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La "guerra mediatica" di Adriano Sofri
- Subject: La "guerra mediatica" di Adriano Sofri
- From: Carlo Gubitosa <c.gubitosa at peacelink.it>
- Date: Fri, 18 Oct 2002 17:17:50 +0200
La "guerra mediatica" di Adriano Sofri di Carlo Gubitosa - segretario associazione PeaceLink www.peacelink.it - info at peacelink.it"Anche le armi possono fermare i massacri", scrive il quotidiano "La Repubblica" sulla prima pagina del 15 ottobre. L'autore dell'articolo in questione è lo stesso Adriano Sofri che dalle pagine di quel quotidiano, il 19 luglio 2001, ha invitato i ragazzi che hanno contestato il G8 ad una scelta nonviolenta più esplicita e determinata. La propaganda, d'altronde è anche questo. Sofri ha gettato la sua esca polemica e per un attimo tutto svanisce: il segreto bancario che finanzia il terrorismo (e i costruttori di armi che non fanno affari solamente con l'Iraq), la strage silenziosa dell'embargo, la chiarezza geografica di una via del petrolio che collega sullo stesso percorso di morte l'Afghanistan, il Kossovo, L'Iraq e la nostra scampagnata domenicale in automobile. Ma facciamo finta di stare al gioco, dimentichiamoci di tutto questo e proviamo per un attimo a ragionare solamente su quello che Sofri ha dichiarato, e non sull'utilizzo strumentale delle sue affermazioni, materia prima preziosissima per quella "gestione del consenso" che ormai è patrimonio comune di tutti gli esperti di strategie belliche. Facciamo finta che Sofri sia solamente una persona inconsapevole di essere un ingranaggio in una macchina di propaganda, e chiediamoci il senso delle sue affermazioni. Prima dichiarazione: "lo sminatore è il mio eroe", quasi a voler insinuare che il ripudio della guerra in realtà non sia altro che una sottile forma di insofferenza e astio verso chiunque indossi una divisa. Fa piacere scoprire che almeno gli sminatori hanno qualcuno che li difende, ma a partire da questo non si può fare a meno di chiedersi chi difenderà tutti i soldati italiani che nelle ultime guerre, e nelle successive occupazioni militari camuffate da "missioni di pace", sono stati pesantemente esposti all'inquinamento radioattivo dei proiettili all'uranio proibiti dalle convenzioni internazionali che l'Italia ha ratificato, ma che comunque non costituiscono un vincolo per la Nato.
Sofri prosegue il suo discorso con una domanda retorica: "bisognava o no che qualcuno si ponesse il problema di metter fine alla tirannia dei Taliban?", rivelando che in realtà non siamo andati in Afghanistan per difenderci dal terrorismo, o per catturare il capo di una sanguinaria organizzazione terroristica internazionale. Tutte le motivazioni con cui è stata legittimata la guerra in Afghanistan erano solo dei pretesti per nascondere un obiettivo chiaro e limpido: dobbiamo mettere fine alla tirannia dei Taliban, dobbiamo "democratizzare" una nazione, dobbiamo fare ciò che è giusto. Da questo punto di vista Silvio Berlusconi si è dimostrato meno ipocrita degli altri "alleati", affermando candidamente che l'occidente interviene nei paesi islamici in quanto portatore di una "civiltà superiore". Non ho problemi ad ammettere che ci sia gente sinceramente convinta della necessità di gettare ogni tanto qualche bomba in nome della giustizia, ma nessuna di queste persone è ancora riuscita a spiegarmi come mai sono gli Stati Uniti d'America a dover decidere quali sono le tirannie da rovesciare a suon di bombe, anzichè lasciare al nostro parlamento la decisione sulle "battaglie di civiltà" da intraprendere, magari in paesi dove c'e' meno petrolio e più soppressione di vite innocenti. Chi sostiene che "era necessario rovesciare i Talebani", dovrebbe chiedersi in nome della coerenza e della logica se non sarebbe altrettanto necessario dare un ultimatum anche ad altri paesi denunciati più volte per le loro violazioni dei diritti umani, o addirittura bombardare la svizzera per estorcere con la forza i nomi e i cognomi dei signori del narcotraffico, dei mercanti di armi e dei terroristi che nascondono tra le mucche e il cioccolato i tesori indispensabili alle loro attività.
Successivamente Sofri si avventura in una interessante metafora, paragonando alla chirurgia il ricorso estremo, ormai sempre più quotidiano, ai bombardamenti in alta quota, fatti per ridurre a zero il rischio per le "nostre" vite. Strano paradosso, quello della "guerra aerea", la "guerra celeste" che porta "giustizia infinita" e "libertà duratura". Per noi e per i nostri figli chiediamo strade più sorvegliate, il "poliziotto di quartiere" e la presenza delle forze dell'ordine in ogni angolo di strada. Per la sicurezza degli altri, invece, non c'e' bisogno di mandare a terra delle truppe di figli "nostri", che rischierebbero la loro incolumità, ma bastano due o tre "operazioni chirurgiche" a suon di bombe. Trasportata sul piano della politica interna, la giustizia "chirurgica" di Sofri apre uno scenario apocalittico nel quale la polizia italiana non si arrischia a scendere per strada, ma mantiene l'ordine e la legalità solamente con l'uso di elicotteri. Chi vorrebbe vivere in un paese così? Anche Sofri ammette che "opporsi in assoluto a ogni ricorso internazionale alla forza equivale esattamente a negare l'esistenza di una polizia entro i confini di uno Stato". E allora trasformiamoli in polizie, questi eserciti. La polizia è sottomessa all'autorità giudiziaria, e allora opponiamoci ad ogni intervento unilaterale al di fuori dell'autorità Onu; la polizia agisce sul territorio, e allora smettiamola di intervenire come "angeli vendicatori" dall'alto dei cieli, la polizia non ha l'obiettivo di annientare un nemico, ma quello di proteggere altre persone, e allora facciamo interposizione nei conflitti anzichè risolverli a schiaffoni; la polizia usa tutte le volte che può armi non letali, che servono solamente a fermare senza uccidere, e allora mettiamo al bando le bombe a grappolo, i proiettili all'uranio, le testate nucleari e gli scudi spaziali largamente utilizzati dalle "civiltà superiori"; la polizia, infine, è soggetta ad un controllo e può essere condannata per i suoi abusi, allora imponiamoci affinchè la Nato sia controllata e condannata per tutte le violazioni della convenzione di Ginevra, che proibisce di bombardare strutture civili, come ad esempio il palazzo della televisione serba raso al suolo nel 1999 dalle "nostre" bombe.
Sofri poi se la prende con "i convinti pacifisti che non mossero un dito per liberare Sarajevo dall'assedio", dimenticandosi che un gruppo di quei pacifisti, guidati da don Tonino Bello, ha rischiato la propria vita per condividere quell'assedio assieme alle vittime della violenza, e che la sordità dimostrata dai nostri governanti verso quel gesto non è frutto dell'inutilità o della stupidità del pacifismo, né tantomeno di una inevitabile cattiveria umana, ma è stata una scelta deliberata e criminale di quella stessa comunità internazionale che ha trovato utile abbandonare Sarajevo al suo destino e oggi ritiene altrettanto utile affilare le armi contro l'iraq. Sofri afferma senza esitazione che "per interrompere i massacri occorre mettere in campo una forza armata internazionale" ma non si chiede qual è la ricetta per prevenire i massacri prima ancora che si renda necessario interromperli. Il pacifismo che gioca sempre "in difesa", contestando decisioni già prese senza proporre alternative, è solo l'altra faccia di un militarismo ottuso che rincorre presunte "emergenze" con serie interminabli di campagne aeree, risparmiandosi lo sforzo necessario per dare alla politica e alla diplomazia un respiro più ampio, indispensabile per gestire le tensioni sociali prima che si trasformino in guerre sanguinose. Dopo aver apostrofato Gino Strada affermando che "con te voglio litigare di brutto", alla fine Sofri si riscopre concorde con il dottore di Emergency, e dichiara alla fine della sua arringa che "sono contrario alla guerra minacciata contro l'Iraq e alla sua filosofia, e spaventato dalla sua ignota modalità. Ma mi sembra pazzesca l'assimilazione fra Saddam Hussein e Bush, che tu proclami a muso duro". Quindi il problema sarebbe solo questo: per quanto possa essere criticabile Bush, Saddam è sicuramente più cattivo, perchè ha le armi chimiche ed è sicuramente disposto ad usarle. "Non comprendo tutte queste riserve sull'impiego di gas: sono decisamente a favore del lancio di Gas venefici [...] Non è del resto necessario usare i gas più letali; possono essere ad esempio usati quei gas che provocano gravi disagi fisiologici e seminano efficacemente il terrore senza per questo lasciare effetti permanenti sulle persone colpite. [...] Le armi chimiche non sono altro che l'applicazione della scienza occidentale alla conduzione di una guerra moderna". Il testo tra virgolette non è di Saddam Hussein. ma è stato pronunciato nel 1920 dal "ministro per le colonie" Winston Churchill, quando un paese che oggi vuole portare all'estero la democrazia e la legalità non esitava ad impiegare le armi chimiche contro gli iracheni e i curdi che si ribellavano alla dominazione britannica. Chissà se Sofri pensa che in quella occasione qualcuno avrebbe dovuto bombardare l'Inghilterra.
------------------ L'ARTICOLO ------------------ LA POLEMICA Cari pacifisti, anche le armi possono fermare i massacri di ADRIANO SOFRI CARO Gino Strada, voglio litigare con te, di brutto. Sarebbe meglio farlo di persona, nel Panshir, magari a Pinerolo: peccato. Ma tu sarai così generoso da litigare senza scrupoli, come se fossimo tutti e due a piede libero, in un autogrill. Comincerò con l'elogio dello sminatore, che in questo momento storico è il mio eroe. Ne ho appena visto uno in tv, militare di professione, ora smina da volontario coi miei amici di InterSos in Afghanistan. Ne conobbi altri. Una giovane donna, in Bosnia - là si chiama diverzant, lo sminatore - mutilata, temeraria. Voleva salvare vite, dicevano di lei che volesse morire. Ho sentito dire di campioni dello sminamento, che erano stati in passato collocatori di mine: gente che tornava sui suoi passi, come dovrebbe fare l'umanità intera. Fin qui siamo d'accordo, anzi, tante cose le ho imparate da te. Ora lo sminatore - la sminatrice volontaria - è dunque il mio eroe: tuttavia bisogna che qualcuno si occupi della questione generale, di mettere al bando le mine, la produzione, lo smercio, l'impiego eccetera. Proprio tu ti impegnasti in questa campagna generale. Si striscia a disinnescare o a far brillare una mina dietro l'altra, per milioni e milioni di mine; si cura un mutilato dopo l'altro, si fabbrica una protesi su misura dietro l'altra - ma bisogna pure provare a interrompere, almeno a ridurre, la guerra, posatrice di mine e avida di mutilazioni. Tu curi la gente, e quanto alla questione generale, la guerra, che aborrisci, ti affidi all'educazione alla pace. Fra la mirabile cura chirurgica delle vittime di ogni colore, e un'umanità ricreata dall'educazione alla pace, c'è, a esser molto ottimisti, un enorme intervallo. È su questo intervallo che voglio litigare. Nella guerra, le guerre, afgane, più lunghe di quella di Troia, tu curavi la gente: ti chiedevi chi e come potesse far finire la guerra? (Non è una domanda retorica: non lo so davvero. Non lo ricavo neanche dal tuo bel libro: "Buskashi"). Non era certo affar tuo; forse credi che nessuno possa far niente per far finire le guerre, e che si possa solo curare, operare, sminare. Il problema nasce quando qualcuno prova a far finire la guerra. In Afghanistan non ci ha provato nessuno, a lungo: l'hanno combattuta ed eccitata, ognuno dalla sua parte, ogni potenza dalla sua parte, finché una specie di stallo ha consegnato gran parte del paese al truce fanatismo Taliban. Stato-non Stato, tirannide brutale contro donne e bambini, territorio infeudato a un'Internazionale del terrore. Bisognava o no che qualcuno si ponesse il problema di metter fine alla tirannia dei Taliban? Di strappare la frusta dalle mani degli squadristi? Prima dell'11 settembre, anni prima, io battevo le mani al lavoro afgano tuo e dei tuoi, e del dottor Cairo, e pensavo che la comunità internazionale dovesse intervenire a riportare le condizioni minime della convivenza civile in quel paese. Non sapevo come; condivisi l'illusione che Shah Massoud fosse il leader da sostenere. Massoud venne in Europa a chiedere aiuto, ignorato. Non era l'eroe senza macchia, benché fosse un eroe. Pensavo che la condizione delle donne equivalesse a uno smisurato campo di concentramento e di torture. Che si fosse nel caso in cui guerra e oppressione non sono state prevenute, e c'è bisogno urgente di soccorso. È così nella cura per la salute e la medicina, no? C'è un'educazione alla salute, c'è una medicina preventiva, c'è, quando si sia a quel punto, il ricorso alla chirurgia. Le persone possono trovarvisi, che abbiano gozzovigliato o seguito una dieta salutista, che si siano educate alla prevenzione o che abbiano creduto all'omeopatia: e però ormai devono affidarsi al chirurgo. E i paesi, i popoli? Nel tuo Afghanistan non successe niente. Non gliene fregava niente a quasi nessuno. Poi c'è stato il 9 settembre, l'assassinio di Massoud, e poi l'11 settembre. L'amministrazione americana - e la coalizione adunata attorno a lei col mandato dell'Onu - ha additato in Al Qaeda (che l'ha rivendicato) l'autrice dell'assalto a Manhattan e a Washington, ha preteso la consegna di Bin Laden, è intervenuta militarmente contro l'Afghanistan del mullah Omar. Ogni volta che si ricorre alla forza, tu dici, le vittime sono i civili innocenti. Ma in Afghanistan da anni e anni i civili innocenti erano vittime di guerre. Tu lo sapevi meglio di chiunque: li ricoveravi, li operavi. Nell'Afghanistan del dopo 11 settembre, non-Stato escluso dall'Onu, infeudato ad Al Qaeda, bisognava intervenire? Bisognava impegnare le proprie energie perché il modo di intervenire fosse il più rispettoso della vita e della dignità umana, o opporglisi comunque come a un'infamia bellicista? Credo questo: si può fare obiezione a qualunque decisione che, anche col proposito di salvare vite umane in numero ingente, sacrifichi la vita di innocenti, fosse pure un solo innocente. Questa obiezione di coscienza può segnare insuperabilmente il convincimento morale di un singolo individuo. Non quello di un responsabile pubblico, un militare o uno statista. Un responsabile pubblico misura relativamente la sua morale, che, per essere relativa, non è meno rigorosa. Non si illude di escludere in assoluto il sacrificio di vittime innocenti, ma vuole ridurne al minimo il rischio. Non ammazza né tortura prigionieri, anche i più colpevoli. Rifiuta, in Palestina, di far esplodere una vettura sulla quale, con un pericoloso capo terrorista, viaggiano persone innocenti, e dei bambini. Non ammette che, in nome del pericolo probabile ma futuro, si sacrifichino oggi degli innocenti. Apprezza l'incolumità della gente del "nemico" come quella della propria gente. Questo era il problema imposto dall'intervento in Afghanistan, e in qualunque altro luogo del mondo. Opporsi in assoluto a ogni ricorso internazionale alla forza equivale esattamente a negare l'esistenza di una polizia entro i confini di uno Stato. Solo il pregiudizio, e l'abitudine, impediscono ancora di vederlo. L'intervento in Afghanistan è avvenuto. È costato lutti evitabili e delitti cercati, ai civili e ai combattenti. Ti domando: i civili colpiti oggi in Afghanistan sono più numerosi o molto meno? Gli arti mutilati sono più o meno? Le mine collocate sono più o meno? Si mettono nuove mine o si smina? Le frustate alle donne sono più o meno? È vero, secondo una quantità di fonti attendibili, che la maggioranza delle donne indossa ancora il burqa. A Herat, è stato ripristinato l'obbligo. A Kandahar, lo portano pressoché tutte. A Kabul sono numerose quelle che se ne sono sbarazzate. Ti domando: quelle che possono scegliere di non indossarlo sono molte di più o no? Tu sei arrivato a dire che le uniche donne senza burqa sono pagate dai fotografi occidentali! Affermazione enorme, se fosse vera, e degna di verifica. Intuisco quanto ti stia a cuore quel paese. Ma allora: perché la - precaria, difettosa, mediocre - liberazione di Kabul non viene festeggiata con le lacrime agli occhi da te e da tutti noi? Perché nelle cose che dici e nell'espressione del tuo viso, al contrario, sembra di leggere un rammarico? Un rimpianto per la Kabul com'era? Perché il ritorno di due milioni e passa di profughi in Afghanistan non viene salutato con le lacrime agli occhi? Non smetto di chiedere perché i convinti pacifisti che non mossero un dito per liberare Sarajevo dall'assedio (il più lungo della storia moderna, più che a Leningrado) e dallo stillicidio delle bombe e dei cecchini, e anzi proclamarono la loro opposizione attiva a un intervento militare internazionale che sbloccasse l'assedio, e profetizzarono lo scoppio della Terza Guerra Mondiale, quando quell'intervento avvenne, con gli aerei della Nato, e in pochi giorni, e senza vittime innocenti, sbloccò l'assedio e liberò Sarajevo, non festeggiarono con le lacrime agli occhi? Non era la pace, si sapeva, lo sapevo: era solo (solo!) la fine del massacro quotidiano. L'interruzione del massacro, vegliata, ancora oggi, dalla polizia internazionale. Sono innumerevoli i posti della terra in cui si può pregare per la pace, ma per interrompere i massacri occorre mettere in campo una forza armata internazionale, e tenercela. E magari farle patrocinare libere elezioni, come a Timor est. Sono contrario alla guerra minacciata contro l'Iraq e alla sua filosofia, e spaventato dalla sua ignota modalità. Ma mi sembra pazzesca l'assimilazione fra Saddam Hussein e Bush, che tu proclami a muso duro. Pazzesca l'indifferenza alla democrazia, per formale e imperfetta e violata che sia. Alla distanza fra governi eletti a suffragio universale e sanguinarie dittature assirobabilonesi. So darmene solo una, ma inadeguatissima, spiegazione. Io credo che la - brutta, difettosa, violata - democrazia debba essere la condizione della convivenza civile in ogni parte del globo. Tu forse pensi - come certi etnologi relativisti che non sono ancora tornati a casa, come i leader cinesi, come i capi tribali patriarcali, come i fedeli della sharia - che la democrazia sia il pregio o il tic di un pezzetto di mondo, e sia fuori posto e disadatta a tanta altra parte del globo. Non riesco a capacitarmene, e mi spaventa. Mi spaventano le persone che mi sono care, note e ignote, che ripetono generosamente di essere sempre e comunque contro l'impiego della forza. Si sono dimenticate di Auschwitz, e non hanno voluto imparare dov'è Srebrenica, e che cosa è successo, e quando. (15 ottobre 2002)
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