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La guerra preventiva dello sniper di Washington
- Subject: La guerra preventiva dello sniper di Washington
- From: lanfranco caminiti <lanfranco at apolis.com>
- Date: Thu, 24 Oct 2002 21:32:13 +0200
La guerra preventiva dello sniper di Washington di lanfranco caminiti [http://web.tiscali.it/lanfrancoonline] "Shooting people of all ages, all races, all genders": colpire gente di ogni età, razza, genere. Nelle parole di Charles Moose, capo della polizia della Contea di Montgomery, c'è tutta l'orribile sintesi di uno stupore, un'impotenza, una rabbia, un dolore che non trova fili, ragioni, metodi, modi, di fronte alla serie di omicidi che il cecchino di Washington continua implacabilmente a eseguire. La cronaca, i romanzi, il cinema, la televisione ci hanno abituato a morti seriali di neri, di bambini, di donne, di ispanici, di bianchi, di gay, uccisi per il colore della pelle, per il sesso, per la classe sociale, persino per la taglia degli abiti o perché tifavano per i Mets o per i Dolphins. Qui siamo di fronte a qualcosa di spaventosamente nuovo, di sistematico, di sistematicamente spaventoso: è già successo che qualcuno sia salito sul tetto di un edificio e si sia messo a sparare all'impazzata contro tutto ciò che si muovesse. Ma mai quest'intenzione - colpire la vita a caso - era diventata sistema seriale, macchina per uccidere come capita. Lo prenderanno, speriamo. Ma qualcosa di spaventosamente nuovo è accaduto e forse irrimediabilmente, irreversibilmente. Qualcosa che riguarda tutti. Ci sono delitti orribili, episodi criminali che segnano epoche storiche, che fanno da spartiacque, che vivono di quell'epoca e la stravolgono: così, a esempio, è stato per Charles Manson e la sua Family e la dorata e meravigliosa California degli anni sessanta, degli hippies, dei figli dei fiori. E' l'estate del 1969. Nixon è da pochi mesi il nuovo presidente degli Stati uniti. Mezzo milione di soldati americani combatte in Vietnam, mentre l'immagine di Neil Armostrong che passeggia sulla luna fa il giro delle televisioni di tutto il mondo e si incide per sempre nei nostri occhi. Da appena una settimana è finita la leggendaria tre giorni di Woodstock. I ragazzi di Manson entrano nella villa di Sharon Tate e massacrano l'attrice e i suoi cinque amici, poi uccideranno ancora e ancora. Finisce un'epoca. Credo che lo stesso stia accadendo, accadrà con lo sniper di Washington. Per una volta mi viene da dire, senza sentire la venatura ipocrita dell'intenzione, "siamo tutti americani". Jack the Sniper Jack the Sniper è anche un serial killer e un terrorista, eppure propriamente non è un serial killer né un terrorista. Non è Jeff Dahmer, il cannibale di Milwaukee e della sua casa degli orrori, non è David Berkowitz, il "Son of Sam" che nel 1997 terrorizzò New York, e non è Theo Kaczynski, l'ex professore universitario Unabomber che per 17 anni mandò in giro dalla sua casetta sperduta nel Montana pacchi bomba mirati a scienziati e tecnici, uccidendoli o ferendoli, in nome della sua lotta contro la tecnologia disumanizzante. Jack the Sniper viene dopo l'11 settembre, dopo il più terribile atto terrorista della storia in cui hanno perso la vita uomini, donne, neri, ispanici, ebrei, manager, broker, analisti e personale delle pulizie, senza riguardo per l'età, la razza, il sesso: colpevoli solo d'essere lì, americani. Proprio come le vittime del cecchino: colpevoli solo d'essere lì, americani. In questo senso, le ripetute osservazioni della gente comune ma anche di opinionisti e tecnici sulla possibilità che il cecchino sia propriamente un terrorista [o un gruppo di terroristi] esprime ben più che una paura: è una consapevolezza. Qualcosa che non si riesce neppure a dire, a definire con esattezza: il killer seriale ha rotto gli argini delle sue patologie e ossessioni private per uccidere pubblicamente, per uccidere socialmente. Per uccidere politicamente. La sua patologia è diventata cosa pubblica, la sua patologia è diventata politica. Un uomo solo sta paralizzando la più grande potenza del mondo, della storia, sta ossessionando i sonni e i pensieri dei potenti e della gente qualunque, sta condizionando gli atti d'un impero, la vita quotidiana d'un impero: la viabilità, gli uffici, le scuole, le poste. Sta interrogando un impero. Come non è riuscito a fare bin Laden. Forse - ammesso non sia apocrifo - l'espressione più vicina al senso di quello che sta accadendo si trova in quel biglietto ritrovato vicino uno dei luoghi dove il cecchino ha colpito: "Ehi, poliziotto, io sono Dio". Lo sniper e il kamikaze L'idea della potenza devastante del proprio corpo come macchina per uccidere incondizionatamente è propria dello "shahid", del martire islamico che imbottisce la sua pancia di tritolo e si va a far saltare dove la gente si affolla. Un delirio di devastazione motivato soprattutto religiosamente: il martire restituisce a Dio - solo "padrone" del suo corpo e in nome del quale il suo corpo agisce - il potere sulla vita e sulla morte. E' stato un pensiero che ha attraversato per lungo tempo il movimento degli oppressi, dei reietti: il martire politico, il bombarolo, il narodniki, il terrorista, il pugnalatore di re e principi, motivava soprattutto politicamente il suo destino di distruzione e autodistruzione facendo delle sue proprie membra la "longa manus" d'un corpo sociale che si vendicava d'un sopruso, d'una strage, d'una condizione insopportabile. Il martire politico sottraeva il proprio corpo al potere - d'un sovrano, d'un sistema - e lo restituiva al "popolo". Per il kamikaze non ci sono innocenti, tutti sono colpevoli, sono suoi nemici, per il solo fatto di appartenere a qualcosa d'altro, a qualcosa che lui combatte, contro cui il suo popolo e la sua religione stanno schierati. Il martire è guerriero d'una guerra supposta e combatte altri guerrieri supposti: la sua guerra è una guerra senza "vittime", solo nemici. Lo sniper sembra invece voler colpire ciascuno e tutti proprio "in quanto" innocenti, in quanto pura e semplice vita, pura "forma di vita". Un serial killer rende colpa pubblica un carattere privato, un "male pubblico" di cui si è inconsapevoli portatori solo nella sua ossessione patologica, l'essere gay, l'essere donna e disponibile al mondo, l'essere giovane. Lo sniper è indifferente ai suoi nemici, alle sue vittime: è il suo mirino di cannocchiale che sceglie sulla base d'una maglietta ben visibile, d'una posizione favorevole, d'una luce che si proietta in un angolo, d'un cappellino che si inquadra facilmente. Non c'è alcuna relazione affettiva, sentimentale, passionale, carica d'odio con il bersaglio. Il cecchino dell'immaginario collettivo - quello delle guerre e delle loro efferatezze -, quello che al riparo d'una fessura inquadrava e mirava contro i nemici nella sua guerra di trincea - e fino a poco tempo fa, in Bosnia, in Kosovo -, aveva un mostruoso alone d'arte dell'uccidere. Ma se non eri nell'altra trincea, se non eri dalla parte sbagliata del fucile, non eri un suo bersaglio. Qui, invece, siamo tutti bersagli. Lo sniper di Washington è pura serialità, semplice sistema di annientamento preventivo. La guerra preventiva dello sniper contro la vita qualunque, contro qualunque vita, sembra aver introiettato il gesto terrorista all'ammasso e la guerra preventiva di Bush e del suo staff di consiglieri - quella che ha rotto l'argine del biblico "richiederai vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, ustione per ustione, ferita per ferita, lividura per lividura" [Esodo, 21,24]: laddove ogni forma di politica, d'una leadership, d'uno Stato, d'un gruppo sociale, può minacciare l'esistenza dell'impero e va colpito, abbattuto "prima", perché è già pericolo, nella follia di Jack the Sniper ogni forma di vita va preventivamente abbattuta, singolarmente abbattuta. Jack the Sniper combatte la sua guerra preventiva contro la vita, qualunque vita. Qualunque vita gli è ostile, nemica: "people of all ages, all races, all genders". Siamo tutti bersagli. "Ehi, io sono Dio". The Hyper Sniper C'è stato - e c'è tuttora - un diffuso convincimento che esistano delitti "europei" e delitti "americani", come a rispecchiare le insistite differenze di storia, di cultura, di vita quotidiana, di patologie. Per molti versi, si è guardato - e si continua a guardare - ai delitti "europei" come a uno stato precedente, in una catena evolutiva, quello dei delitti "americani", considerando questi come una esasperazione - sociale, economica, patologica - attuale e futuristica insieme di contraddizioni che qui nel vecchio continente non assumono quella forma. E nello stesso tempo, i delitti "americani" sono sembrati spesso una chiave di lettura per qualcosa che in Europa appariva qui e là, che incubava, quindi anche un destino ineluttabile che avrebbe accompagnato l'ineluttabilità delle similitudini di sistema, di vita. L'apparire di episodi sempre più similari ha però fortemente incrinato questa linea di distinzione: così è per i suicidi collettivi di sette esoteriche [i 912 membri della setta del "Tempio del Popolo" fondata del reverendo Jim Jones che si suicidano in Guayana equivalgono i 54 adepti della setta del "Tempio del Sole" rinvenuti morti o carbonizzati in uno chalet in Svizzera e in un altro nei pressi di Grenoble e questi, a loro volta, equivalgono le 39 persone, che appartenevano alla "Porta del Paradiso" e si suicidano in una villa di San Diego, in California. sostenendo di essere angeli scesi sulla Terra da un altro pianeta, dove avevano deciso di far ritorno]. Così è anche per i serial killer e le stragi senza senso in scuole o luoghi pubblici, e per lo stesso scambio di competenze e ritrovati tecnici per le indagini. Suonerebbe come una battuta volgare dire d'una globalizzazione del delitto: in realtà, poi, la globalizzazione del crimine è qualcosa che è sempre esistita da quando il crimine ha assunto i caratteri della modernità: qualsiasi organizzazione criminale [dalla mafia alla triade cinese, dai cartelli colombiani della droga alle speculazioni finanziarie] ha sempre avuto i caratteri dell'esportabilità e nello stesso tempo della differenza, della specificità. Ma ora, ovviamente, si parla di qualcosa d'altro, qualcosa legato all'esplosione della follia individuale, al passaggio da una patologia accumulata lentamente verso forme quotidiane, improvvise o resistenti, di delittuosità. Non è tanto l'efferatezza il carattere distintivo tra un luogo e l'altro, tra una società e l'altra: la casa degli orrori di Rochester non è poi molto diversa da quella di Milwaukee e da quella di Andrei Chikatilo, il cannibale russo, e la saponificatrice di Correggio preparerà biscottini all'inferno per Jeff Dahmer e per Charles Manson e l'inglesissimo dottore Harold Shipman scambierà opinioni tra le fiamme sulle sue 297 vittime con il nazistissimo Mengele o qualcuna delle infermiere svizzere, austriache o comasche che hanno operato in proprio, saltando il giuramento di Ippocrate. E però è anche vero che almeno finora nella cronaca, nella letteratura, nel cinema, nell'immaginario e nella realtà - anche quella operativa delle investigazioni di polizia -, il delitto "europeo" è legato alla personalizzazione del rapporto tra vittima e assassino e il delitto "americano" è più legato a un carattere impersonale - pur se non direttamente sociale - della relazione. Sempre in riferimento all'immaginario - ma anche nella realtà - l'investigatore europeo ha dalla sua l'accumulazione d'esperienza minuta e l'intuito come arma formidabile nelle indagini, mentre l'investigazione americana lavora soprattutto sugli elementi scientifici - e non solo sulle straordinarie tecnologie -, quanto proprio su un metodo ordinativo che si oppone alla serialità casuale, che individua e costruisce ordine nella follia. La vera efferatezza del crimine europeo è sempre stata storicamente la guerra: non c'è cannibalismo paragonabile a quello che ha attraversato - e ancora attraversa - il suolo e il sangue dell'Europa, dove fratelli d'un giorno prima diventano carnefici e vittime del giorno dopo. L'efferatezza del crimine americano [il suo gigantismo, la sua quantità] si manifesta invece nella quotidianità sociale. Accade ora, a me sembra, che se per un verso assistiamo a una sorta di "americanizzazione del delitto europeo" [la serialità, l'impersonalità del rapporto fra carnefice e vittima], per un altro verso, forse, c'è una sorta di "europeizzazione del delitto americano", ovvero l'interiorizzazzione del carattere della guerra, il "nemico interno". Ne sono stati segnali inquietanti, prima dello sniper di Washington, la diffusione dell'antrace via posta [questione senza soluzione investigativa, almeno pubblicamente nota] e la consegna di tubi di dinamite dentro le cassette postali di sperduti paesini della Sun Belt [acciuffato l'autore]. Non credo sia irrilevante in questo il fatto che le terribili immagini dell'11 settembre - del suolo americano colpito - siano anche similili a uno dei tanti orribili atti di guerra che hanno costellato la storia europea [Dresda? Coventry?]. La consapevolezza della guerra come cosa vicina, quotidiana, vissuta accanto. La fine d'ogni cintura protettiva. La consapevolezza del terrorismo come atto moderno di guerra che uccide indiscriminatamente. La consapevolezza della risposta di guerra che bombarda ciecamente considerando qualunque cosa si muova su quel territorio nemico come un nemico. Jack the Sniper è la prima figura "trasversale": è un serial killer, è un terrorista, è un guerriero, è uno qualunque: è europeo e americano. E' quantitativamente eccessivo, hyper, è qualitativamente eccessivo, connettendo guerra e assassinio, di qua e di là, è hyper. E' the hyper sniper. Speriamo lo prendano presto. Non so se tireremo un sospiro di sollievo o inizierà una nuova angoscia. Roma, 24 ottobre 2002
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