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La nonviolenza e' in cammino. 381
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 381
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Fri, 11 Oct 2002 09:33:37 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 381 dell'11 ottobre 2002 Sommario di questo numero: 1. Aldo Capitini, nell'insieme delle cose umane attuali 2. Giobbe Santabarbara, opporci alla guerra 3 Vincenzo Orsomarso, globalizzazione e globalizzazione dal basso 4. Filomena Perna intervista Pietro Pinna 5. Programma del seminario sulla nonviolenza al Forum sociale europeo di Firenze 6. Claudia Fanti, resoconto del seminario della Rete di Lilliput sulla nonviolenza 7. Letture: "Micromega", Non perdiamoci di vista! 8. Riletture: Gerard Houver, Jean e Hildegard Goss. La nonviolenza e' la vita 9. Riletture: Joan Robinson, Liberta' e necessita' 10. Riletture: Tzvetan Todorov,Noi e gli altri 11. La "Carta" del Movimento Nonviolento 12. Per saperne di piu' 1. MAESTRI. ALDO CAPITINI: NELL'INSIEME DELLE COSE UMANE ATTUALI [Da Aldo Capitini, Scritti sulla nonviolenza, Protagon, Perugia 1992, p. 423 (da un articolo apparso su "Azione nonviolenta" dell'aprile-maggio 1967). Aldo Capitini e' stato il principale promotore della nonviolenza nel nostro paese] Nell'insieme delle cose umane attuali due fatti colpiscono: l'enorme spesa per le armi; l'immenso numero di sofferenti di fame. Sono due fatti antitetici. 2. EDITORIALE. GIOBBE SANTABARBARA: OPPORCI ALLA GUERRA 1. Non dobbiamo stare a giustificare perche' siamo contro la guerra. Siamo contro perche' non siamo assassini, e la guerra della commissione di assassinii consiste. Siamo contro perche' vogliamo vivere, e pensiamo che ogni essere umano lo voglia per se', e ne abbia diritto, tutti ne abbiamo diritto. La guerra e' nemica dell'umanita'. 2. Dobbiamo invece esigere che lo stato italiano si impegni contro la guerra in adempimento del dettato costituzionale. Se governo, parlamento e presidente della Repubblica non si impegnano contro la guerra tradiscono un ineludibile dovere che la legge fondamentale dello stato italiano impone loro: il ripudio della guerra. Se governo, parlamento e presidente della Repubblica si esprimono per la guerra commettono gravissimo un reato, si rendono fuorilegge e golpisti. Negli ultimi anni cio' e' gia' accaduto varie volte; e' sintomatico della barbarie che assalta e corrode il nostro paese il fatto che per la reiterata commissione di questi sanguinari ed infami crimini coloro che se ne sono macchiati non siano stati ancora chiamati a risponderne dinanzi a una corte di giustizia. 3. Non dobbiamo assumere atteggiamenti che indeboliscono le nostre posizioni: non diciamo stupidaggini che semplificano cio' che non e' semplificabile; non facciamo tirate propagandistiche che convincono solo chi e' gia' convinto; non strumentalizziamo noi stessi. L'impegno per la pace deve fondarsi sulla verita', sull'onesta', sulla lealta'. 4. E dunque ad esempio: - diciamo chiaro che siamo contro la violenza e per la nonviolenza; - diciamo chiaro che siamo impegnati nella solidarieta' con gli oppressi contro ogni potere e regime oppressivo, e massime contro quelli terroristici e totalitari: chi e' ambiguo su questo non aiuta la causa della pace; - diciamo chiaro che non intendiamo servirci dell'impegno per la pace e la dignita' umana per altri fini, particolari e di parte, che non siano appunto la pace e la dignita' umana; - diciamo chiaro che la guerra comincia gia' col produrre e mettere a disposizione le armi per condurla; che la guerra comincia gia' con la rapina che un sistema di dominazione planetario crudelissimo diuturnamente realizza ai danni dell'umanita' intera e della vivibilita' del mondo; che la guerra comincia gia' quando tu taci di fronte all'ingiustizia e quando tu godi dei vantaggi di un'iniquissima ripartizione delle risorse; - diciamo chiaro che non basta dire l'esigenza della pace, occorre fare l'azione che pace costruisce. 5. E dunque facciamo qualcosa, e cio' che fare occorre e', ad esempio: - denunciare i poteri e i potenti che usano del terrore e della guerra; - dennciare i poteri e i potenti che cooperano al terrore e alla guerra, anche con la sola indifferenza; - opporci al loro potere iniquo, ai loro disonesti interessi, ai crimini loro, in difesa della pace e dell'umana dignita'; - opporci agli strumenti di morte: alle armi e agli eserciti tutti; - recare aiuto alle vittime tutte di guerra e di fame, di ingiustizia e terrore: inviando loro soccorsi, accogliendole fraternamente tra noi, costrunedo rapporti equi e solidali, ed esercitando quella piu' alta forma di giustizia che e' la misericordia; - opporci alla guerra nel modo piu' nitido ed intransigente: in difesa delle vite umane innocenti, e in difesa e adempimento del diritto internazionale e della legalita' costituzionale; opporci alla guerra con azioni dirette nonviolente, con campagne di disobbedienza civile, con lo sciopero generale; - fare la scelta dell'accostamento alla nonviolenza come rigorizzazione intellettuale e morale, come teoria-prassi umanizzante; fare la scelta della nonviolenza, senza della quale l'impegno per la pace resta mutilo ed inefficace; fare la scelta della nonviolenza, senza di cui sara' impossibile contrastare la barbarie e le distruzioni. 3. RIFLESSIONE. VINCENZO ORSOMARSO: GLOBALIZZAZIONE E GLOBALIZZAZIONE DAL BASSO [Ringraziamo Enzo Orsomarso (per contatti: vorsoma at tin.it) per averci messo a disposizione questo suo intervento, gia' apparso su "L'ora locale", settembre-ottobre 2001. Enzo Orsomarso insegna a Viterbo ed e' studioso e saggista di acuta analisi e di forte passione civile] Dopo i fatti di Genova e le violenze poliziesche operate soprattutto ai danni di manifestanti pacifici, mentre gruppi di provocatori venivano lasciati liberi di devastare la citta' ligure, i termini di globalizzazione e antiglobalizzazione continuano a tenere banco sui mezzi di comunicazione, ma il tutto viene ricondotto a questioni di ordine pubblico; un gioco mistificante a cui si prestano molto diligentemente le tante firme presenti sul libro paga del Presidente del Consiglio. E' una ragione in piu' per tentare di fare, per quanto molto sinteticamente e in modo parziale, il punto su alcuni degli elementi di un tema molto articolato e su cui ormai da tempo si concentra l'iniziativa del "movimento dei movimenti" come viene definita la complessa rete di raggruppamenti che contesta la globalizzazione neoliberista e nel cui ambito sta prendendo corpo un progetto alternativo di globalizzazione dal basso (Cfr. M. Pianta, Globalizzazione dal basso, Manifestolibri, Roma 2001), fondata sulla democratizzazione dei processi decisionali in materia di politica economica e commerciale che riguardano l'intera umanita', ma di fatto assunti solo dai paesi piu' industrializzati. Procedendo con ordine iniziamo proprio intorno al termine globalizzazione, un fenomeno da iscrivere nella tendenza del capitalismo a costruire un sistema economico mondiale e che negli ultimi due decenni ha conosciuto una accelerazione senza precedenti interessando il commercio, la produzione e la finanza. Si tratta di un movimento favorito dalle innovazione nella microelettronica nelle comunicazioni e nei trasporti che hanno reso possibile, grazie anche alla deregolamentazione commerciale e finanziaria e alla progressiva omologazione culturale, la libera circolazione non solo di merci ma anche di capitali e monete. In sostanza le trasformazioni dell'economia globale degli ultimi due decenni possono essere interpretate come lo sviluppo parallelo e interdipendente di tre processi: - il cambiamento tecnologico, con l'emergere di un "nuovo paradigma" basato, come dicevamo, sulle tecnologie dell'informazione e della comunicazione; - l'internazionalizzazione della produzione, con l'affermarsi di sistemi di produzione internazionali controllati dalle grandi imprese multinazionali; - la finanziarizzazione dell'economia, con l'emergere di attivita' finanziarie che hanno un peso fortemente crescente rispetto all'economia reale e che si sviluppano a scala effettivamente globale. A quest’ultimo proposito va precisato che fino agli anni '80 gli stati avevano mantenuto varie forme di controllo sui movimenti dei capitali e sulle piu' generali attivita' finanziarie; inoltre i governi avevano a disposizione diverse misure per controllare le fluttuazioni dei cambi, iniziate con la fine, nel 1971, del sistema a cambi fissi nato dagli accordi di Bretton Woods del 1944. * L'evento La deregolamentazione e la liberalizzazione delle attivita' finanziarie avviate dai campioni del neoliberalismo degli anni '80, Margaret Thatcher in Gran Bretagna e Ronald Reagan negli Stati Uniti, hanno rimosso ogni vincolo nazionale alla mobilita' dei capitali e posto le basi normative all'espansione illimitata delle attivita' finanziarie e speculative con la conseguente crescita di peso della finanza sull'economia reale. E' proprio il passaggio dall'espansione materiale a quella finanziaria l'aspetto primario del processo di ristrutturazione espresso dal movimento di globalizzazione degli ultimi due decenni, cosi' come in questa ricollocazione piu' che nella dislocazione delle attivita' industriali dai paesi piu' sviluppato a quelli poveri e' corretto ricercare la causa principale di ogni peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro che lavoratori "ricchi" e "poveri" hanno subito negli ultimi vent'anni ( Cfr. Beverly J. Silver, Giovanni Arrighi, Lavoratori del nord e del sud, in "La rivista del manifesto", luglio, 2001, pp.18-24 ). Ovviamente, per quanto riguarda le conseguenze del fenomeno, non si tratta solo di questo, l'enorme volume di flussi finanziari mondiali (ogni giorno si scambiano 1,5 trilioni di dollari), per lo piu' assunti nei meccanismi di pura speculazione finanziaria, hanno quale unico effetto quello di far crescere le rendite finanziarie, concentrate nelle classi piu' ricche dei paesi piu' ricchi, oltre che creare una forte instabilita' finanziaria. Ma, come dicevamo sopra, la nuova fase del processo di globalizzazione va considerata in stretta relazione con lo sviluppo delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione: solo attraverso un sistema integrato di telecomunicazioni e di computers infatti e' possibile nello stesso tempo far circolare capitali, integrare e decentrare produzione e management in un unico, flessibile sistema mondiale interconnesso. Le imprese hanno la possibilita', grazie al nuovo sistema di trasporti e soprattutto alle reti telematiche, di articolare la "catena del lavoro" in un ambito spaziale molto vasto, di delocalizzare, di distribuire le fasi produttive in territori anche assai distanti l'uno dall'altro e spesso appartenenti a paesi diversi. Mentre nel modello fordista i "segmenti" che costituiscono il ciclo produttivo erano centralizzati in un unico ambito aziendale, nella fase postfordista tendono a decentrarsi, ad autonomizzarsi, disperdendosi in un ambito spaziale non piu" coincidente con i "confini fisici" dell'impresa e talvolta persino anche indipendenti dal suo controllo finanziario. L'impresa transnazionale si struttura sul funzionamento di commesse esterne, su catene di sub-fornitura, di fornitori terzi su cui vengono scaricati i costi della ricerca e sviluppo, della fiscalita', della manodopera, del rischio di impresa e cosi' via. E' un percorso produttivo che riguarda l'area sempre piu' vasta del lavoro autonomo, una scelta occupazionale per molti obbligata dalle politiche aziendali di snellimento e governata non dai moderni ceti produttivi ma dai ritmi della produzione globalizzata. In questo quadro complessivo la produzione standardizzata di massa viene principalmente realizzata nelle nazioni dove i salari sono piu' bassi, mentre l'attivita' di individuazione e soluzione dei problemi e d'intermediazione strategica si svolge in qualunque Paese dove esistono le necessarie risorse d'inventiva e le capacita' creative (Cfr. Rech, L'economia delle nazioni, "Il sole 24 ore", Milano, 1993, p. 150). Una riorganizzazione della produzione su scala globale che nel Nord, ha indebolito l'iniziativa dei lavoratori, aperto la strada a nuove forme di lavoro flessibile e meno protetto e ha ridotto i livelli occupazionali e i benefici dello stato sociale; allo stesso tempo, la globalizzazione e il libero commercio, non favoriscono di per se' il miglioramento delle condizioni di lavoro e delle retribuzioni nei paesi del Sud del mondo, dove piu' della meta' della forza lavoro e' ancora impegnata nell'ambito dell'economia informale, in un articolato processo di sfruttamento che contempla forme di lavoro tayloriste, pre-tayloriste, addirittura schiaviste. Ma la globalizzazione neoliberista non e' un esito iscritto nella storia, un destino ineluttabile, il mercato globale si definisce come prodotto di un processo di costruzione politica che necessita di una qualche forma di ordinamento giuridico e di un potere che ne garantisca l'efficacia. Toni Negri chiama "imperiale" questa determinazione dei rapporti di potere, una definizione che va distinta da quella di "imperialismo", termine con cui nel secolo scorso si intendeva l'espansione dello stato-nazione oltre i suoi confini, la creazione di rapporti coloniali a scapito di popoli che erano fuori dal processo eurocentrico di civilizzazione capitalistico. Oggi, non c'e' imperialismo - o quando sussiste e' un fenomeno transitorio- come non c'e' piu' stato-nazione. L'impero non puo' essere identificato con qualche potenza nazionale, anche se per il governo americano e' difficile rifiutare la responsabilita' del governo imperiale. Per Negri e Michael Hardt, autori di Empire (Exils, Parigi 2000, [ora tradotto anche in italiano: Rizzoli, Milano 2002]), si tratta di una responsabilita' che va attenuata non solo perche' ormai la formazione delle elite americane e' largamente influenzata dalla struttura multinazionale del potere, ma anche per i condizionamenti che sulla presidenza americana come su qualsiasi governo nazionale vengono esercitati da soggetti diversi, da espressioni di istanze anche opposte. Mentre "l'impero e' semplicemente capitalistico, e' l'ordine del capitale collettivo, cioe' della forza che ha vinto la guerra civile del XX secolo" (T. Negri, L'"Impero", stadio supreme dell'imperialismo, in "Le Monde Diplomatique", gennaio 2001, p. 3). Una tesi originale e provocatoria che cerca di cogliere una tendenza in atto e che trova alcuni riscontri nel costituirsi delle grandi imprese multinazionali e della finanza globale in nuove forme di potere che sottraggono ai governi nazionali la possibilita' di controllare lo sviluppo economico e sociale, riducendo l'efficacia degli strumenti di politica economica. Non e' un blocco di soggetti sociali diversificati, localizzati in un territorio, ma un'elite globale di tecnocrati, manager delle imprese multinazionali e di societa' finanziarie slegate da radici nazionali e sociali. Gruppi di potere transnazionale che esercitano il governo del sistema globale attraverso organismi, quali il Fondo Monetario internazionale, la Banca Mondiale, l'Organizzazione Mondiale per il Commercio, il G7-G8, non eletti e che non rispondono in nessun modo a coloro che subiscono gli effetti delle loro decisioni (Cfr. M. Pianta, op. cit. p. 57). Rimane il fatto che l'immenso potere militare, la posizione di controllo dei principali sistemi di comunicazione, il predominio sull'intera architettura finanziaria del gruppo dei paesi piu' industrializzati e in particolare degli USA li rende protagonisti centrali della costruzione del mercato globale (cfr. L. Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 8). Ma l'attuale globalizzazione, come dicevamo, non segna soltanto l'ampliamento geografico delle leggi del mercato e della "libera" finanza, ma anche l'estensione della legge del profitto alla natura e alla sfera della riproduzione sociale; sanita' ed istruzione sono alcuni dei nuovi territori di conquista e la centralita' della formazione nei paesi del Nord si riconosce nel passaggio al nuovo paradigma di produzione postfordista che chiama a lavoro sapere, intenzionalita', competenze comunicative e relazionali, da ottenere nel quadro di un controllo capillare della cultura e dei comportamenti dei soggetti, della creazione di dispositivi di controllo che investono tutti gli aspetti della vita e che si realizzano nella misura in cui tutti i valori materiali e simbolici vengono ridotti a prezzi di mercato. Si sondano tutti i territori collettivi della cultura popolare e di strada alla ricerca di quei significati che possiedono il potenziale per essere trasformati in esperienze mercificate, private. Un movimento culturale che si propone di produrre omologazione culturale e impoverimento delle fonti di identificazione collettiva dei soggetti, una sorta di desertificazione culturale su cui impiantare identita' mutevoli flessibili dipendenti dalle tendenze di mercato. * Il movimento e la sinistra Eppure in questo quadro sociale avviato ad essere privato di autonomia, assorbito tra le maglie delle logiche di impresa e mercantile si agitano nuove forme di insubordinazione e movimenti antisistemici dai tratti inediti che si insinuano tra le maglie delle reti di controllo e si muovono in direzione della costruzione di una "societa' civile globale" che bilanci il peso dell'economia e delle istituzioni sovranazionali. Una prospettiva che, come precisa Pianta, richiede una combinazione di capacita' di resistenza, di visioni radicali, di strumenti di riforma e di pratiche alternative; e nello stesso tempo un operare in direzioni diverse. Cercando di dotarsi di strutture, il piu' democratiche e rappresentative, dove sviluppare identita', visioni e proposte politiche; un percorso obbligato per andare oltre la resistenza, ri-impossessandosi della politica, imponendo temi globali anche nelle sempre piu' provinciali agende politiche nazionali, considerando che gli stati continuano ad avere ancora un ruolo chiave, come dimostrano una serie di recenti vicende, tra queste la decisione del Sudafrica di offrire farmaci a basso costo ai malati di Aids. Ma soprattutto la globalizzazione dal basso non puo' fare a meno del mondo del lavoro, come e' stato possibile costruire reti globali di ambientalisti, contadini poveri e consumatori non dovrebbe risultare impossibile rivitalizzare le strutture sindacali internazionali o creare nuove reti di base tra lavoratori delle imprese multinazionali. A quest'ultimo proposito va detto che il lavoro oggi e' obiettivo e strumento della globalizzazione. La competizione non e' solo tra i prodotti, i mercati, ma anche tra i costi del lavoro ed e' questo che produce nuove diseguaglianze e nuovi schiavismi; risulta cruciale quindi per il movimento della globalizzazione dal basso il superamento di ogni sorta di divisione del lavoro tra sindacati, ambientalisti, pacifisti, donne, difensori dei diritti umani, politica nazionale, solidarieta' internazionale e comportamenti auto-organizzati. Non si tratta di un semplice atto di volonta' ma di una necessita' imposta da un sistema socioeconomico che Carla Ravaioli ha descritto come solo proiettato verso la crescita indiscriminata del profitto e portata a travolgere come semplici impacci diritti umani, ragioni del lavoro e dell'ambiente, istanze sociali di ogni tipo (cfr. C. Ravaioli, Nuovi orizzonti dopo Genova, in "il manifesto", 15 agosto 2001, p. 18). La questione diventa quella di favorire l'incontro, confronto, contaminazione tra soggettivita' nuove e tradizionali, e' il punto di partenza per sperare in un blocco sociale portatore di una progettualita' che vada ben oltre il produttivismo con cui si intreccia tanta parte del pensiero del movimento operaio, per ricercare le forme di un modello di sviluppo economico e sociale non governato dal puro calcolo economico. Sono questioni che chiamano in causa la sinistra nel suo complesso, politica e sindacale, la cui stessa sorte dipende dalla volonta' e capacita' di cogliere, interpretare i discorsi del movimento, sollecitare il confronto e la ricerca, in primo luogo, degli strumenti per il controllo delle decisioni, per implementare un processo di democratizzazione da dispiegare a tutti i livelli: da quello locale sino ad arrivare ai grandi centri di decisione politica ed economica, alla creazione, attraverso l'ONU, di una struttura mondiale di regolazione e controllo delle attivita' economiche e finanziarie. In questo senso sembra avviarsi il discorso anche all'interno del composito socialismo europeo (cfr. Sami Nair, La barbarie dal volto mercantile, in "l'Unita'", 2 agosto 2001, p. 27), finora poco presente nel dibattito sulla globalizzazione e che necessita di un punto di vista critico per sottrarsi alla omologazione alle politiche economiche neoliberiste e ai conseguenti contraccolpi politico-elettorali che non poco sono costati ai democratici di sinistra italiani. In questo quadro si colloca il favore espresso dai socialisti francesi per la tassazione delle transazioni finanziarie internazionali e l'impegno ad avanzarne la messa in atto nelle sedi internazionali. La Tobin tax sembra essere poca cosa, espressione, secondo alcuni, di un "riformismo debole", ma che di fatto restituisce ai governi nazionali almeno parte del potere di controllo sui movimenti finanziari, ma soprattutto mette in discussione uno dei dogmi della filosofia liberista: l'inviolabilita' della libera circolazione dei capitali. 4. MAESTRI. FILOMENA PERNA INTERVISTA PIETRO PINNA [Ringraziamo Filomena Perna (per contatti: f.perna at unifg.it) per averci messo a disposizione questa sua intervista a Pietro Pinna realizzata questa estate. Pietro Pinna, primo obiettore di coscienza al servizio militare, collaboratore di Aldo Capitini e di Danilo Dolci, infaticabile promotore della nonviolenza, e' una delle figure di riferimento per i movimenti e le iniziative per la pace. Tra gli scritti di Pietro Pinna cfr. La mia obbiezione di coscienza, Edizioni del Movimento Nonviolento; numerosi suoi contributi sono stati pubblicati in vari volumi] Pietro Pinna rappresenta l'anima antimilitarista del movimento nonviolento. Il movimento nonviolento nasce in Italia ad opera del filosofo antifascista Aldo Capitini, negli anni immediatamente successivi alla II guerra mondiale. La teoria nonviolenta di Capitini, rivoluzionaria (1) nella sua essenza, doveva offrire, nelle intenzioni del filosofo, una soluzione alla crisi morale e intellettuale del tempo. Attraverso il rifiuto della violenza (che secondo l'antifascista perugino caratterizzava la vita sociale italiana di quegli anni) si potevano emancipare le coscienze e scuotere gli italiani dall'"indifferentismo morale" (Carlo Rosselli) che li caratterizza (2). - Quando si e' avvicinato per la prima volta al movimento nonviolento? - Ero giovane, ma non poi tanto. Fino ai trentacinque anni lavoravo in banca, poi sono andato con Danilo Dolci in Sicilia, dove ho lavorato nel "Centro studi e iniziative per la piena occupazione". - Ah, quindi ha lavorato con Dolci. Come ricorda quell'esperienza? - E' stata straordinaria. - Quando e' cominciato il rapporto di collaborazione con Capitini? - Nel 1962. Capitini mi chiese se potevo collaborare con lui ad un progetto di sviluppo per la pace. Ho lavorato con Capitini a Perugia fino all'anno della sua morte, avvenuta nel 1968. Poi ho continuato ad occuparmi della direzione del movimento fino al '90. - Puo' raccontarmi la storia del suo rifiuto del servizio militare? So che lei e' stato il primo obiettore di coscienza nel nostro Paese. Quali furono le motivazioni profonde del suo gesto? - All'epoca, nel '48, si era appena usciti dalla tragedia della guerra. Guerra che aveva segnato in maniera indelebile gli anni della mia adolescenza. Allora non conoscevo i presupposti teorici del movimento nonviolento. Non avevo letto Gandhi. Semplicemente, avevo vissuto gli orrori delle stragi, dei bombardamenti, e mi ripugnava l'idea di diventare parte di uno strumento, l'esercito, che e' essenziale all'azione bellica. Sa qual e' l'immagine piu' laida della guerra che io conservo nella mia memoria? E' quella di una casa sventrata. Ha letto Bassani? - Il giardino dei Finzi-Contini, si'... - No, non parlo di quel libro. Ma di Una notte del '43, lo conosce? - Ah, una delle Cinque storie ferraresi... No, mi dispiace. - Bene, quel racconto narra di un episodio che accadde a Ferrara in quegli anni e del cui esito io sono stato testimone involontario. C'era stato un eccidio compiuto dai repubblichini, durante la notte, e il mattino dopo, mentre andavo al lavoro, ho visto i cadaveri abbandonati per la strada come monito per la popolazione... Fu allora che i repubblichini crearono l'espressione "bisogna ferrarizzare l'Italia". Poi sono stato testimone dei rastrellamenti tedeschi, delle scene di terrore provocate dai bombardamenti. Non le sembra sufficiente per diventare antimilitarista? - Lei e' credente? - Non sono religioso nel senso tradizionale del termine. Non sono ne' cristiano, ne' induista, ne' mussulmano, ne' buddista... sono religioso nel senso in cui lo era Leopardi, nel senso, cioe', che credo profondamente nel rispetto dell'essere umano. Inoltre i valori che il fascismo aveva cercato di inculcare nei giovani italiani, per me, dopo l'esperienza della guerra, non avevano piu' senso. - Che cos'e' per lei l'obiezione di coscienza? - E' l'impegno a rifiutare la partecipazione alla preparazione e all'effettuazione della guerra. Nel '48 non esisteva, in Italia, l'obiezione di coscienza, non era prevista neanche come reato. Il reato per il quale mi condannarono fu quello di "rifiuto di obbedienza". Prima del mio c'erano stati solo due casi di obiezione, chiamiamoli cosi'. Si trattava di due testimoni di Geova. - Possiamo dire che il suo fu un rifiuto assoluto? - Si'. Un rifiuto basato su un principio applicato intuitivamente. Don Milani diceva che e' delinquente non solo chi ruba, ma anche chi para il sacco. Per me la guerra e' un crimine collettivo. Non volevo sentirmi complice di questo crimine. - A quando risale il suo primo incontro con Capitini? - Lo avevo incontrato casualmente a Ferrara, la mia citta', una domenica mattina, per strada. Doveva aver partecipato a un incontro sulla riforma della religione. In quell'occasione avevano distribuito dei volantini con l'indirizzo di Capitini. Cosi' gli ho scritto. Volevo sapere quali potevano essere le conseguenze legali del gesto che stavo per compiere. Non mi rispose. In seguito, quando del mio caso cominciarono ad occuparsi i giornali, mi scrisse che non mi aveva risposto perche' non voleva spingermi ad un'azione che mi sarebbe costata molto cara. - Quando le hanno fatto la prima perizia psichiatrica? - Dopo cinque mesi di carcere. - Ha sofferto molto in carcere? - La cosa che mi mancava di piu' era il verde, li' vivevo circondato dal cemento. Poi ho fatto un periodo di cella di rigore. A volte il caporale, per troppo zelo, mi portava il rancio un'ora dopo e allora era proprio immangiabile. Ero un traditore della Patria... - C'e' stato qualche momento in cui ha sentito di non farcela? - C'e' stato un momento in cui ho perso la pazienza, invece. Una volta un colonnello mi chiese se non pensavo a mia madre, al dolore che le davo. - E lei cosa gli ha risposto? - Ebbene, a quel punto mi sono seccato. "Mia madre", gli ho detto, "soffre, ma non per il mio gesto. Pensi lei, piuttosto, a tutte le madri a cui hanno stroncato i figli in guerra". - Quale fu l'esito della perizia? - Sufficiente capacita' d'intendere e di volere. Cosi' si fece il processo e il mio caso comincio' ad avere qualche eco sui giornali dell'epoca. Immagini un po': si era in piena guerra fredda. Non poteva essere visto di buon occhio uno che si rifiutava di servire la Patria. - Capitini la aiuto' durante il processo? - Si'. Aveva amici nel Parlamento inglese. In Inghilterra esisteva da tempo una legge sull'obiezione di coscienza. Ventitre parlamentari inglesi scrissero a De Gasperi e gli sottoposero il mio caso. De Gasperi rispose che, in quanto presidente del Consiglio, era soggetto, per la legge italiana, al Parlamento. E poi, che bisognava essere cauti a introdurre una legge sulla falsariga di quella inglese in Italia. Si sarebbero svuotate le caserme. - A quanto venne condannato? - A dieci mesi. Il Pubblico Ministero aveva chiesto un anno e mezzo. - Intanto quanto tempo aveva passato in carcere in attesa del processo? - Sette mesi. Venni richiamato, non appena si concluse il processo, perche' il tempo passato in carcere non conta come servizio militare. - Quindi inizio' tutto daccapo? - Si'. Solo che a quel punto ero stanco. Alla fine, ero ad Avellino, mi denunciarono di nuovo. Dopo cinque giorni di istruttoria, con un avvocato d'ufficio che fece un'arringa contro l'obiezione di coscienza e che scandalizzo', per questo, Roberto Calo', mi mandarono a Napoli. Sa una cosa? Ero orgoglioso di trovarmi nel carcere che aveva ospitato, a suo tempo, Giuseppe Mazzini. Mi condannarono a otto mesi, questa volta. - E' vero che rifiuto' l'amnistia? - Si'. Era la fine del '50. Per l'Anno Santo si prospettava un'amnistia. - E lei fece di tutto, invece, per restare in galera... - Si'. Mi sbatterono subito in cella di rigore. La cella di rigore di una caserma e' molto piu' dura del carcere e cominciavo ad accusare la stanchezza. - Pero' tenne duro... - Sa che alla fine avevo tantissimi amici tra le guardie delle carceri militari? Erano ragazzi dell'ultimo periodo di leva e li aiutavo a scrivere le lettere alle fidanzate. Avevo girato un po' d'Italia, anche... - Come e' andata a finire? - Le autorita' decisero che bisognava chiudere la faccenda al piu' presto. Senza fare altro rumore. C'era il pericolo che potessi fare proseliti. Cosi' mi congedarono per nevrosi cardiaca. Sa quanta gente viene congedata per nevrosi cardiaca? E' una malattia difficilmente riscontrabile. Fu una comoda scappatoia per loro. - Torniamo al movimento nonviolento. Puo' riassumere con una formula il punto centrale del pensiero nonviolento? - E' molto semplice: disarmo unilaterale, integrale e immediato. Capisce cosa voglio dire? - Si'. Molto rivoluzionario... - Quando, piu' di vent'anni fa, in Italia ferveva il dibattito sul terrorismo, fui molto criticato perche' dissi che i terroristi sono sempre dei dilettanti che hanno preso esempio dallo Stato. Lo Stato e' il terrorista professionista che essi cercano di imitare. - Il suo antimilitarismo e' radicale e assoluto. - Certo. - Che cosa dovrebbe fare uno Stato che decida di seguire i precetti della nonviolenza? - Cominciare a cambiare mentalita'. Disarmarsi. Per sempre. A livello internazionale bisognerebbe, poi, superare il concetto della sovranita' assoluta degli Stati. L'ONU ha solo un potere fittizio sugli Stati, al giorno d'oggi, come lei sa bene. - Secondo lei e' davvero possibile che qualche governo adotti una soluzione del genere? - Siccome difficilmente potra' avvenire sul piano politico, il disarmo unilaterale lo si puo' realizzare dal basso. E' qui che devono dare un contributo le Chiese, i partiti e tutti gli uomini di buona volonta'... il popolo, insomma. Questa era l'idea di Capitini. - Ma il disarmo unilaterale non potrebbe costituire un rischio per lo Stato che lo adotta? - Sa cosa rispondeva Capitini a questa obiezione? Che potremmo anche arrivare a pensare che un popolo che si sacrifichi fino a questo punto diventi un popolo-Cristo. Un popolo che accetta la croce per salvare l'umanita'. La pace per tutti e' ancora il problema piu' urgente. Ha notato che non esistono piu' da tempo i Ministeri della Guerra? Molto ipocritamente si chiamano Ministeri della Difesa. Dovremmo avere un po' piu' di onesta' intellettuale e chiamare le cose con il loro nome! Non possiamo piu' permetterci di accettare queste mistificazioni. - Il disarmo unilaterale implica nell'ottica nonviolenta una qualche forma di resistenza alle aggressioni? O corrisponde in pieno al precetto evangelico "porgi l'altra guancia"? - Il disarmo unilaterale non e' accettazione passiva. Prevede una forma di resistenza. La stessa che adottavano Gandhi e i suoi seguaci al tempo della lotta per la liberazione dell'India dal dominio coloniale britannico. Che si chiamava resistenza pacifica. E che abbiamo adottato anche noi, durante le manifestazioni, nei confronti della polizia. Pensi, oltre che a Gandhi e al successo che ebbe la sua formula nel processo di liberazione del suo paese, anche a Martin Luther King, a Nelson Mandela... perche' non attuare questa tecnica anche nei conflitti tra Stati? - Pero' siamo lontani da una prospettiva di successo a breve scadenza. - Capitini diceva che il fuoco si accende sempre da un punto. Anche la resistenza cecoslovacca per tanti aspetti e' stata ritenuta una lotta nonviolenta. La nonviolenza offre l'unico antidoto alla minaccia dell'annientamento dell'umanita'. - Come giudica la posizione della Chiesa cattolica nei confronti della guerra? - Secondo me, per la Chiesa la questione della guerra e' il banco di prova definitivo. Purtroppo la guerra e' accettata in pieno. - Mi parli un po' di quei sei anni passati con Capitini. - Il movimento allora era come un bambino in fasce. Aveva costantemente bisogno del nostro lavoro, delle nostre attenzioni. Il movimento agiva in due direzioni principali: il pensiero (asfittico senza l'azione) e l'azione (cieca senza il pensiero). - Che bella immagine... - Il nostro giornale, "Azione nonviolenta", sembrava un bollettino parrocchiale. Non si aveva neanche il tempo per chiacchierare, per discutere, il lavoro assorbiva tutte le nostre energie. Eravamo in dieci all'inizio, nel movimento. Poi subito dopo siamo arrivati a un centinaio, una bella conquista. - Com'erano i rapporti con le forze dell'ordine? Avevate problemi durante le manifestazioni? - I rapporti con la polizia ci impegnavano tantissimo. Non avevamo molte conoscenze giuridiche in proposito. Ce le siamo fatte con il tempo e l'esperienza. - Si ricorda la prima manifestazione? - Si', era a Milano. Ci avevano detto che non potevamo manifestare. Allora siamo usciti per strada, uno alla volta - sa, per fare una manifestazione ci vogliono almeno tre persone - con la scritta "una legge per l'obiezione di coscienza" sulla camicia. Alla fine ci siamo ritrovati tutti in caserma. E poi adottavamo il principio gandhiano della resistenza pacifica. A volte li sconcertavamo un po' i poliziotti. - E le marce per la pace? - Ebbene, ricordo quelle degli anni settanta, con Pannella e i radicali. Pannella era allora un antimilitarista molto rigoroso... - Come vede il futuro dell'umanita'? - C'e' una sola speranza, secondo me, per il nostro futuro. Il disarmo. Il ripudio della guerra. Senza mistificazioni di sorta (una guerra di difesa e' pur sempre una guerra). Ma non e' un obiettivo che riusciremo a realizzare a breve termine. Noi abbiamo solo iniziato. - E il futuro del movimento nonviolento? - Credo che sia ormai un concetto affermato in culture anche molto diverse tra di loro che la pace sia una necessita' fondamentale per tutti. Ma il cammino che dobbiamo percorrere e' ancora lungo. * Note 1. Cfr. il saggio di Rocco Altieri, La rivoluzione nonviolenta. Per una biografia intellettuale di Aldo Capitini, Biblioteca Franco Segantini, Pisa 1998. 2. Come osserva Antonio Vigilante in Religione e nonviolenza in Aldo Capitini, (intervento alla Tavola Rotonda su "Nonviolenza e religione", Perugia, Centro San Martino, 23 settembre 2000, disponibile su Internet all’'ndirizzo: http://www.citinv.it/associazioni/ANAAC/scritti/vigilante1.htm) le cause di questo indifferentismo morale erano da Rosselli ricondotte all'influenza negativa dell'educazione cattolica, "pagana nel culto e dogmatica nella sostanza", che ha impedito la nascita negli italiani d'un pensare autonomo, libero, responsabile; e il fascismo non era che il risultato ovvio della storia di un popolo abituato da secoli all'obbedienza, al lasciar fare). 5. INCONTRI. PROGRAMMA DEL SEMINARIO SUILLA NONVIOLENZA AL FORUM SOCIALE EUROPOEO DI FIRENZE [Ringraziamo Enzo Mazzi per averci inviato il programma (ancora provvisorio) di questo importante seminario] Forum sociale europeo, Firenze 6-10 novembre 2002 Seminario: La nonviolenza come rivoluzione? alle radici della violenza e della guerra nelle sistemazioni religiose e culturali, in particolare in quelle che connotano l'identita' europea. Si sta diffondendo la convinzione che la nonviolenza non e' piu' solo utopia da profeti e sognatori, nobile ma irrazionale idealita', come finora e' stata considerata. La nonviolenza sta soppiantando il suo opposto, cioe' la violenza, come nuovo fondamento della razionalita'. La lotta per la sopravvivenza della specie ha inventato l'antagonismo e la guerra e le ha dato i connotati della razionalita', informando di violenza tutti gli aspetti della civilta': economia, culture, diritto, religioni, relazioni interpersonali e di genere. Oggi, di fronte al baratro della mostruosita' distruttiva degli arsenali bellici e di fronte alla percezione nuova che ha l'umanita' di essere un'unica famiglia in una minuscola fragile casa, la stessa lotta per la sopravvivenza sta scoprendo la nonviolenza come unica riserva di vita. E' un vero processo rivoluzionario lento e sotterraneo che a noi vedenti/ciechi e' appena percepibile per segni. Ed e' una rivoluzione globale che cioe' investe tutti i campi del convivere. Investe in particolare le religioni e i grandi sistemi ideologici. Occorre aprire gli occhi, andare oltre il pacifismo settoriale che condanna la guerra e le sue cause politiche/economiche, ma e' timido di fronte alle cause profonde. E' urgente analizzare le radici della violenza ovunque esse si annidino, in modo da partecipare piu' consapevolmente ed efficacemente alla scommessa della nonviolenza come processo rivoluzionario globale e non solo come istanza moralistica. Riteniamo che sia questo il modo piu' autentico per recuperare in positivo, nell'orizzonte nuovo della nonviolenza, i valori della liberazione nelle esperienze perennemente generative delle religioni e culture e in particolare del cristianesimo e del marxismo. Il seminario si rterra' a Firenze giovedi 7 novembre o venerdi 8 novembre, alle ore 14,30, alla Fortezza da basso. Intervengono: - Enzo Mazzi (della Comunita' dell'Isolotto): Alle radici della violenza e della guerra nelle sistemazioni religiose e culturali, in particolare in quelle che connotano l'identita' europea. - Giulio Girardi (teologo della liberazione, Forum Mondiale delle Alternative): La funzione della violenza nei grandi sistemi ideologici: liberale/capitalista e marxista/comunista. - Eliasabeth Green (teologa, pastora valdese): Le radici della violenza e della guerra nella cultura patriarcale. Moderatore: Romano Madera (antropologo e psicanalista). Promotori: Comunita' cristiane di base, Pax Christi, Associazione Culturale Punto Rosso-Forum mondiale delle alternative, ARCI, Centro ecumenico Agape (valdesi), Noi siamo Chiesa, Cgil Lavoro Societa', Cambiare Rotta, Beati i costruttori di pace, Rete di Lilliput e altri in via di definizione fra cui Fiom, Agesci. Nota: il programma del seminario e' ancora suscettibile di modifiche. 6. INCONTRI. CLAUDIA FANTI: RESOCONTO DEL SEMINARIO DELLA RETE DI LILLIPUT SULLA NONVIOLENZA [Questo articolo e' apparso su "Adista" n. 73 del 2002. Per contatti: "Adista", notizie, documenti, rassegne, dossier su mondo cattolico e realta' religiose, via Acciaioli 7, 00186 Roma, tel. 066868692 - 0668801924, fax 066865898, sito: www.adista.it] "Non ho nulla da insegnare - diceva Gandhi -. La nonviolenza e' antica come le montagne". E se e' vero che l'umanita' sembra particolarmente predisposta a smarrirne spirito e messaggio, c'e' anche chi, tuttavia, l'antico insegnamento non l'ha dimenticato. E ora vuole rilanciarlo, e tradurlo in azione. E' questo il tentativo - e, ancor piu', la scelta di campo - della Rete di Lilliput, che il principio della nonviolenza considera parte del suo stesso Dna. Ma e' in particolare negli ultimi mesi che la Rete ha dato il via a una serie di gruppi di studio, seminari, training e percorsi di formazione sul tema, culminati nel seminario "La nonviolenza: attivarsi per un mondo diverso", svoltosi a Ciampino dal 27 al 29 settembre. E' in questa sede che Lilliput ha lanciato la proposta di dare vita, presso ogni nodo della Rete, ai Gruppi di Azione Nonviolenta (Gan): uno strumento di azione - secondo la definizione del Gruppo tematico su nonviolenza e conflitti - attraverso cui le campagne lillipuziane possono agire con il metodo nonviolento, secondo la gandhiana "legge della progressione", che prevede il passaggio graduale dalle forme piu' blande di azione a quelle via via piu' incisive e radicali, fino alla realizzazione dell'obiettivo stabilito (per poi passare ad uno nuovo). I Gan sono chiamati ad agire sulle conseguenze dei fenomeni globali nel tessuto locale, attivando un conflitto, attraverso il metodo nonviolento, sul tema piu' sentito dalla comunita'; possono costituire, riuniti tra loro in una rete diffusa sul territorio nazionale, un presidio democratico di fronte all'involuzione autoritaria in corso nel nostro paese; e possono operare anche in appoggio ai corpi civili di pace all'estero. E tanto piu' necessari sono i Gan di fronte all'attuale contesto internazionale: "mai prima d'ora - ha affermato Pasquale Pugliese, referente Gan per il Gruppo tematico sulla nonviolenza - l'umanita' si era trovata dinanzi a una disparita' economica di tali proporzioni. E a un tentativo cosi' chiaro di trasformare in senso violento il conflitto, sociale ed ecologico. Di fronte a tale situazione, la Rete di Lilliput e' chiamata a impegnarsi in una doppia direzione: sui contenuti, al fine di ridurre il nostro impatto sull'ambiente, la nostra impronta ecologica, e sulla metodologia, allo scopo di trasformare il conflitto in senso nonviolento, superando cosi' la scissione storica tra etica e politica, tra mezzi e fini". Dal dirsi nonviolenti al fare nonviolenza, tuttavia, ce ne e' di strada da fare: non basta certo limitarsi a non tirare pietre contro le vetrine. Occorre avviare, per prima cosa, percorsi di formazione teorico-pratica alla nonviolenza, una formazione che - come da piu' parti e' stato sollecitato - sia immediatamente mirata all'azione, sia essa stessa gia' costruzione di azione. "Abbiamo una grande responsabilita' - ha concluso Pugliese - rispetto alle altre componenti del movimento: noi siamo quelli che parlano di nonviolenza. E gli altri si aspettano da noi che cominciamo a farla". La riflessione sulla nonviolenza non puo' non ripartire in qualche modo da Genova. "Gia' durante il 2001 - e' stato sottolineato - e soprattutto in occasione dei tre giorni di Genova, ci si e' resi conto che non sono sufficienti le dichiarazioni di intenti. I drammatici fatti durante il G8 hanno aperto gli occhi a molti lillipuziani convincendoli che nonviolenza non e' solo affrontare a mani alzate la polizia in una piazza. In tanti hanno compreso che il metodo nonviolento va studiato, condiviso e soprattutto applicato". Ma molti lillipuziani non ci stanno a fare un processo a Genova: il progetto di formazione alla nonviolenza avviato prima del G8 - ha affermato in particolare il nodo genovese - "e' stata l'esperienza piu' strutturata, pensata e voluta degli ultimi anni, producendo anche risultati interessanti, come il blocco di piazza Portello. I Gan non possono non ripartire da li'". * Se e' vero, come dice il teorico della nonviolenza Johan Galtung, che la violenza e' sempre sbagliata, non e' detto che la nonviolenza funzioni sempre. Ma e' un fatto, ha sottolineato Alberto L'Abate dell'Universita' di Firenze durante il seminario della Rete di Lilliput, che "se la lotta armata tende a compattare l'avversario, quella nonviolenta punta invece a dividerlo, ricevendo inoltre l'appoggio di terzi". Diverse le condizioni che determinano l'efficacia di un'azione nonviolenta: L'Abate sottolinea, tra l'altro, l'esigenza di un lavoro di informazione e controinformazione diretto all'allargamento del consenso, l'importanza di un'accurata preparazione, con tanto di simulazioni dell'azione da compiere, la necessita' di operare su piu' livelli, compreso quello interno alle istituzioni, e in collegamento internazionale (come insegna Porto Alegre); l'utilita' di cogliere le circostanze esterne facilitanti (come e' stata Cernobyl nelle lotte contro il nucleare). Necessaria, infine, in ogni lotta nonviolenta, l'esistenza di un progetto costruttivo chiaro, di una visione del futuro verso cui muoversi. E' qui che il tema della nonviolenza si incrocia con quello di un modello alternativo al sistema capitalista. Non c'e' piu' molto tempo per agire, sottolinea Nanni Salio del Centro Studi Sereno Regis, se non vogliamo essere travolti dalla catastrofe planetaria: c'e' chi addirittura indica nel 2030-2050 il punto di non ritorno. Eppure, secondo Salio, un modello alternativo e' gia' sotto i nostri occhi: il modello di economia nonviolenta basato sulla semplicita' volontaria, "quel tipo di economia di autosufficienza gia' praticato, per quanto non volontariamente, da una parte significativa dell'umanita'". Secondo l'economista Alberto Castagnola, pero', la situazione reale e' quella di "un unico modello dominante, imposto come assoluto, senza possibilita' di alternativa: una situazione estremamente violenta - di un grado di violenza che non ci e' ancora forse perfettamente chiaro -, in cui siamo obbligati a pensare tutti allo stesso modo". Di fatto, secondo Castagnola, "lavoriamo senza avere un modello alternativo" e con "un livello di coscienza ancora basso", "quasi infantile": "cerchiamo di sottrarci ai condizionamenti del sistema con comportamenti minimali, magari bevendo meno coca-cola". In verita', sottolinea l'economista, "noi lavoriamo all'interno del sistema stesso: le nostre attivita' sono solo controprove del fatto che e' possibile avere un modello alternativo, non la dimostrazione che questo modello alternativo e' gia' presente". Il potenziale della Rete, tuttavia, non e' stato ancora impiegato come potrebbe: "nessuno si e' mai chiesto cosa fare di questa massa critica di 700 gruppi, che tipo di forza puo' avere, che tipo di incisivita' puo' raggiungere". L'interrogativo riguarda, secondo Deborah Lucchetti del nodo di Genova, la capacita' di analisi strategica: "qual e' la strategia che proponiamo? Per arrivare dove? Intorno a quali obiettivi e finalita' vogliamo mobilitarci?". Castagnola suggerisce delle direzioni verso cui muoversi: la questione ambientale, i bilanci partecipativi, il problema, ancora tutto da studiare, di quella poverta' di massa creata dalla globalizzazione. E, naturalmente, la nonviolenza: "tutti i partecipanti di un nodo - conclude - dovrebbero sapere cos'e' la nonviolenza attiva e almeno la meta' di loro dovrebbe essere pronta a scendere in strada secondo questo metodo". * Sulla scelta irreversibile e "finalmente chiara" della nonviolenza attiva si sofferma anche padre Alex Zanotelli nell'intervento conclusivo del seminario: una scelta, che, afferma, "deve diventare visibile, deve farsi cultura, anche all'interno della Chiesa. E' Gesu', il primo disobbediente della storia, che ha inventato la nonviolenza. E, se questo e' vero, allora dobbiamo concludere che Dio non e' violento, e che dunque nessuna violenza ci si puo' mai aspettare da Dio. La violenza viene da ognuno di noi, e' qualcosa con cui ciascuno deve fare i conti". Ma la trasformazione personale non basta: "in base alla teoria marxista - ha affermato Zanotelli -, se cambia il sistema cambiera' di conseguenza anche l'uomo; in base a quella cristiana, se cambia la persona cambiera' di conseguenza anche la societa'. In realta', bisogna combinare le due dimensioni: quella della conversione dei valori e quella della traduzione dei valori in strutture, culture, antropologie". Zanotelli pone infine l'accento sull'importanza della comunita': "i Gan non devono ridursi ad operazioni meccaniche, ma diventare piccole comunita', che consentano di riscoprire quella dimensione affettiva che viene negata dall'Impero. E sono le diverse comunita' e gruppi che formano quello che chiamiamo societa' civile organizzata, la quale deve diventare sempre piu' un soggetto politico forte, portatore di valori nuovi e disposto ad operare con l'unico metodo della nonviolenza". Zanotelli non risparmia qualche critica ai lillipuziani: "la Rete di Lilliput e' stata creata per aiutare la base ad avere un maggiore impatto politico e a reagire in maniera forte di fronte alle emergenze. Eppure, riguardo alla legge Bossi-Fini, e' mancata una reazione decisa della Rete. Ora mi attendo una risposta forte ed efficace sulla guerra". "La guerra - ha detto - va scongiurata a tutti i costi e se Berlusconi seguira' George Bush nell'attacco alla popolazione irachena dovra' farlo contro l'opinione pubblica italiana. La Rete di Lilliput e la societa' civile italiana devono muoversi compatti per esaltare il dissenso alla guerra espresso dal 70% dei cittadini italiani". * Se Zanotelli ha avanzato alcune critiche ai lillipuziani, non sono mancate neppure, da parte della Rete, delle riserve sul suo intervento conclusivo, risultato, secondo alcuni, troppo sbilanciato sul versante cattolico. Ed e' cosi' che, sulla mailing list lillipuziana, si e' tornati a parlare della necessita' di marcare la propria indipendenza da Zanotelli (senza con cio' negare l'importanza di averlo "come alleato e come grande amico") e, soprattutto, di non cadere nell'identificazione della Lilliput come organizzazione cattolica: rischio contro cui insorge la non insignificante componente laica (atea, libertaria, comunista) della Rete. Una discussione non nuova, come dimostra la recente polemica con Luigi Manconi, il quale, oltre a definire tra l'altro Lilliput come "la forma contemporanea dell'antica attivita' 'missionaria' dell'associalismo cattolico", aveva ravvisato persino la vicinanza di una parte dei lillipuziani all'area Buttiglione, scatenando le durissime reazioni di questi ultimi (v. "Adista" n. 63/02). Quanto alla critica di Zanotelli sui ritardi della Rete, la Lilliput ha risposto sottolineando la priorita', per i prossimi mesi, dell'impegno contro la guerra in Iraq: attraverso la campagna "Pace da tutti i balconi" (v. "Adista" n. 71/02), la partecipazione alle diverse iniziative in programma, la realizzazione di azioni dirette simboliche, per esempio davanti a basi Nato o industrie di armi, e il lancio della "Campagna di obiezione di coscienza del/la cittadino/a per il disarmo economico e militare", con l'indicazione degli strumenti disponibili per esprimere il rifiuto della violenza "sui due lati della cultura del dominio: il modello economico (della produzione, degli scambi e dei consumi) e il modello difensivo (della tutela da aggressioni e della tutela del diritto)". 7. LETTURE. "MICROMEGA": NON PERDIAMOCI DI VISTA! "Micromega", Non perdiamoci di vista!, supplemento al n. 3/2002 di "Micromega", pp. 96, euro 5. Una appassionante raccolta di interventi di alcuni dei protagonisti del movimento che si batte per la legalita' e la democrazia nel nostro paese. 8. RILETTURE. GERARD HOUVER: JEAN E HILDEGARD GOSS. LA NONVIOLENZA E' LA VITA Gerard Houver, Jean e Hildegard Goss. La nonviolenza e' la vita, Cittadella, Assisi 1984, pp. 152. Un colloquio con due grandi figure della nonviolenza. 9. RILETTURE. JOAN ROBINSON: LIBERTA' E NECESSITA' Joan Robinson, Liberta' e necessita', Einaudi, Torino, 1971, 1972, pp. 154. Una introduzione della grande economista allo studio delle scienze umane. 10. RILETTURE. TZVETAN TODOROV: NOI E GLI ALTRI Tzvetan Todorov, Noi e gli altri, Einaudi, Torino 1991, pp. XX + 482. Uno dei grandi libri di Todorov, che qui analizza "la riflessione francese sulla diversita' umana". Con una folgorante premessa dell'autore. Noi crediamo che Todorov sia un autore indispensabile per una cultura della dignita' umana e della nonviolenza. 11. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dellâambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dellâuomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 12. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org; per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: http://www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it; angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it. Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it Per non ricevere piu' questo notiziario e' sufficiente inviare un messaggio con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it Numero 381 dell'11 ottobre 2002
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