire influenza
pesantemente anche le scelte di carattere tecnico.
- E. B.: C'e' la difficolta' di contrastare un potere, quello mediatico, che
e' davvero pervasivo e riesce a stravolgere anche l'impegno e la presenza di
chi cerca vie di nonviolenza.
- D. L.: Questo e' vero ma proprio percio' costringe alla trasparenza
dell'azione. Cioe', in questo senso e' un bene.
- E. B.: Perche' ci vuole ancora piu' attenzione.
- D. L.: Eh si'. Non si puo' dire: "Facciamo come vogliamo, tanto comunque
veniamo fraintesi". Noi mica svolgiamo un'azione per come ci raccontano!
D'altro canto, questo e' un problema vero, la diffusione, l'esempio. Pero'
proprio per questo credo che, ancor piu' delle tecniche, occorra nei GAN un
momento di approfondimento dei valori - per adoperare una parola vecchia che
ogni tanto torna fuori - che uno rintraccia dentro a un percorso di
nonviolenza.
- E. B.: Mi sembra che tu stia mettendo tra gli obiettivi del GAN, oltre
alle azioni che puo' svolgere, direi quasi un obiettivo di crescita per le
persone che vi partecipano.
- D. L.: Non c'e' nessun dubbio. La questione delle tecniche e'
imprescindibile dall'approfondimento del che cosa sia per te metterti sulla
strada della nonviolenza, per te diventare un po' amico della nonviolenza,
essere un pochino piu' capace di riconoscere la violenza nelle situazioni,
di farle fronte, in modo da indebolirla invece di accrescerla.
- E. B.: Nella formazione complessiva quale puo' essere il rapporto con i
maestri?
- D. L.: Come i fondamenti della nonviolenza possono essere diversi - e
accanto a quelli di carattere religioso io do' pari dignita' alla radice
laica della nonviolenza - anche le strade di ognuno possono essere diverse.
Non e' detto che si debba essere in grado di ripetere un determinato numero
di classici per essere amici della nonviolenza. Le strade sono davvero
tante, proprio perche', Gandhi diceva, "Non ho niente da insegnare al mondo,
la nonviolenza e' antica come le montagne".
* Che cos'e' un'azione nonviolenta
- E. B.: Puoi provare a individuare i requisiti di un'azione nonviolenta?
- D. L.: E' un'azione intenzionata, volta ad uno scopo. Le sue
caratterizzazioni non stanno solamente in quello che vieta, che omette, ma
soprattutto nella sua parte piu' attiva. Amici piu' impegnati nella Rete
Lilliput avvertono a volte un certo fastidio, all'interno della stessa Rete,
come dire: "Ancora? L'abbiamo gia' detto che siamo nonviolenti". Quasi che
la nonviolenza consistesse in una sorta di professione di fede, oppure nella
garanzia che non si faranno certe cose nelle manifestazioni. Tutte cose
giuste, ma che alla fine non reggono se non c'e' un altro metro di misura di
fondo.
La nonviolenza consiste nel dire: che cosa metto in atto io perche' sia
possibile una soluzione, nella quale anche quelli che ora appaiono i miei
avversari ci stiano dentro, addirittura meglio che nella situazione attuale
in cui vedono il loro privilegio? Incessantemente chiedersi: sto lavorando
davvero nella direzione di costruire una situazione migliore che includa
"noi" e "loro"?, visto che siamo in una situazione nella quale si e' deciso
che c'e' un "noi" e un "loro". E dunque, individuare con chiarezza chi sono
questi "loro", e capire anche qual e' lo spazio, vero, non residuale ma
certo non decisivo, che hanno le forze dell'ordine.
- E. B.: Gia', le forze dell'ordine...
- D. L.: Mai trovarsi nella situazione di avere come avversarie le forze
dell'ordine - se non proprio nel caso di una deliberata aggressione. Eppure
in alcuni casi si cercano proprio delle forme di provocazione, sia pure
nonviolenta, mentre l'obiettivo non viene tenuto abbastanza presente.
- E. B.: Che cosa intendi?
- D. L.: Quello che occorre e' avere presente l'obiettivo di carattere
generale e poi cercare di sminuzzarlo in obiettivi piu' particolari che
siano con questo coerenti, e su questi misurare il progresso o no
dell'azione nonviolenta.
Vorrei sbagliarmi, ma non mi pare che questo sia cosi' facilmente accettato
e praticato. Non dico condiviso in linea generale - chi e' che si oppone a
questo? - pero' poi nella pratica non mi sembra questa l'attenzione
predominante.
- E. B.: Alcune situazioni, soprattutto quando sono partecipate da grandi
masse di persone, risultano di fatto incontrollabili, negli obiettivi e
nelle modalita'.
- D. L.: Questo ci riporta al fatto che la creativita' va bene, ma non si
puo' improvvisare durante un'azione. Creativi nel pensarle, creativi nel
riproporle, ma non nell'attuarle. Non sara' un caso se Gandhi, che pure
aveva un grande controllo e aveva attorno a se' satyagrahi bene addestrati,
quando vedeva che la manifestazione rischiava di sfuggire da quanto era
stato previsto, la interrompeva, anche in modi clamorosi. E magari si
asteneva dal farne altre, anche per molto tempo. Non solo, ma quando si
trovava in una situazione di vantaggio imprevisto, non pensava per questo di
approfittarne per conseguire degli obiettivi che non erano stati dichiarati.
In questo si differenzia un'azione nonviolenta da una semplice variante
disarmata, magari perche' ci e' impossibile una azione armata - o e'
ritenuta svantaggiosa, o prematura...
- E. B.: O per ragioni etiche, perche' no?
- D. L.: Sicuramente. Ma quale che sia il motivo per cui si e' aderito - per
un rifiuto assoluto nei confronti della violenza, o anche un rifiuto
relativo - bisogna sapere che all'interno dell'azione nonviolenta esistono
certe regole che fanno parte della sua essenza, non sono dei divieti. Ci
sono perche' l'azione sia tale, se no non riesce ad esserlo, quindi e'
inutile dopo chiedersi in cosa si e' sbagliato. Si e' fatta un'altra cosa.
* La lezione di don Milani
- D. L.: Per me restano fondamentali, sotto questo profilo, due affermazioni
di don Milani che io ripeto molto spesso, perche' almeno a me dicono molto.
La prima invita a comprendere che il problema degli altri e' uguale al tuo,
e dunque volerne uscire assieme e' politica, e il volerne uscire da soli e'
egoismo. Questo "da soli" puo' indicare non solo il singolo individuo, anche
il gruppo ristretto.
- E. B.: E la seconda?
- D. L.: E' la definizione che don Milani da' dell'opera d'arte. Ecco,
secondo me un'azione del GAN dovrebbe essere proprio un'opera d'arte, che
nella Lettera a una professoressa e' descritta come il risultato di una
operazione complessa. Bisogna - piu' o meno e' cosi' - odiare qualcuno o
qualcosa, ma poi non fermarsi li': lavorarci sopra con un paziente lavoro di
squadra. Allora, se si e' lavorato bene, nasce l'opera d'arte, cioe' la mano
tesa al nemico perche' cambi.
- E. B.: Che cosa vuol dire in concreto?
- D. L.: Nella tipica e anche piu' impegnativa azione di un GAN, di fronte
hai qualcuno che si qualifica come avversario di quello che tu vuoi, o vuoi
fare, o desideri, avversario di cio' che ti sembra giusto. E se poi sei
tanto bravo da non odiarlo - don Milani non pretendeva questo - e tuttavia,
se sei cosi' bravo da non odiare lui ma solo quello che lui rappresenta,
distinguendo le persone dalle cose rappresentate, gli interessi dalle
posizioni, e tutto quello che lo studio dei conflitti ci mette a
disposizione... Ma fa lo stesso, anche se ce l'hai proprio con lui, bisogna
non fermarsi li', lavorare sul proprio risentimento in modo che quello che
tu fai sia una mano tesa per il suo cambiamento. Una mano tesa non e' un
pugno e non e' una pietra.
- E. B.: E' una carezza...
- D. L.: Cerchi di portare quello che consideri un avversario sulle tue
posizioni, e su quelle continuamente eserciti attenzione, perche' non e'
detto che tu abbia ragione. Alla base almeno del mio approccio alla
nonviolenza, e' molto forte quello che Pontara chiama il fallibilismo. Da
questo punto di vista sono contento di non avere una fede forte, di non
pensare di possedere una qualche verita' ne' assoluta ne' rivelata, perche'
questo mi costringe a tener conto anche del parere degli altri.
Se non e' questo, non hai fatto una azione nonviolenta. Certo, non hai
sparato, non hai tirato sassi... pero' di sicuro non hai fatto quello che
serviva. E se questo ha addirittura irrigidito le posizioni dell'altra
parte, io dico: hai lavorato male. Il problema dopo non e' stabilire che la
colpa e' dell'avversario, non stiamo parlando di colpe, ma di efficacia.
Certo, qui tutta l'attivita' di formazione puo' essere molto utile, perche'
un GAN non puo' fare tutte le esperienze del mondo. Percio' e' utile pensare
a quelle gia' fatte in modo da commettere errori nuovi, invece di ripetere
stupidamente i vecchi...
* E infine, il Congresso
- E. B.: Dal 12 al 14 aprile si tiene a Ferrara il XX Congresso del
Movimento Nonviolento. Che cosa ti aspetti?
- D. L.: Mi auguro che si faccia un ulteriore piccolo passo, in primo luogo
tra quelli che parteciperanno al congresso, che leggeranno la rivista, tra
quanti hanno contatto con persone legate al movimento, nella idea che
effettivamente la nonviolenza e' il varco attuale della storia.
Sarebbe una acquisizione assolutamente straordinaria, proprio perche' viene
proclamato con abbastanza disinvoltura, ormai, il valore della nonviolenza,
con il rischio di essere una moda ritornante e passeggera.
Capire il carattere assolutamente impervio di questo varco, che non e' li'
spalancato. Non so: Annibale quando ha portato gli elefanti sulle Alpi. Noi
abbiamo da spostare i nostri elefanti modi di pensare, i nostri elefanti
istituzionali, disadatti a questo tipo di varco, attraverso un passaggio che
probabilmente e' molto stretto e molto insidioso.
Pero' questa e' una possibilita' che ci e' data per avere una storia piu'
degna del nome di umana, per la costruzione di una societa' che meriti un
poco l'aggettivo di civile - oggi se ne torna a parlare, intendendo spesso
delle cose obbrobriose. Ecco, penso che questo sarebbe il massimo risultato
auspicabile.
- E. B.: Qual e' il peso che il congresso puo' avere sull'opinione pubblica,
e su quello che viene chiamato "il movimento dei movimenti"?
- D. L.: Quali che siano i nostri sforzi, non credo si riuscira' ad avere
l'attenzione dei media, ne' che si riuscira' ad avere un impatto forte anche
nei circoli a noi piu' vicini. Penso pero' che alcune persone, venendo in
contatto con la modesta ma onesta e seria attivita' che il Movimento fa per
la costruzione della nonviolenza nel nostro paese, potranno rendersi conto
che con il Movimento Nonviolento si possono approfondire certi temi, si
possono sottoporre a critica degli approcci faciloni, senza con questo
finire su posizioni rigoriste, fondamentaliste, integraliste della
nonviolenza. Proprio perche' nel Movimento e' possibile, e deve essere
sempre piu' possibile, mostrare, dibattere apertamente i propri dubbi, le
proprie diversita' di opinioni, senza pensare con questo di ricevere delle
scomuniche.
Gli elementi della carta del movimento Nonviolento, che ne costituiscono la
base di adesione, perfino quelli a mio avviso rappresentano non un punto di
partenza dato, ma delle cose da realizzare, una tensione che non e' data una
volta per tutte.
- E. B.: Alla prova della verita', la nonviolenza come se la cava?
- D. L.: Mi sembra di vedere che le cose affermate, nella teoria e nella
pratica, dagli amici della nonviolenza trovano una conferma. Non abbiamo mai
visto una guerra che non fosse evitabile o per la quale almeno non si sia
speso, di energie, di intelligenza, di forza, di sforzi, una minima parte di
quello che si e' speso invece per provocarla, per produrla e per condurla.
Da questo punto di vista la nonviolenza esce bene dalle prove con le quali
si e' andata a misurare.
Noi parliamo da tempo, e se ne parlera' anche nel congresso, di iniziative
che riguardano in specifico un intervento nonviolento, o tendenzialmente
nonviolento, i corpi civili di pace, anche in situazioni di conflitto
aperto, o di conflitto imminente. E l'intuizione di Langer, suffragata da
piu' voti del Parlamento Europeo, e' ancora tale o poco piu', a sei anni
dalla sua morte. Credo che questo sia un altro segno abbastanza preciso
della asimmetria esistente tra le proposte della violenza e quelle della
nonviolenza, per cui c'e' da meravigliarsi che, con cosi' poco a
disposizione, la nonviolenza riesca ugualmente a produrre molto.
- E. B.: Riesci ad indicare tre obiettivi su cui ti piacerebbe che il
Movimento Nonviolento lavorasse all'indomani del congresso?
- D. L.: Non riesco ad andare molto al di la' delle cose individuate nel
precedente congresso, e che siamo riusciti a fare... poco poco.
La prima indicazione e' quella di mettere maggiormente a frutto la
connessione con una organizzazione di carattere internazionale come la War
Resisters' International. Questo vuol dire chiedere anche che la WRI metta a
frutto di piu' il suo carattere internazionale, cioe' che si riesca di piu',
nel campo del confronto politico mondiale, a portare un contributo piu'
deciso a un tema che peraltro e' sentito in modo molto piu' generale. Anche
recentemente leggevo la sottolineatura di due elementi come fondamentali:
riuscire a mettere finalmente al bando della storia la guerra - per questo
e' nata l'Onu! - ed estendere i diritti umani a tutti i popoli del pianeta.
E dato che questi non si estendono, a quanto pare, del tutto naturalmente e
pacificamente, se contemporaneamente si vuole mettere al bando la guerra,
bisognera' dire quali strade si vogliono seguire.
Certo, se gia' il "Decennio della nonviolenza" venisse preso in carico dalle
istituzioni, che pure dicono di averlo promosso, sarebbe gia' un bel pezzo
di strada... Bisogna per questo che le organizzazioni e le associazioni
internazionali orientate verso la nonviolenza imparino a collaborare un
pochino meglio tra di loro. E a collaborare non sanno fare tanto. Piu' o
meno come le religioni.
- E. B.: Che dire, allora, sul piano nazionale?
- D. L.: Ritengo che vada ripreso il tema del confronto sull'esercito,
sull'uso della forza, sulla partecipazione alle guerre, probabilmente con un
dialogo molto piu' diretto con le forze armate. Noi partiamo con un qualche
bagaglio di idee e di esperienze, con un'assoluta distanza dal punto di
vista dei mezzi a disposizione, pero' bisogna che anche chi continua a dire
di voler superare la guerra usi un pochino di attenzione - le associazioni
d'altronde non possono fare tutto da sole. Noi possiamo, ancora una volta,
stimolare quelle forze che in Italia hanno dimostrato di avere su questo un
interesse - i sindacati, alcune forze politiche, cioe' riuscire a portarle
su un terreno di pratica.
E poi penso che non si possa rinunciare ad un'azione di forte penetrazione
culturale, che richiede presenza non tanto nella scuola - di materie ne ha
fin troppe! - ma nei dibattiti, nei momenti di interesse e di aggregazione
dei giovani, cercando di portare anche questa proposta della nonviolenza.

5. MAESTRE. ASSIA DJEBAR: TESTIMONI
[Da Assia djebar, Vaste est la prison, Albin Michel, Paris 1995, Livre de
poche, Paris 2002, p. 346. Assia Djebar e' una illustre intellettuale
algerina impegnata per i diritti umani, scrittrice, storica, antropologa,
docente universitaria, cineasta. Opere di Assia Djebar: cfr. almeno Donne
d'Algeri nei loro appartamenti, Giunti, Firenze 1988; Lontano da Medina.
Figlie d'Ismaele, Giunti, Firenze 1993; L'amore, la guerra, Il Saggiatore,
Milano 1995; Vaste est la prison, Albin Michel, Paris 1995; Bianco
d'Algeria, Il Saggiatore, Milano 1998; Nel cuore della notte algerina,
Giunti, Firenze 1998; Ombra sultana, Baldini e Castoldi, Milano 1999; Le
notti di Strasburgo, Il Saggiatore, Milano 2000. Opere su Assia Djebar: cfr.
il libro-intervista di Renate Siebert, Andare ancora al cuore delle ferite,
La Tartaruga, Milano 1997]
I morti, che si crede siano assenti, si tramutano in testimoni che,
attraverso noi, desiderano scrivere.

6. RILETTURE. AA. VV.: MARIA ZAMBRANO. PENSATRICE IN ESILIO
AA.. VV., Maria Zambrano. Pensatrice in esilio, fascicolo monografico di
"Aut aut", n. 279 del maggio-giugno 1997, pp. 160. Un omaggio a piu' voci
alla grande pensatrice.

7. RILETTURE. ANNA ACHMATOVA: IO SONO LA VOSTRA VOCE...
Anna Achmatova, Io sono la vostra voce..., Edizioni Studio Tesi, Pordenone
1990, 1995, pp. XLI + 328, lire 18.000. Una bella raccolta di scritti
(poesie, prose, lettere) della grande poetessa.

8. RILETTURE. RAYA DUNAYEVSKAYA: FILOSOFIA E RIVOLUZIONE
Raya Dunayevskaya, Filosofia e rivoluzione, Feltrinelli, Milano 1977, pp.
320. Una densa monografia della pensatrice russo-americana.

9. RILETTURE. NADINE GORDIMER: UN MONDO DI STRANIERI
Nadine Gordimer, Un mondo di stranieri, Feltrinelli, Milano 1961, 1990, pp.
336. Un romanzo di denuncia della grande scrittrice sudafricana impegnata
contro il razzismo.

10. RILETTURE. RAISSA MARITAIN: DIARIO DI RAISSA
Raissa Maritain, Diario di Raissa, Morcelliana, Brescia 1966, 2000, pp. XX +
416, euro 18,08. A cura del marito Jacques, molte delle pagine piu' intime,
rapite e profonde di Raissa Maritain.

11. RILETTURE. SOFIA VANNI ROVIGHI: INTRODUZIONE A TOMMASO D'AQUINO
Sofia Vanni Rovighi, Introduzione a Tommaso d'Aquino, Laterza, Roma-Bari
1973, pp. 216. Un'ottima monografia introduttiva, nella nota e apprezzata
collana laterziana de "I filosofi", della grande studiosa del tomismo.

12. DA TRADURRE. VLADIMIR JANKELEVITCH: LA MORT
Vladimir Jankelevitch, La mort, Flammarion, Paris 1977, 2001, pp. 480. La
sempre finissima e luminosa riflessione di Jankelevitch, uno dei pensatori
in cui profondita' di meditazione e sensibilita' dello stile ad un medesimo
modo ti affascinano, e nutrono.

13. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO
Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il
libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.
Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:
1. l'opposizione integrale alla guerra;
2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;
3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;
4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo.
Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.
Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione,
la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.

14. PER SAPERNE DI PIU'
* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org;
per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it
* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia:
http://www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it
* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it. Per
contatti: info at peacelink.it

LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO

Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it

Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio
con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it

Numero 400 del 30 ottobre 2002