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La nonviolenza e' in cammino. 395
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 395
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Thu, 24 Oct 2002 22:04:23 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 395 del 25 ottobre 2002 Sommario di questo numero: 1. La magistratura viterbese rimette la legge Bossi-Fini alla Corte Costituzionale per incostituzionalita' 2. Rossana Rossanda, la guerra che ritorna 3. Peppe Sini, tre glosse a questo articolo di Rossana Rossanda 4. Clotilde Pontecorvo, la memoria dopo Auschwitz 5. Mirella Karpati, una pagina a lungo ignorata 6. Cristina Papa, donne dai luoghi di conflitto si raccontano 7. Riunone del comitato di coordinamento del Movimento Nonviolento il 17 novembre a Verona 8. Un seminario sulla gestione nonviolenta dei conflitti 9. E' uscito il numero di ottobre di "Bilanci di giustizia" 10. Letture: Davide Melodia, Introduzione al cristianesimo pacifista 11. Letture: Gianlorenzo Pacini, Fedor M. Dostoevskij 12. Riletture: Giulio Busi, La Qabbalah 13. Riletture: Sandro Calvani, Poverta' e malsviluppo globale 14. Riletture: Maria Rosa Cutrufelli, L'invenzione della donna 15. Riletture: Lanza del Vasto, L'arca aveva una vigna per vela 16. Riletture: Rosaria Micela (a cura di), Oppressione della donna e ricerca antropologica 17. Riletture: Valentino Salvoldi intervista Bernhard Haering 18. La "Carta" del Movimento Nonviolento 19. Per saperne di piu' 1. DOCUMENTAZIONE. LA MAGISTRATURA VITERBESE RIMETTE LA LEGGE BOSSI-FINI ALLA CORTE COSTITUZIONALE PER INCOSTITUZIONALITA' [Dalla cronaca di Viterbo del quotidiano "Il messaggero" del 18 ottobre 2002 riportiamo il seguente articolo, senza alcun nostro commento nel merito. Noi siamo stati sempre convinti che la legge Bossi-Fini sia incostituzionale, e per parte nostra fermamente crediamo che - per il motivo irrefragabile che gia' Immanuel Kant enuncio' - ogni essere umano in quanto tale ha diritto di accesso in tutti i paesi della terra] E l'avvocato d'ufficio ando' a segno: "Quella legge e' incostituzionale" Marco Valerio Mazzatosta e' un avvocato di trentadue anni. L'altro giorno in tribunale a Viterbo si stava svolgendo una udienza apparentemente senza particolari elementi di interessi, riguardava un cittadino tunisino che non aveva ottemperato nei cinque giorni previsti al decreto di espulsione del questore di Roma. Doveva essere una giornata come tante, con l'avvocato Mazzatosta chiamato a svolgere quella che solitamente e' poco piu' di una formalita' - la difesa di ufficio - quando invece l'udienza si e' trasformata in un piccolo caso nazionale e giuridico, che sollevera' una riflessione sulla legge Bossi Fini che ha modificato la normativa sull'immigrazione, e che arrivera' fino alla corte costituzionale. Certo, per il cittadino tunisino - che ha anche tentato il suicidio ed e' stato ricoverato a Belcolle - cambia relativamente poco, visto che comunque il giudice ha concesso il nulla osta all'espulsione. "Ma la decisione del giudice e' ineccepibile - spiega l'avvocato Mazzatosta -. E le eccezioni di incostituzionalita' sollevate serviranno in generale per una piu' corretta applicazione di questa legge. Nessuno vuole il permissivismo, una regolazione della materia era necessaria. Insomma, e' giusto che il legislatore legiferi ma e' evidente che non possono essere messi in discussione i valori fondamentali della Costituzione. Insieme ad altri colleghi avvocati avevo approfondito la materia, per questo, visto che mi e' capitata l'occasione, ho deciso di presentare l'eccezione di incostituzionalita'. Ma non penso di essere stato l'unico ad averlo fatto in Italia". L'eccezione, accolta dal giudice Centaro e rimessa alla Corte costituzionale, riguarda l'articolo 13 della legge 189 del 2002, in particolare il comma terzo e quinto. Il richiamo e' agli articoli 2, 3 e 24 della Costituzione. I primi due richiamano i diritti inviolabili dell'uomo e la pari dignita' sociale, tutti i cittadini "sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di condizioni personali e sociali". Piu' specifico al caso in questione l'articolo 24 che recita: "Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi". L'atto amministrativo di un questore, che obbliga - secondo la nuova legge - il cittadino straniero non in regola ad abbandonare il Paese entro cinque giorni di fatto rischia di ledere la possibilita' di agire in giudizio per difendere i propri diritti. La parola ora passa alla Corte costituzionale. 2. RIFLESSIONE. ROSSANA ROSSANDA: LA GUERRA CHE RITORNA [Questo articolo abbiamo tratto dal quotidiano "Il manifesto" del 22 ottobre 2002. Rossana Rossanda e' nata a Pola nel 1924, allieva del filosofo Antonio Banfi, antifascista, dirigente del PCI (fino alla radiazione nel 1969 per aver dato vita alla rivista "Il Manifesto" su posizioni di sinistra), in rapporto con le figure piu' vive della cultura contemporanea, fondatrice del "Manifesto" (rivista prima, poi quotidiano) su cui tuttora scrive. Impegnata da sempre nei movimenti, interviene costantemente sugli eventi di piu' drammatica attualita' e sui temi politici, culturali, morali piu' urgenti; e' persona di sconfinata cultura e rigore intellettuale e morale. Opere di Rossana Rossanda: Le altre, Bompiani, Milano 1979; Un viaggio inutile, o della politica come educazione sentimentale, Bompiani, Milano 1981; Anche per me. Donna, persona, memoria, dal 1973 al 1986, Feltrinelli, Milano 1987; con Pietro Ingrao et alii, Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, Roma 1995; con Filippo Gentiloni, La vita breve. Morte, resurrezione, immortalita', Pratiche, Parma 1996; Note a margine, Bollati Boringhieri, Torino 1996. Ma la maggior parte del lavoro intellettuale, della testimonianza storica e morale, e della riflessione e proposta culturale e politica di Rossana Rossanda e' tuttora dispersa in articoli e saggi pubblicati in giornali e riviste. Non ci risulta che siano state fin qui pubblicate monografie su Rossana Rossanda; di lei parlano tra gli altri in alcuni loro volumi Simone de Beauvoir e Jorge Semprun, e c'e' una deliziosa poesia di Franco Fortini a lei dedicata] Pietro Ingrao interpella il Presidente della Repubblica e i presidenti della Camera e del Senato e i leaders della sinistra su un punto cruciale: la nostra Costituzione interdice il ricorso a una guerra che non sia strettamente difensiva. Non la consentirebbe neanche se il Consiglio di Sicurezza dovesse approvarla. Come legittimare dunque il ricorso eventuale a una guerra contro l'Iraq? Proponete un cambiamento della Costituzione? Su quale patto fondamentale si sta reggendo la Repubblica? Quest'ultima domanda ripete anche a D'Alema, da quando nella direzione Ds ha detto che la guerra puo' essere necessaria. Ne' Ciampi ne' D'Alema ne' i presidenti delle Camere accennano a rispondere. Non credo che lo faranno. I tempi sono cambiati, pensano come l'opinione diffusa; basta una maggioranza perche' un gesto sia "legittimato": va da se'. No che non va da se', alza la voce Ingrao: una maggioranza non puo' legittimare una infrazione al complesso di leggi indisponibili, appunto una Costituzione, sulla quale si basa una convivenza e si regolano i suoi conflitti. Passar oltre un suo punto significa abbattere il principio stesso d'uno stato o d'una convivenza internazionale di diritto, e' l'inselvaggimento delle relazioni. Gli Stati Uniti, tanto evocati, tengono ben ferma dal 1787 la loro Costituzione e se proprio qualcosa va cambiato la emendano con tutte le procedure e le regole. Perche' non noi? Forse e' difficile per i piu' giovani cogliere la stupefazione che prende persone come Ingrao e me davanti all'indifferenza con la quale si passa sopra questo principio. Ci sgomenta il metodo e la sostanza. Venivamo dall'esperienza del fascismo: si dovevano iscrivere in un blocco di fondamenti dei limiti invalicalibili, che interdicessero la ripresa di fenomeni di tale degradazione dei diritti sottraendoli anche a eventuali maggioranze, come quella che aveva sostenuto Hitler. Nel 1948 non ci fu chi non lo capi', salvo forse qualche taciturno residuo fascista. E quanto alla guerra, a interdirne il ricorso non era un'assemblea di chierichetti, erano i sopravvissuti al massacro della seconda guerra mondiale, e i cui padri avevano vissuto il macello della prima. Nulla meritava questo prezzo, e' un prezzo che stinge su qualsiasi intenzione. Affermammo che la guerra e' inaccettabile per la soluzione di qualsiasi conflitto. Tanto piu' che quella guerra, che a tutti parve finita tra aprile e maggio 1945 e sul punto di finire nell'esausto Giappone, ando' rivelando per diversi anni i suoi risvolti piu' atroci. A ostilita' finite il mondo scopri' i campi di sterminio, e neanche tutti, si fece lentamente un'idea di Auschwitz e Maidanek e Treblinka; quell'orrore era stato impreveduto e tale che non solo per paura gli stessi nazisti se ne erano coltivati un'immagine riduttiva. Nell'agosto 1945 inoltre due bombe atomiche vetrificarono in pochi secondi Hiroshima e Nagasaki, e sulle prime neppur capimmo bene, noi che avevamo pur subito i bombardamenti, che cosa significa "coventrizzare" e vedemmo le macerie di Berlino. Le atomiche annunciavano un salto tecnologico nella distruzione, tale che una nuova guerra sarebbe stata ancora piu' mostruosa di quella appena chiusa e della quale neppur potemmo contare per un pezzo i milioni e milioni di morti, civili e soldati, uccisi sul campo o nelle citta' o internati e impiccati, ammazzati, gasati, gettati nei forni. Interdicemmo nel 1945 la guerra non come una schiera di anime belle ma come corpi devastati dal vaiolo. Non avevano potuto rispondere altrimenti all'espansione del terzo Reich e la guerra ne accelero' la ferocia. Come sempre. Ma per l'ultima volta. Questo ci permise di vivere. Oggi lo si e' dimenticato. Ma se non si puo' restare con gli occhi fissi al passato, neppure lo si cancella impunemente. Invece questo si fa, specie in Italia, con l'assoluzione di tutte le parti in causa non per umana pieta' ma per calcolo politico, come l'altro giorno nella maggior parte delle parole dette a el Alamein. Soltanto i rimasti della Shoah sono autorizzati a coltivare la memoria, che loro costa piu' che a chiunque, perche' pur avendo alle spalle secoli di persecuzione, quel che avvenne in Italia e in Germania o nella Francia di Petain era stato impensato. E tuttavia la loro memoria si costituisce a parte e in qualche misura contro lo spirito del 1945: la Shoah induceva per la prima volta una reazione di difesa che non era stata ne' nella cultura dell'assimilazione ne' in quella dello shtetl. Nel prendersi una terra che da duemila anni non era loro, l'ebraismo trovava un rifugio e incontrava la banalita' dell'essere uno stato fra gli altri, armato, potente, e che fa sua, in veste di difesa, una cultura dell'aggressione. Israele e' per la guerra, anzi ha inaugurato quella preventiva. E forse non puo' essere diverso, la guerra e' come il cancro, metastatizza. La questione fra Israele e Palestina e' sempre aperta, ed e' un punto dirimente sul quale e' come se l'Onu non ci fosse. Ma vi rendete conto di quel che sta avvenendo adesso con l'Iraq? insiste Ingrao. Penso che D'Alema e simili se ne rendano conto, ma anzitutto esorcizzano la dimensione del pericolo con un argomento che sta, ahime', nel senso comune dell'occidente dopo il 1945: la "guerra" e' guerra soltanto se lo coinvolge come e' accaduto per ben due volte nel Novecento. Se no e' un'altra cosa. Non inganniamoci. La guerra del Golfo e' stata vissuta in Europa, fatte salve poche voci come quella appunto di Ingrao e Dossetti, come una giusta spedizione punitiva verso Saddam che aveva invaso il Kuwait. Quella alla Jugoslavia e' stata implorata dall'Europa, coinvolgendo gli Stati Uniti, non con la confessione che non sapeva come fare e anzi l'aveva - Vaticano e Germania in testa - alimentata, ma sostenendo che la Serbia era un nuovo hitlerismo e scordando allegramente che alla fine degli anni trenta Hitler dilagava in Austria e Cecoslovacchia predicando lo sfondamento all'est. Sul Kosovo l'occidente invento' l'intervento "umanitario" che, fra parentesi, pare debba essere bellico o niente. Infine tutta l'Europa accetto' fervidamente la guerra all'Afghanistan perche' l'attentato alle due Torri investiva nei ricordi l'universo mentale ed emozionale anche nostro oltre che quello americano. Avevano attaccato anche noi! Nessuno lo confesso' ma diventava smagliante la differenza delle guerre a "noi" o "fra noi" che era stata sotto traccia in tutte le scelte delle Nazioni Unite, le quali non hanno mai applicato alla lettera la loro Carta o si sono arrangiate per dare una veste di procedura corretta alle guerre esterne all'ambito occidentale. Perche' ce ne furono. Ma l'attenzione era fissa sullo scontro possibile fra Stati Uniti e Unione Sovietica. Che non ci fu, e voglio credere che non ci sia stato non solo per via del deterrente nucleare. Non solo non ci fu scontro fra i due grandi, ma il loro contrapporsi da un lato limito' la conflittualita' fra i minori in ciascuno dei due campi di influenza, dall'altro passo' sempre liscia la rimessa in ordine, armata o terrorista, del proprio campo da parte delle due superpotenze. L'Urss si riprese con i carri armati Ungheria e Cecoslovacchia e, piu' tardi, inglobo' stupidamente l'Afghanistan. Gli Usa tennero sospesa la spada di Damocle su Cuba, alimentarono tutti i golpe in America Latina fino a quello contro Allende, e appena l'Urss si indeboliva finanziarono la guerra dell'Iraq all'Iran. Fecero guerre e mezze guerre anche le potenze coloniali in declino, la Francia in Indocina e poi all'Algeria. La Carta dell'Onu fu prudente ed elastica. Tanto da non scomporsi gran che nella guerra di Israele contro la guerriglia palestinese, e da lasciar passare, col sistema dei veti incrociati, l'intervento americano nel Vietnam come se l'oscuro e modesto incidente nel Golfo del Tonchino mettesse in causa la sicurezza degli Stati Uniti. Perche' rifaccio ostinatamente la storia? Perche' quello di adesso e' l'ultimo strappo a una Carta mondiale largamente sbrindellata sotto la spinta dei rapporti di forza reali, e la nostra Costituzione e' bypassata da dieci anni. Alla domanda di Ingrao su quale patto fondamentale, su quali regole si regge oggi il mondo, tenderei a rispondere: sui lacerti d'una proposta che visse finche' visse il ricordo della guerra mondiale e permase l'equilibrio delle forze di distruzione della guerra fredda. Oggi resta un'impalcatura, il diritto e' travolto dai rapporti di forze. Gli Stati Uniti di Bush, Cheney, Rumsfeld e Condoleezza Rice ci hanno avvertito che sono l'unica potenza militare dotata di tutto il potenziale tecnologico della nuova guerra, e intendono spostarlo dovunque nel pianeta ritengano minacciati gli interessi loro e del mondo, checche' il mondo ne pensi. E' per le Nazioni Unite un colpo decisivo: gli Stati Uniti vi si uniscono a condizione che siano accettate le loro analisi, obbiettivi e strategie. Ma l'Onu e il nostro continente finge di non avere sentito o si adegua. Perche'? Perche' la sinistra ha smesso di avere una griglia interpretativa, un pensiero autonomo dal 1989 in poi. E' chiaro che con la teoria del terrorismo islamico mondiale gli Usa si sono dati la premessa d'un intervento illimitato nel pianeta, e senza interpellarci affatto. Sul terrorismo in genere e Al Qaeda in particolare, ci interdiciamo di ragionare: eppure se esiste davvero un complotto mondiale avra' pure radici da cogliere, bisognera' pure interrogarsi se e' espresso da soggetti che mirano a spartizione di poteri e petrolio e utilizzano la protesta islamica, o viceversa; e come mai fondamentalismi e guerre sante sono saltate fuori soltanto a fine secolo. Ma il solo avanzare queste domande appare illecito. Cosi' condanniamo a mezza bocca come una pericolosa sciocchezza lo scontro di civilta', ma ingoiamo qualsiasi cosa sul terrore: abbiamo tremato per l'antrace, tremiamo per il folle che ammazza a Washington, sospettiamo Al Qaeda dovunque, e ci inquietano piu' facce e parole di qualche magrebino egiziano che i corpi in gran parte musulmani che fluttuano sulle nostre coste per colpa delle nostre leggi. Adesso dubitiamo di Bush sull'Iraq ma poniamo tutte le speranze nel Consiglio di sicurezza. Se esso stara' prima o poi con l'amministrazione americana, l'Italia spedira' laggiu' i suoi ragazzi, e se non ci sta finira' per spedirli lo stesso. L'unicita' della potenza americana e' recepita come un dato epocale, necessitato dalla storia. Su questo e' saltata l'interdizione postbellica della guerra. Ma la sinistra tende a procedere come se il terremoto della dottrina Bush avesse semplicemente portato a termine un processo di molti anni e tenuto sotto traccia. Quasi che perduta un'alternativa o un vero progetto riformista di sistema, non le riuscisse piu' di pensare in autonomia e neppure si chiedesse perche'. Io penso che sia nostro dovere capire e dire come e' avvenuto e a che cosa siamo chiamati a fare fronte. Non tocca al pacifismo, da Aldo Capitini a Balducci a parte dei cattolici alla opinione marciante - gia' sotto tiro come unilaterale, codardo, compromissorio, rispettabile ma, dice Piero Fassino, irresponsabile - l'analisi storico-politica del presente. Ma noi, sinistra alternativa, ce ne possiamo esentare? Possiamo accettare che le scelte italiane si definiscano a Washington, tranquillizzarci perche' mai piu' ci sara' "guerra fra noi" e quelle agli altri sono operazioni di polizia militare obbligatorie, occupazioni transeunti di stati cattivi? Non credo che basti per essere sinistra levare una protesta d'ordine morale. E infatti se oggi si leva in Europa un'opposizione di Francia e Russia, e fuori d'Europa della Cina, non si puo' certo definirli di sinistra. Non e' piuttosto un'espressione propria dei gia' dichiarati defunti stati nazione, considerato che Bush ha svuotato anche la Nato, ammesso che in essa gli stati avessero voce in capitolo? Non si tratta piu' che di un sussulto dello spirito postbellico, di un ritorno delle vecchie guerre commerciali se non territoriali? Gli Stati Uniti non nascondono di mirare al controllo territoriale del medioriente e del petrolio. Ma al loro unilateralismo quale Europa fa fronte? Quella monetaria concorrenziale in un mondo capitalisticamente unificato e militarmente mai cosi' scomposto? Insomma, quale Europa pensa la sinistra, quella moderata, quella alternativa, quella no-global, quella sindacale? Intendendosi per pensare non soltanto marciare, ma mettere in atto meccanismi di dislocazione e riallocazione delle forze. Le occorrerebbe un direttivo politico reale, e come ci punta? E magari una forza di dissuasione e interposizione? Oppure no? Siamo a una svolta che non ha la natura ma dimensioni di ristrutturazione mondiale analoghe a quelle che si profilarono alla fine degli anni trenta. La storia corre a velocita' superiore alla nostra capacita' e voglia di leggerne i dati e dare delle risposte. Limitarsi ai simboli, alla protesta o, peggio, eluderne i nodi nella malinconia dell'antipolitica, non sarebbe molto intelligente. La politica di potenza non bussa per entrare. 3. RIFLESSIONE. PEPPE SINI: TRE GLOSSE A QUESTO ARTICOLO DI ROSSANA ROSSANDA 1. Rossanda, come Ingrao, come molti altri maestri grandi, stanno cadendo in una trappola. E la trappola e' questa: di accettare il terreno di ragionamento proposto dai golpisti. E invece occorre dir chiaro che sull'articolo 11 non si discute: esso e' uno dei "principi fondamentali" della Costituzione, ovvero uno di quei "valori supremi" che in forza del combinato disposto degli articoli 138-139 e alla luce di un decisivo pronunciamento della Corte Costituzionale sono immodificabili; la sua modifica equivale a un colpo di stato. Ed il fatto che il presidente del Consiglio dei Ministri in carica, e quello che lo ha preceduto, propongano di cassare questo articolo equivale a istigare al colpo di stato. Mi pare ci sia ben motivo per denunciarli alla magistratura ordinaria. 2. Rossanda vacilla nell'interpretare cio' che non conosce adeguatamente: cita Capitini e Balducci dandone una interpretazione debole, falsificante e fin caricaturale, in definitiva ridicola e offensiva. Ed invece occorre dir chiaro che proprio a partire dalle posizioni e dalle prospettive aperte da Capitini e Balducci la sinistra puo' ricostituire identita' e progetto, oppure ha gia' cessato di esistere; che proprio a partire dalla scelta della nonviolenza occorre ricostruire e una lettura della realta' e una prospettiva di trasformazione della societa'. 3. Anche leggendo la Rossanda trent'anni fa imparai quel che so della politica, poco o tanto che sia, e mi decisi a dedicare il resto della mia vita a questo impegno; e da allora ogni volta che con la Rossanda non sono d'accordo e' una spina nei cuore, duole non riconoscersi nelle parole dei maestri. Ma proprio per l'amore che portiamo loro occorre dir chiaro quando non ci convincono. 4. MAESTRE. CLOTILDE PONTECORVO: LA MEMORIA DOPO AUSCHWITZ [Questo testo abbiamo ripreso dal sito della bella rivista "Una citta'", nel cui n. 46 del dicembre 1995 e' apparso; e' l'intervento che Clotilde Pontecorvo ha tenuto al seminario "Fare scuola dopo Auschwitz" organizzato dall'Assessorato alla Pubblica Istruzione del Comune di Modena. Clotilde Pontecorvo e' docente di Psicologia dell'educazione presso l'Universita' "La Sapienza" di Roma, ed autrice di numerose pubblicazioni] Era il 4 giugno del 1944, a piazza Farnese, a Roma, verso le nove di sera. Poche ore prima erano passati, sotto le finestre di un convento di suore svedesi, soldati tedeschi in ritirata. Noi eravamo una famiglia allargata di 25 persone, ospiti del convento da nove mesi. Appare una jeep da via del Mascherone, accanto a Palazzo Farnese. Si apre per la prima volta dopo tanto tempo il portone. A Roma c'era il coprifuoco, perche' c'erano i bombardamenti. Un soldato dice: "Nous sommes les soldats de De Gaulle". Il palazzo si illumina. Io avevo sette anni. Non so piu' se l'ho visto veramente o se me lo hanno raccontato. So che ne ho un ricordo indelebile, stampato nella mia memoria, insieme alle vicissitudini della fuga nella campagna toscana, in un podere sperduto e senza nome, presso il quale ci eravamo rifugiati per quindici giorni. Al ritorno avventuroso a Roma - con carte false che ci aveva dato un "Commissario della razza" di Siena (e che gli abbiamo poi restituito: i successivi documenti ce li fece il Partito d'Azione) - ricordo il trasporto dalla stazione alla casa della signora che ci ospito' e che per questo aveva rischiato moltissimo: una stanza per nove persone. E ricordo soprattutto che mi preoccupava moltissimo la carretta tirata da un cavallo con cui portammo le nostre masserizie. Quando poi -piu' grande- ho studiato la rivoluzione francese, ho sempre pensato che quella era la carretta con cui arrivavano i condannati a morte. Il 5 giugno sono finalmente arrivati i tanto attesi e sospirati alleati. La mia prima richiesta a mia madre e' stata: "Adesso, mamma, posso dire il mio nome?". La Liberazione per me e' legata alla ripresa dell'identita', a non doverla nascondere, al non dover fingere di essere cattolica, con tanto di partecipazione alla messa, ai vespri, con frequenza della chiesa, cosa che facevamo anche con quella capacita' che sanno dimostrare i bambini nell'adattarsi a questo tipo di richieste. Ricordo che una volta (in quel periodo la mia famiglia ritenne opportuno mandare me e una mia cugina da altre suore che si trovavano dall'altra parte del ponte), tornando a casa, ci fu un bombardamento - eravamo allenati anche a questo - e una suora ci chiese se avevamo avuto paura. Mia cugina che aveva sette o otto mesi piu' di me e che quindi era piu' pronta rispose: "No. Abbiamo detto un'Ave Maria". In realta' recitavamo delle Ave Maria, ma, come facevano e fanno tutte le altre bambine, insieme le trasformavamo, apportavamo dei cambiamenti e diventavano filastrocche. Era un gioco infantile di difesa. Queste esperienze sono nulla rispetto a quello che hanno rischiato e sofferto altre persone, eppure se ora, come genitore - forse io potrei anche essere nonna - dovessi chiedere a un figlio o un nipote di nascondere la propria identita', di fingerne e dichiararne un'altra, mi sembrerebbe una cosa difficile ed angosciosa. Quelle due frasi, quella pronunciata dai soldati francesi giunti in jeep a Palazzo Farnese, ambasciata di Francia - Nous sommes les soldats de De Gaulle - e quella pronunciata da me per richiedere la verita' su di me, la verita' su di noi - Posso dire chi sono? - sono state per me una seconda vita, sono state la possibilita' di ritornare ad essere me stessa. Ovviamente adesso vedo queste cose con l'occhio dell'adulto. Quando le ho vissute da bambina non erano cosi' terribili, erano un gioco. Ero molto piu' preoccupata del fatto che un cugino che aveva due anni e mezzo - che attualmente insegna in una universita' americana - non sapesse ancora ne' leggere ne' scrivere, non avesse imparato ancora queste cose fondamentali. In qualche modo come bambini si vive e si sopravvive. Ricordo, per esempio, che nelle nostre esplorazioni scientifiche con una cugina che aveva la mia eta' trovammo dei deliziosi animaletti che mettemmo in una scatolina che portammo ai genitori e che furono identificati come cimici. I bambini riescono anche in una situazione di questo tipo a fare un gioco di esplorazione scientifica. E anche se non ho subito traumi, se non ho racconti drammatici, ricordo benissimo quell'anno. Le mie figlie dicono sempre: "Come fai a ricordarti di ogni giorno?". Mi ricordo ogni giorno di quell'anno perche' noi bambini partecipavamo molto alla speranza e all'attesa della Liberazione. Anche se nutrivo personalmente molta paura per i bombardamenti ed ero molto meravigliata che gli adulti fossero felicissimi quando gli aerei arrivavano su Roma perche' voleva dire che avanzava la Liberazione. Nella distanza, nel ripensamento, ho capito che questa esperienza ha marcato profondamente la mia identita'. La mia identita' di persona e, forse anche di piu', la mia identita' di insegnante. Certe volte mi e' difficile stabilire dove cominciano e dove finiscono le due identita' perche' le sento molto radicate. Chi di noi e' uscito vivo dalla guerra, dal rischio di sterminio, chi ha sentito racconti in famiglia, chi li ha sentiti anche riportati, credo che non possa non interrogarsi oggi. Io l'ho vissuto nella realta', ma ho anche potuto ripensarlo molto dopo, forse solo dopo che ho iniziato ad insegnare. Quando ho iniziato ho subito pensato che lo dovevo dire ai miei studenti. Sentivo l'esigenza profonda e il dovere di dichiarare la mia identita' come se essa fosse soffocata. Non avere nome, non avere il proprio cognome, avere documenti falsi, doversi nascondere, dovere poi celare e fingere, era qualche cosa che non potevo piu' ammettere. E in questo senso, come ho detto, sento profondamente il nesso fra la mia identita' personale e la mia identita' di insegnante. Ho raccontato questo piccolo episodio, una narrazione minima, perche' vorrei dimostrare una prima cosa: il nesso fra identita' e narrazione. Ho detto che non so se certe cose le ho viste o le ho sentite raccontare. Ci sono dei miei ricordi di cose che "so" di non avere visto, perche' proprio per la mia esperienza di vita ho perso mio padre prima di nascere e quindi non l'ho mai visto. Pero' ho l'impressione di averlo visto, perche' mi e' sempre stato raccontato da mia madre, dai miei fratelli piu' grandi, dai miei parenti. La necessita' di narrare, di far narrare, di riscrivere la propria storia, non credo che riguardi solo chi ha vissuto la guerra o l'ha piu' profondamente sofferta o chi ha vissuto lo sterminio, o ancora chi lo ha subito attraverso le persone che gli stavano pu' vicino, e neanche, soltanto, i loro figli o i loro nipoti: credo che sia un discorso piu' generale. E' un discorso che riguarda la memoria. Accanto alla storia che si studia sui libri, accanto a quei modi che riteniamo piu' validi per rielaborare criticamente la storia, nella storia dell'Olocausto, nella storia della Shoah, nella storia dello sterminio, nella storia del dominio nazista, la memoria e' essenziale per la ricostruzione di questa vicenda. La memoria e' per definizione legata alla vita delle persone, al vissuto, all'individualita'. E' legata al recupero di quella individualita' che il sistema nazista voleva eliminare. Per questo e' cosi' importante che la memoria sia di nuovo al centro come un'attivita' continua del ricordare. In realta' io lego la memoria alla costruzione dell'identita': non all'identita' solo di chi ha subito questa esperienza, ma all'identita' di tutti. Perche' credo che nel fondo del disegno di sterminio ci fosse anche l'idea di definire la propria identita' attraverso l'eliminazione degli altri. E questo mi sembra un elemento assai pericoloso che si e' fra l'altro ripresentato molto inaspettatamente in questi ultimi dieci anni. Forse si era sempre ripresentato, ma noi non lo avevamo riconosciuto, almeno come ne siamo consapevoli oggi. La memoria e' l'elemento che costruisce la nostra identita' di individui e ci fa partecipi di cio' che ci accomuna agli altri, ci fa - come dice Sandro Duranti - "uguali, ma non troppo", perche' anche nell'identita' del nostro gruppo noi manteniamo la nostra individualita', il nostro modo di essere con un'identita' personale. Penso ad una pagina molto bella di Martin Buber, il quale descrive in modo assiomatico ed essenziale perche' mai gli uomini siano tutti diversi al di la' di cio' che noi sappiamo sul valore della diversita' genetica, della diversita' culturale. Buber dice che, se non fossimo diversi, non ci sarebbe ragione che un'altra persona sia al mondo. Un detto ebraico dice che chi salva una vita salva il mondo e chi distrugge una vita distrugge il mondo. A partire da questo, Buber analizza il valore dell'individualita': e' proprio perche' ciascuno e' irripetibile che ciascuno e' il mondo. Afferma anche che la differenza fra Dio e gli uomini e' che gli uomini hanno una forma che crea tutte cose uguali mentre Dio usa una stessa forma per creare esseri sempre diversi. Si tratta di una forte insistenza sull'individualita'. A me sembra che, nell'individualita', i gruppi, le comunita' rivestano un ruolo fondamentale. In questi ultimi anni ho studiato molto le famiglie, le interazioni familiari. Sto studiando come genitori e figli parlano fra loro quando sono insieme riuniti a tavola. E' un elemento molto consolante della cultura italiana l'importanza che ancora questo ha per molte famiglie. Non e' stato difficile per noi trovare famiglie che mangiano regolarmente insieme. A me sembra che e' dentro la famiglia che cresce l'identita': un modo di crescere di ciascuno che si definisce in rapporto agli altri per somiglianza e per differenza. Mi ha colpito - anche perche' in questi ultimi tempi ho condotto uno studio comparativo con alcune famiglie americane - come emerga in una sola conversazione a tavola delle nostre famiglie l'identita' di essere italiani, l'identita' di questo nostro paese ovviamente con tutte le differenze possibili nel modo di esserlo. Pero' ho capito quanto sia importante, nella costruzione dell'identita' familiare, non solo il mangiare insieme e il cibo, non solo la trasmissione delle tradizioni del mangiare, ma il piacere dei genitori di dare piacere ai figli attraverso il cibo, il tener conto del gusto, del temperamento individuale, in un certo senso l'importanza dell'individualita' che appunto passa anche attraverso queste cose. E d'altra parte la famiglia e' ancora il luogo privilegiato della comunicazione verticale, della comunicazione fra le generazioni, dove si puo' costruire una memoria della propria identita' come costruzione delle proprie matrici. In famiglia ci si ricorda, ci si racconta, ci si discute. Tutto cio' si lega molto a problemi che sono problemi presenti ma anche passati: si racconta quello che e' stato, anche il passato piu' presente, quello piu' immediato. La memoria familiare, generazionale, mi sembra un elemento importantissimo per il mantenimento degli aspetti positivi della memoria. Credo che allora sia altrettanto importante nella nostra opera di educatori mantenere in rilievo il legame che la memoria ha con i testimoni diretti. Ovviamente ormai i testimoni diretti sono pochi perche' io, che adesso ho i capelli bianchi, a quell'epoca ero una bambina. A volte penso che tante cose le ho veramente capite come potevano capirle i bambini e quelli che le hanno vissute sono ormai delle persone anziane. Quindi mi sembra che per noi questa sia forse l'ultima possibilita': siamo l'ultima generazione a raccogliere in senso lato delle testimonianze reali e dirette. Considero questo aspetto molto importante per renderci conto che l'identita', che e' stata in qualche caso negata - si voleva sopprimere - corre ancora oggi rischi molto gravi. Mi sembra che il progetto nazista si sia rivelato come un disegno di costruire al negativo la propria identita'. Come se l'identita' di gruppi, di etnie o di religioni si possa costruire soltanto eliminando gli altri fisicamente. Oggi non possiamo piu' ripensare Auschwitz e l'Olocausto senza ricordare la pulizia etnica, gIi sterminii, le uccisioni che continuamente avvengono nel mondo. E mi pare che questo problema non sia solo legato a fenomeni isolati: e' un fenomeno che persiste e che e' diffuso. D'altra parte l'eliminazione che e' stata perpetrata con la Shoah ha cominciato a distruggere prima le comunita', i gruppi, poi le famiglie attraverso la separazione e, poi, l'umanita' degli uomini per arrivare, infine, alla loro eliminazione fisica. Mi sembra che questo processo corrisponda al processo all'inverso che noi vorremmo rimettere in moto, che vorremmo ottimisticamente realizzare, nella scuola e nelle generazioni future. Certo, come insegnare Auschwitz? E' un problema difficile. Perche' per certi versi e' indicibile, e' difficilmente riducibile alle nostre normali categorie di interpretazione storica. Non e' in un certo senso spiegabile. Sono molto preoccupata quando qualcuno lo spiega perche' spiegare vuol dire anche giustificare. Fra la spiegazione e la giustificazione il passo e' molto breve. Le nostre spiegazioni nascono da giustificazioni. Spiegare significa immettere un evento in una rete che da' un senso. Ma Auschwitz non ha un senso. Ci vuole certo una spiegazione, ci vuole una ricostruzione storiografica, ma questa riflessione e' inevitabilmente legata alla comprensione delle persone che l'hanno vissuto, deve passare attraverso la storia delle persone. Io vedo in questo argomento la necessita' di una integrazione molto profonda fra memoria e storia. In fondo la critica storica ci ha abituato ad abbandonare la memoria, o almeno a metterla da parte - anche se oggi c'e' una grande rivalutazione della memoria - ma a me sembra che la memoria sia altrettanto importante che la storia. C'e' un tema che viene spesso sollevato quando si parla di questo argomento: il tema dell'unicita' o della comparazione. E' un evento unico? E' un evento comparabile? Sappiamo che la comparabilita' ha significato anche la strumentalizzazione dei revisionisti, cioe' di coloro che hanno detto non essere vero che erano state uccise tutte quelle persone, che c'era stato un programma di sterminio, di coloro che sostengono che a morire, e di malattia soprattutto, sono state poche migliaia di persone. Siamo molto preoccupati dalla comparabilita' di chi ci dice che altre cose sono successe ed altrettanto gravi. E d'altra parte e' anche vero che noi non vogliamo porre questo evento al di fuori della storia perche' significherebbe rendere possibile la sua riproduzione. E' quindi un rischio vederlo come un evento unico, cosi' come e' un rischio vederlo come uno dei tanti sterminii. Certo non va equiparato. Pero' non va nemmeno isolato. Credo che su questo vi sia un conflitto profondo, di cui fra l'altro sono stata recentemente testimone: I'Unione delle Comunita' Ebraiche italiane ha organizzato un convegno sul trauma psichico, a cui hanno partecipato Dina Wardi e Jossia Tab da Israele e Donald Cohen dagli Stati Uniti. In particolare Cohen ha ricordato il problema dell'unicita' e ha sottolineato, da un punto di vista ebraico, la necessita' di vedere il rischio dell'eliminazione dell'altro come sempre presente, l'impossibilita', cioe', di guardare a questo fatto in termini soltanto unici. Ha ricordato i venti milioni di neri che sono morti nel trasporto dall'Africa agli Stati Uniti, una cosa di cui non ho mai sentito parlare i molti buoni amici, e anche molto democratici, americani. Ma forse il conflitto per noi e' cosi' grande non gia' perche', a differenza di altri sterminii, questo fu cosi' organizzato e sistematico, ma perche' e' avvenuto in un paese cosi' civile, all'avanguardia della cultura, un paese che ha dato alla cultura europea e non europea dei contributi cosi' straordinari. E' questo il contrasto, non e' il fatto che questo si sia verificato nel modo in cui si e' verificato. Questo a me sembra un tema che non si puo' risolvere, cosi' come non si risolve il dilemma della indicibilita' e della necessita' di spiegarlo. Sono profondamente convinta che non possiamo non tenere conto di questi due temi, fatte salve ovviamente le critiche al revisionismo sciocco e quanto mai pericoloso. C'e' un conflitto, o se vogliamo un dilemma. E il dilemma e' per definizione qualcosa che non si risolve, con cui ci si confronta continuamente e che ci deve guidare nell'analizzare, nel capire, nel fare capire. Come parlare ai giovani che ci sembrano tanto diversi da noi? Credo che occorra partire dai loro gusti, dalle loro idiosincrasie spesso antiretoriche, dalle loro pre-conoscenze, dai loro pregiudizi. Con questi ci dobbiamo confrontare. Dobbiamo farli esplicitare, dobbiamo riconoscerli anche come senso comune. "Se e' successo questo agli ebrei, gli ebrei qualcosa devono avere fatto". Queste sono battute che si sentono dire. "Se d'altra parte sono molto potenti, avevano potere economico...", l'ho sentito dire poco tempo fa da una persona che lo diceva in buona fede. Ed ho capito il rischio che e' sempre palese in queste affermazioni. C'e' un altro aspetto che non dobbiamo dimenticare: l'insegnamento del disprezzo che per duemila anni la Chiesa ha favorito nei confronti degli ebrei. E' un tema che e' stato affrontato magistralmente da Julie Sac subito dopo la Liberazione in un libro che parte dalla ricostruzione storica e non storica (e comunque simbolica) della morte di Gesu'; quindi in qualche modo dall'accusa di essere il popolo "deicida". Tutto cio' e' profondamente radicato. Le cerimonie della Pasqua sono legate a questo ricordo. E' molto difficile per delle persone semplici, senza mediazione culturale, fare delle distinzioni. E' vero che e' stata fatta molta strada in questa direzione da Giovanni XXIII quando proprio per diretta influenza del libro di Julie Sac, attraverso l'attivita' della Societa' Ecumenica, attraverso Maria Vingiani si apri' a questo problema, ne capi' l'importanza. Credo pero' che qui ci sia un lavoro da fare con i giovani che deve anche affrontare questi temi, che deve partire anche da questi pregiudizi, che deve tenere conto anche di queste modalita' di porsi. Ed e' chiaro che in questo mi sembra fondamentale il ruolo della scuola. La scuola e' una sede privilegiata non solo - come diciamo sempre - per la costruzione degli apprendimenti di base, ma per la costruzione dell'identita'. Noi oggi rivalutiamo il ruolo della scuola come una sede dove si costruisce una comunita' piu' ampia. E, d'altra parte, siamo sempre piu' convinti che si apprende quello che e' coerente con la propria identita'. Non un'identita' rigidamente definita una volta per tutte, ma un'identita' flessibile che entra in relazione con quella degli altri. Quindi come costruzione di una comunita' di discenti, studenti-insegnanti come discenti, perche' gli insegnanti che fanno bene il loro mestiere sanno molto meglio di me che si insegna volentieri perche' si impara, altrimenti non si insegna volentieri e non si insegna bene. Ecco, la scuola e' un luogo di incontro privilegiato fra uguali (di eta'), ma diversi. Oggi forse piu' diversi di quanto non fosse in precedenza. E' un luogo di mediazione. Essa deve riprendere in pieno il suo ruolo per un'educazione civile, un'educazione morale. Non moralismo evidentemente, nessuno di noi vuole prediche, nessuno di noi vuole l'indottrinamento, ma nessuno di noi vuole nemmeno la delega di questa funzione, la delega per esempio alla famiglia, la delega al sacerdote, la delega all'insegnante di religione che in qualche caso ha sopperito a questa esigenza, a questa richiesta. Credo che la scuola possa e debba essere sempre di piu' un luogo di costruzione di valori condivisi, che hanno una storia, un'evoluzione, che hanno bisogno di essere analizzati conoscitivamente, ma che hanno soprattutto bisogno di essere praticati. La scuola non puo' piu' essere oggi eticamente neutrale. Ricordo qualche anno fa di avere fatto un incontro sull'insegnamento della religione cattolica nella scuola dell'infanzia al quale ha partecipato anche Cesare Luporini il quale era meravigliato di questa dichiarazione. Diceva che quando andava a scuola - si riferiva agli anni Trenta - non sapeva nemmeno che cosa gli insegnanti pensassero, c'era un principio - come dire? - di neutralita'. Questo secondo me ora non e' piu' possibile. Lui era meravigliato che io sentissi sempre il bisogno di dichiarare la mia identita'. Ma forse dal piccolo aneddoto che ho riportato all'inizio di questa conversazione voi capite che questa e' proprio una necessita' non solo mia, e' un modo di presentarsi. Non credo che la scuola possa essere neutrale. Non vogliamo una scuola di parte, temiamo molto una scuola che indottrina, ma aprire la scuola a un'analisi molto attenta di quelli che sono i nodi di questa educazione. Non e' materia di un insegnamento, e' un compito generale di educazione morale e civile, potremmo anche dire di educazione alla cittadinanza. Un problema cruciale e' quello del rapporto tra conoscenze e valori . Non si insegnano in realta' valori al di fuori di conoscenze. E, all'opposto, non si insegnano conoscenze senza valori. E uno dei valori importanti che la scuola deve trasmettere e' quello dell'onesta' intellettuale, dell'autonomia di giudizio, del gusto di capire, della capacita' di cambiare idea, della capacita' di trasformarsi: questi sono valori che sono legati al conoscere. Ci sono anche altri valori che piu' direttamente ci impegnano sul piano morale: penso ad un aspetto che ci riguarda profondamente come italiani. Ho detto prima che dal confronto con le famiglie americane emerge la solidita' psicologica della struttura familiare italiana e la forza della tradizione in cui molto importante e' il modo in cui i genitori si sostengono a vicenda nell'educazione dei figli. Pero' noi sappiamo che siamo un paese di solide virtu' individuali, famigliari, qualcuno ha detto "familistiche" - troppa famiglia - pero' siamo un paese di scarse virtu' collettive (ovviamente in generale ed a confronto con altri paesi). Credo che questo debba essere un tema su cui la scuola possa e debba intervenire. Cerco di concludere. D'altra parte questo e' un tema che non si puo' concludere, si puo' solamente aprire. In quali forme puo' la scuola rispondere a questa esigenza? Come fare scuola ricostruendo una memoria? Come fare scuola ricostruendo una storia, ma insieme aprendosi a diverse identita' e dando la possibilita' a ciascuno di creare la propria? Facendo pratica di democrazia, pratica di incontro, pratica di convivenza. Ricordo di avere usato diversi anni fa un libretto che Guido Calogero, che e' stato mio professore all'universita', aveva scritto nel '45. Si intitolava L'Abc della democrazia: i miei studenti lo discutevano con molto interesse lavorando autonomamente o a gruppi. E' una piacevolissima lettura, ma e' importante praticarla. Credo che ricorrenti fenomeni di organizzazione autonoma dei giovani - occupazione, autogestione, ecc. - in fondo manifestino un desiderio di praticare la democrazia. Noi stessi l'abbiamo imparata praticandola, non l'abbiamo certamente imparata a scuola. Nella scuola che noi frequentavamo questo non era affatto possibile, l'abbiamo imparata nei gruppi politici, nei gruppi giovanili, sbagliando anche, perche' queste cose si imparano facendo, si imparano sbagliando. Non c'e' altro modo. Eppure mi sembra che questa sia l'unica forma di educare alla responsabilita', ad assumere il proprio ruolo nel mondo, a rispettare il diverso, a confrontarsi con il diverso. Ci si potrebbe chiedere quando. Io direi subito. Ora. Questo e' possibile - fin dalla prima infanzia. E sappiamo che i bambini molto piccoli, gia' nelle prime fasi dello sviluppo, sono disposti ed anche impauriti dal diverso. Dobbiamo quindi metterli in condizione di ritrovare nel diverso il simile a se stesso, perche' la definizione di noi stessi passa attraverso questo rapporto di differenza e di somiglianza. Concludo con un Midrasch. Il Midrasch e' un racconto che serve ad interpretare il testo biblico. Nella tradizione ebraica il testo biblico non si legge soltanto, si legge e si rilegge, e soprattutto si interpreta. E questa interpretazione non e' mai conclusa. E' quella che si dice una lettura infinita. Questi racconti, che si costruiscono, sono ricostruzioni fantastiche che coprono in qualche modo i vuoti del testo, sono quelli che hanno permesso a questa cultura di sopravvivere, perche' l'hanno continuamente adattata ai bisogni, alle necessita', alle trasformazioni. E' un Midrasch che riguarda Abramo. Abramo discute con Dio della distruzione di Sodoma e Gomorra. Dio aveva mandato un angelo per dire: "E' un popolo totalmente traviato, irriducibile. Bisogna distruggerlo". Abramo discute a lungo. Chiede che cosa fara' Dio se ci sono cinquanta giusti. "Se ci sono cinquanta giusti io non distruggero' Sodoma e Gomorra" - e' la risposta. E Abramo: "E se ce ne sono quaranta?". "No, non distruggero'". "Trenta?". "No non distruggero'". Abramo scende ed arriva a dieci. Il Midrasch dice che Abramo e' anch'egli colpevole, responsabile della distruzione di Sodoma e Gomorra. Perche' Abramo poteva salvare Sodoma e Gomorra? Perche' non si puo' scendere al di sotto di dieci. Dieci e' il minimo perche' ci sia una comunita'; perche' un'identita' ha bisogno di una comunita'. Questo numero dieci ha in ebraico un valore particolare. Ma perche' Abramo si e' cosi' impegnato a discutere con Dio? Non tante persone hanno discusso con Dio come ha fatto lui. Ha cercato di fare il possibile fino in fondo? In realta' Abramo e' responsabile, perche' a Sodoma c'era Lot e la moglie (e sono due), c'erano le tre figlie (e si va a cinque), c'erano i mariti delle figlie (e quindi si arriva ad otto), c'era l'angelo che era andato ad annunciare la distruzione (e fa nove). Mancava un giusto: Abramo doveva andare a Sodoma e Gomorra. 5. MAESTRE. MIRELLA KARPATI: UNA PAGINA A LUNGO IGNORATA [Da un intervento di Mirella Karpati in AA. VV., La Chiesa cattolica e gli Zingari, Centre de recherches tsiganes, Centro studi zingari, Anicia, Paris-Roma 2000, p. 175. Mirella Karpati, intellettuale finissima e militante per i diritti umani di grande rigore, dottoressa in pedagogia, e' una grandissima studiosa della cultura zingara, impegnata a fianco di Sinti e Rom per il riconoscimento dei loro diritti; dal 1965 al 1999 e' stata direttrice della prestigiosa rivista scientifica "Lacio Drom" (la ripresa delle pubblicazioni della quale sarebbe di primaria necessita' oggi piu' che mai). Tra le opere di Mirella Karpati: (a cura di), Zingari ieri e oggi, Centro Studi Zingari, Roma; (con B. Levak), Rom sim. La tradizione dei Rom kalderasha, Centro studi zingari, Roma; (a cura di, con Ezio Marcolungo), Chi sono gli zingari?, Edizioni Gruppo Abele, Torino] Una pagina a lungo ignorata e a volte volutamente taciuta e' quella dello sterminio degli Zingari perpetrato nel Terzo Reich e negli Stati ad esso satelliti. 6. INCONTRI. CRISTINA PAPA: DONNE DAI LUOGHI DI CONFLITTO SI RACCONTANO [Da Cristina Papa, della redazione de "Il paese delle donne" (per contatti: womenews at womenews.net), riceviamo e diffondiamo] Il 30 ottobre le Donne in Nero con l'Istituto per il Mediterraneo e la collaborazione dell'Assessorato alle pari opportunita', organizzano un incontro, dal titolo "Donne dai luoghi di conflitto si raccontano", che si terra' alle ore 17,30 nella sala della Protomoteca a Roma. L'incontro prevede la partecipazione, in qualita' di testimoni, di un folto gruppo di donne provenienti da aree di conflitto, tra le quali: Palestina, Afghanistan, Magreb, Balcani, Pakistan. Alla conferenza prenderanno parte associazioni romane, rappresentanti dell'amministrazione comunale, esponenti della cultura e del mondo politico. 7. INCONTRI. RIUNIONE DEL COMITATO DI COORDINAMENTO DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO IL 17 NOVEMBRE A VERONA [Dal sito del Movimento Nonviolento (www.nonviolenti.org) riprendiamo e diffondiamo] Cari amici, e' convocata la quarta riunione del Comitato di coordinamento del Movimento Nonviolento che si terra' domenica 17 Novembre a Verona, con inizio alle ore 10,30 e termine prevedibile alle ore 17,30. Si ricorda a tutti gli eletti e ai rappresentanti dei gruppi locali l'importanza del Coordinamento, e si raccomanda la presenza e la puntualita'. All'ordine del giorno: approvazione del verbale precedente e verifica impegni presi; iniziative contro la guerra in Irak; percorso Marcia nonviolenta 2003; programma di "Azione Nonviolenta" 2003: campagna iscrizioni e abbonamenti 2003; resoconto del seminario dei Gruppi di azione nonviolenta; resoconto del Forum Sociale Europeo; salone dell'editoria per la pace; servizio civile volontario e formazione; varie ed eventuali. Il luogo dell'incontro e' la Casa per la nonviolenza, in via Spagna 8 (vicino alla Basilica di San Zeno): dalla stazione autobus n. 61 (direzione centro, scendere alla fermata di via Da Vico, all'altezza del Ponte Risorgimento); chi viene in macchina deve uscire al casello di Verona Sud, seguire la direzione centro fino a Porta Nuova, poi a sinistra lungo la circonvallazione interna fino a Porta San Zeno). Chi desidera pernottare, e' pregato di farcelo sapere. Il giorno prima del Comitato di coordinamento, sabato 16 novembre, sempre nella nostra sede, si terra' la riunione della redazione di "Azione nonviolenta" per la programmazione del 2003. 8. INCONTRI. UN SEMINARIO SULLA GESTIONE NONVIOLENTA DEI CONFLITTI [Dal Centro studi difesa civile (per contatti: laboratori at pacedifesa.org) riceviamo e pubblichiamo] Il Centro Studi Difesa Civile organizza il seminario: "La gestione nonviolenta dei conflitti. Quali finanziamenti, come ottenerli". Il seminario mira a fornire gli strumenti tecnici e finanziari atti a concretizzare l'ampia progettistica teorica esistente; e' particolarmente indirizzato agli operatori dell'area nonviolenta e del volontariato civile. Si svolgera' da venerdi' 22 (ore 15) fino a domenica 24 novembre (ore 13), presso l'agriturismo "Le Macchie", loc. Ponte Felcino, Perugia. Costi: 100 euro + 10 euro di quota associativa, comprensivi di alloggio. Per iscrizioni e maggiori informazioni: Carla Liuzzi, tel. e fax: 0755726641, cell.: 3490641907, e-mail: laboratori at pacedifesa.org Le richieste di iscrizione dovranno pervenire entro domenica 10 novembre. 9. INFORMAZIONE. E' USCITO IL NUMERO DI OTTOBRE DI "BILANCI DI GIUSTIZIA" E' stato pubblicato il n. 6/02, dell'ottobre 2002, della rivista elettronica mensile "Bilanci di giustizia", che riferisce dell'omonima campagna e fornisce utili materiali di riflessione, dibattito, iniziativa. Per contatti e richieste: "Bilanci di giustizia", direttore responsabile Andrea Semplici, redazione c/o Mag Venezia, via Trieste 82/c, 30175 Venezia-Marghera, tel. 0415381479, fax: 0415388190, e-mail: bilanci at libero.it, sito: www.unimondo.org/bilancidigiustizia. Per contributi: ccp 14643308 intestato a Gianni Fazzini, via Trieste 82/c, 30175 Venezia-Marghera. 10. LETTURE. DAVIDE MELODIA: INTRODUZIONE AL CRISTIANESIMO PACIFISTA Davide Melodia, Introduzione al cristianesimo pacifista, Costruttori di pace, Luino (Va) 2002, pp. 80, euro 10. Un agile studio scritto da una delle figure piu' belle della nonviolenza in Italia. 11. LETTURE. GIANLORENZO PACINI: FEDOR M. DOSTOEVSKIJ Gianlorenzo Pacini, Fedor M. Dostoevskij, Bruno Mandadori, Milano 2002, pp. 208, euro 11,50. Una utile introduzione al grande autore russo (la lettura delle opere di Dostoevskij abbiamo sempre pensato che sia indispensabile, massime per chi voglia impegnarsi per la pace, i diritti, la nonviolenza). 12. RILETTURE. GIULIO BUSI: LA QABBALAH Giulio Busi, La Qabbalah, Laterza, Roma-Bari 1998, 2002, pp. 166, euro 9,30. Una breve ma puntuale introduzione. 13. RILETTURE. SANDRO CALVANI: POVERTA' E MALSVILUPPO GLOBALE Sandro Calvani, Poverta' e malsviluppo globale, Piemme, Casale Monferrato (Al) 1995, pp. 220, lire 20.000. Uno dei volumi della bella "Biblioteca della solidarieta'" promossa dalla Caritas italiana. 14. RILETTURE. MARIA ROSA CUTRUFELLI: L'INVENZIONE DELLA DONNA Maria Rosa Cutrufelli, L'invenzione della donna, Mazzotta, Milano 1974, pp. 204. "Miti e tecniche di uno sfruttamento", recita il sottotitolo di questo bel libro. 15. RILETTURE. LANZA DEL VASTO: L'ARCA AVEVA UNA VIGNA PER VELA Lanza del Vasto, L'arca aveva una vigna per vela, Jaca Book, Milano 1980, 1995, pp. 256. Uno dei libri piu' belli di Lanza del Vasto. 16. RILETTURE. ROSARIA MICELA (A CURA DI): OPPRESSIONE DELLA DONNA E RICERCA ANTROPOLOGICA Rosaria Micela (a cura di), Oppressione della donna e ricerca antropologica, Savelli, Milano 1979, pp. 184. Una utile raccolta di saggi su "immaginario e realta' della subordinazione femminile". 17. RILETTURE. VALENTINO SALVOLDI INTERVISTA BERNHARD HAERING Valentino Salvoldi intervista Bernhard Haering, Cittadella, Assisi 1993, 1994, pp. 144, lire 16.000. Un colloquio tra i due alacri operatori di pace e di nonviolenza. 18. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 19. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org; per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: http://www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it; angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it. Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 395 del 25 ottobre 2002
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