Giornalismo e conflitti



http://www.ilbarbieredellasera.com/article.php?sid=4640

21.10.2002
Datemi un giubbotto. Possibilmente antiproiettile
di Pennina

Ieri, domenica 20 ottobre, ultima giornata del Forum di Gubbio. Al centro del dibattito, il lavoro dell’ inviato sui teatri di guerra

"Giornalismo e conflitti: troppi caduti nelle aree di guerra. Che fare?".

Per rispondere a questa domanda la Federazione Nazionale della Stampa ha invitato ieri a Gubbio alcuni inviati di importanti testate nazionali: Mimosa Martini del Tg5, Tiziana Ferrario del Tg1, Massimo Alberizzi del Corriere della Sera, e due ospiti stranieri Gideon Levy e Bassem Eid, inviato del giornale Haaretz e direttore dell'osservatorio Phrmg, il fotografo Marco Vacca e Mark William Lowe della Centurion Italia, società che si occupa di organizzare 'corsi di sopravvivenza' alle aree a rischio.

Si è parlato"Safety training", ovvero “addestramento alla sicurezza”. Come si fa a prepararsi per bene prima di partire per le aree a rischio?

In Italia, questo tipo di training è poco utilizzato. Anche a causa del grande numero di giornalisti inviati “fai da te” che partono avventurosamente per i luoghi piu’ pericolosi, spesso senza alcuna copertura assicurativa (le assicurazioni poi costano cifre spesso proibitive).

Eppure un corso di preparazione e di prevenzione del rischio sarebbe altamente consigliabile. Qualcosa che può aiutare se non a salvare la pelle (sempre in pericolo in zone di guerra) quantomeno a non correre rischi inutili o commettere grossolane ingenuità.

A riconoscerlo sono le stesse compagnia di assicurazione che sono disposte ad accordare sconti per chi, prima di partire, frequenta un corso di addestramento.

Ma vediamo in sintesi cosa hanno detto i relatori.

Ha iniziato Massimo Alberizzi (inviato del Corriere della Sera) con un pittoresco intervento sulle zone di guerra dell'Africa per poi cedere la parola a Mark Lowe che, in Italia da circa 10 anni con la Centurion, non riesce ad organizzare corsi specifici per gli inviati di guerra e lavora prevalentemente con le multinazionali.

Lowe non ha usato perifrasi: "Non c'è formazione che salvi la pelle". Però la preparazione preventiva aiuta offrendo i rudimenti del primo soccorso (come fermare un'emorragia per esempio), insegnando a riconoscere le armi (il che puo’ aiutare a distinguere un guerrigliero da un soldato dell'esercito regolare, meglio delle divise), i danni che possono provocare, perfino a identificarle dal rumore che emettono.

Esempi di 'dritte' che possono fare la differenza tra la vita e la morte.

Impietoso il confronto con la stampa straniera: "Alla Cnn anche i freelance devono garantire con certificati la frequenza di questi corsi, altrimenti non ottengono alcuna copertura assicurativa. In Italia siamo a zero, nonostante l'impegno e le doti di alcuni inviati.

Né rivolgersi all'esercito è consigliabile piu' di tanto. I militari formano militari, non giornalisti. L'ideale sono i privati, detentori di un know-how specifico. Facendo attenzione alle bufale: corsi di sopravvivenza con giornalisti in mimetica o peggio, armati, che si arrampicano sugli alberi!".

A queste parole Tiziana Ferrario ha un moto dell'anima: "Abbraccerei Lowe per il suo discorso sull'arretratezza del nostro giornalismo. Ho invidiato i colleghi americani ed inglesi che seguivano questi corsi.

Con l'esperienza, poi magari scopri che i giubbotti antiproiettile che ti dà la Rai per andare in Afghanistan non difendono dai proiettili di kalashnikov. Nonostante i grandi gruppi editoriali, la dimensione del nostro giornalismo è spesso artigianale".

Scoppiettante l'intervento di Mimosa Martini, che ironizza sull'organizzazione elefantiaca, per quanto efficiente, degli americani: "In Afghanistan, la Cnn aveva la sua postazione al centro del tetto dell'albergo per essere più al riparo dai cecchini, ma l'hotel era il palazzo più alto tra quelli intorno. Da dove avrebbero dovuto sparare i cecchini? Dal cielo?

Quando poi si è cominciato a parlare di antrace e di altre armi chimiche sono spuntate casse di antibiotici. Le troupe hanno al seguito colonnelli in pensione delle forze speciali che si occupano esclusivamente della loro sicurezza. E' anche una questione di soldi ed in Italia non si investe sull'informazione”.

La Martini mette poi in luce alcuni rischi, primo fra tutti quello dell'assuefazione al pericolo: "Diventa normale sentire i rumori dei caccia che ti passano sulla testa. Passando molti mesi in un posto, ci fai l'abitudine ed abbassi la guardia. Fotografi ed operatori televisivi sono più esposti perché, impegnati nella ripresa, non vedono il pericolo alle spalle. Io ho preso l’abitudine di rimanere sempre vicina al mio operatore per avvertirlo in caso di problemi". Infine, cio’ che spinge a valicare certi limiti è la pressione che viene dalla redazione e dalla concorrenza.

Bassem Eid, direttore di un osservatorio sui diritti umani in Palestina chiede polemicamente chi protegge gli individui che sono vittime dei media e dei "giornalisti che mescolano la realtà con le loro opinioni politiche". Molto interessante a questo proposito l'esperienza di Gideon Levy, inviato del quotidiano israeliano Haaretz vincitore lo scorso hanno del premio di Information sans frontieres.

Levy è un giornalista israeliano che viaggia in continuazione nei Territori occupati. I rischi che corre ogni giorno non gli impediscono di affermare che "la prima protezione è credere che ciò che fai è importante, al di là delle precauzioni pratiche".

Il dibattito si conclude con un flash sul lavoro dei fotoreporter. Il fotografo Marco Vacca spiega bene all’uditorio che i giornali italiani, del fotogiornalismo se ne infischiano.

E cita un episodio illuminante. “Solo un giornale ha affidato un incarico professionale a un collega durante la guerra in Afghanistan. Il settimanale Oggi. E lo ha fatto quando è arrivato a Kabul Antonio di Pietro”.