La nonviolenza e' in cammino. 376



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO



Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it



Numero 376 del 6 ottobre 2002



Sommario di questo numero:

1. Benito D'Ippolito, agli amici suoi di Bolzano

2. Enrico Peyretti: la vittoria divide, la pace unisce

3. Vandana Shiva, le societa' realmente sottosviluppate

4. Una missione musicale di pace a Baghdad

5. Un appello del Centro di educazione alla mondialita'

6. Marco Fazzini intervista Wole Soyinka

7. Riletture: Eva Cantarella, L'ambiguo malanno

8. Riletture: Angela Davis, Autobiografia di una rivoluzionaria

9. Riletture: Itala Vivan, Interpreti rituali

10. La "Carta" del Movimento Nonviolento

11. Per saperne di piu'



1. RIFLESSIONE. BENITO D'IPPOLITO: AGLI AMICI SUOI DI BOLZANO

[Benito D'Ippolito e' un intermittente collaboratore di questo notiziario]



Cosi' alla fine a questo si riduce

tutto il dilemma del mondo:

se preferibile sia una vittoria

che reca cataste di morti

e le anime e gli occhi offuscati per sempre

o la pace, nutrice dei popoli

e delle nostre magre gioie e luminose

madre feconda e condizione necessaria.



2. RIFLESSIONE. ENRICO PEYRETTI: LA VITTORIA DIVIDE, LA PACE UNISCE

[Il testo seguente e' quello di un discorso tenuto da Enrico Peyretti a
Bolzano il 19 settembre 2002 su invito dei movimenti pacifisti. Enrico
Peyretti (per contatti: peyretti at tiscalinet.it) e' una delle figure piu'
vive della cultura della pace]

A Bolzano, dopo che l'amministrazione comunale, pare senza sufficiente
consultazione della popolazione, ha cambiato il nome di piazza della
vittoria (la vittoria del 1918 che porto' all'annessione del Sudtirol-Alto
Adige all'Italia), in piazza della pace, proteste insistenti delle destre
hanno condotto ad un referendum, che si celebra il 6 ottobre 2002, per la
scelta popolare tra i due nomi.

*

"La guerra non ha piu' senso per il semplice fatto che non si vince piu'.
Per il semplice fatto che anche una guerra vinta non chiude il conflitto
che voleva chiudere: lo riapre in forme piu' nuove e terribili" (Ernesto
Balducci)

*

1. L'ossessione del vincere

2. Tre tipi di vittoria

3. Vari tipi di pace

4. La vittoria divide, la pace unisce

5. Perche' e' male dividersi?

6. Due teorie sulla psicosi della vittoria

7. Il conflitto: vitale o mortale?

8. La guerra costituzione del mondo

9. La vittoria libera dal male? No, anzi...

10. Liberarsi o assoggettarsi?

11. Ricordare e cercare, per procedere e migliorare

12. Solo per amore

*

1. L'ossessione del vincere

Io conosco l'infezione del bisogno di vincere e anche la vaccinazione da
quel bisogno. Quando abbiamo qualche giorno di vacanza in montagna, mia
moglie ed io giochiamo a carte, a pinnacola, l'unico gioco che io conosca.
Perdo (quasi) sempre, e sempre voglio la "rivincita". Non sono veramente
libero di perdere...

Da ragazzi, in societa' coi miei fratelli collezionavo le figurine. Solo i
ciclisti ci interessavano, non i calciatori. Giocavamo d'azzardo,
sollevando le carte e scommettendo sul colore, con due nostri cugini. E
arrivammo a perdere fino a 400 figurine. Non le avevamo, eravamo in debito.
Ricordo che la preoccupazione mi toglieva il sonno. Continuammo a giocare
fino a risalire lo svantaggio, a pagare finalmente il debito. Basta. Ne
ebbi abbastanza per tutta la vita, del gioco d'azzardo. Vaccinato da questo
bisogno di vincere.

Questo e' solo un gioco, ma rivela la psicologia della "vittoria": il
"giocatore" e' dipendente, costretto a vincere, se non ora, domani, ad ogni
costo, a costo di tutto. Se non si libera dall'ossessione di dover vincere.

Questo succede anche dove il gioco diventa duro e tiranno come la guerra.
Vedi il disgusto del calcio e degli sport diventati guerra commerciale.

I calciatori che, fatto un gol, danno in furiose esultanze, tirano pugni
nell'aria, esibiscono grinte piu' feroci che felici, come se stessero
sbranando un odiato nemico, dimostrano una malsana cultura della vittoria
sportiva. Il gioco, la prova di abilita' e forza fisica rappresenta, nel
corso del lungo faticoso processo di umanizzazione,  la neutralizzazione
della guerra, la trasformazione della vittoria da dolore ad allegria.
Invece, quel brutto modo di giocare e di vincere fa il cammino inverso, e'
la regressione umana dal gioco alla guerra. La barbarie di quei calciatori,
corrotti dai troppi soldi che guadagnano e dalla psicosi sportiva di massa,
riflette le violenze collettive degli stadi, che tornano a somigliare
all'arena dei gladiatori. In questo senso, Alex Langer denunciava il motto
olimpico "citius, altius, fortius" (piu' veloce, piu' alto, piu' forte)
come emblematico del "modello della gara" che informa fino
all'esasperazione e alla follia il modo di vita dominante e gli opponeva un
altro motto: "lentius, profundius, suavius" (con piu' calma, piu'
profondita', piu' dolcezza) (cfr. Alexander Langer, Il viaggiatore leggero,
Scritti 1961-1995, Sellerio, Palermo 1996, p. 329).

Se giocare vuol essere solo vincere, quel vincere non e' piu' leggero come
il giocare, ma pesante come il combattere. Questa civilta' della
competizione produce piu' vittime che successi umani, piu' rifiuti che
prodotti; questo "progresso", come dice Eduardo Galeano, e' un viaggio con
piu' naufraghi che passeggeri.

*

2. Tre tipi di vittoria

Vedo questi tipi di vittoria:

a) nel gioco con la sorte: lotto, lotteria, fortuna, scommesse sui
risultati. Questa vittoria non fa danno diretto ad altri, che sono liberi
contribuenti del vincitore.

b) nel gioco sportivo o di abilita': vince l'attenzione, la sveltezza, la
prestanza fisica. Anche questa vittoria non fa male diretto ai perdenti.
Purche' resti un gioco. Ma chiamano sport anche la caccia e la "pesca
sportiva". "Disse il pescatore al verme: 'Vieni, andiamo a pescare'" (cosi'
Brecht parlando del reclutatore di soldati, in Madre Courage). Bello sport,
prima per il verme e poi per il pesce.

c) vittoria in guerra: questa e' solo uccidere, distruggere, umiliare,
assoggettare.

Nella guerra come nel gioco il perdente vuole ri-vincere. E il vincitore
vuole mantenere cio' che ha vinto, a tutti i costi.

Eccoli, i costi: nella vittoria bellica diventa "glorioso" morire piuttosto
che cedere o rinunciare ad un pezzo di terreno. Un confine vale piu' delle
vite umane. Gli uomini sono mandati al macello per conquistare un cocuzzolo
indifendibile (delitto tipico della prima guerra mondiale). Sono i crimini
di guerra dei generali. Il potere e l'interesse di chi obbliga il soldato
e' fatto valere piu' della vita del soldato. Oggi, poi, il terreno da
conquistare sono le ultime riserve di petrolio, a costo di calpestare i
popoli.

Guardate i monumenti ai "caduti" in guerra. Sono forse dei pacifici
alpinisti sfortunati? No. Sono in realta' ammazzati, ma li chiamano
"caduti" per nascondere il delitto.

*

3. Vari tipi di pace

1) Le cosiddette "paci" dopo le guerre sono lo scopo massimo della guerra,
atto essenziale della guerra. Sono guerra, non pace. La guerra ha come suo
scopo l'imposizione della volonta' del vincitore al vinto (Karl von
Clausewitz). L'assoggettamento della liberta' altrui e' offensivo come la
violazione del diritto alla vita (tanto e' vero che a volte e' preferibile
la morte alla schiavitu'; ma si puo' anche pensare: meglio schiavi vivi,
che possono liberarsi e liberare, piuttosto che liberi morti, che non
possono piu' aiutare i non liberi). La minaccia e la soppressione della
vita del "nemico" e' strumentale al dominio su di lui; la cultura
dell'uccidere e' subordinata alla cultura del dominio; il dominio e' una
violenza non meno grave e profonda dell'omicidio organizzato nella guerra;
la cultura del dominio usa l'uccidere quando non puo' ottenere la
schiavitu' dell'altro, oppure l'uccidere alcuni per asservire tutti; la
violenza strutturale e sistemica del dominio e' - in un certo senso - piu'
grave e piu' profonda della cultura dell'uccidere, perche' e' meno
immediatamente ripugnante e quindi meno rifiutata, piu' sopportata dai
terzi spettatori; dalla volonta' di potenza viene l'uccidere; l'uccidere
non serve al dominio, perche' non si regna sui morti: si minaccia la morte
per regnare sui vivi ridotti ad oggetti. Ora, quelle cosiddette paci dopo
le guerre, frutto delle guerre, sono l'istituzione del dominio, che e'
offesa e violenza.

2) Pace armata ovvero guerra fredda: la minaccia e' gia' violenza; un'arma
puntata al petto, anche se non ha ancora sparato, e' violenza a scopo di
dominio.

Scrive Simone Weil in L'Iliade, poema della forza: "La forza e' cio' che
rende chiunque le sia sottomesso "una cosa". Quando sia esercitata fino in
fondo, essa fa dell'uomo una cosa nel senso piu' letterale della parola,
poiche' lo trasforma in un cadavere. C'era qualcuno e un attimo dopo non
c'e' nessuno". Osserviamo che, piu' che della forza, si tratta qui della
violenza, perche' la forza e' anche quella costruttiva e umanizzante, e' il
coraggio, la resistenza, la lotta nonviolenta.

E' la violenza che ha questo effetto spersonalizzante e cosificante,
perche' infligge ingiusta sofferenza,  offesa, dominio. "La violenza che
uccide e' una forma sommaria, grossolana della violenza", ma ce n'e'
un'altra piu' sorprendente: "La violenza che non uccide ancora. Uccidera'
sicuramente, o uccidera' forse, ovvero e' soltanto sospesa sulla creatura,
e da un momento all'altro puo' ucciderla; in ogni modo muta l'uomo in
pietra". Si dice: impietrito dal terrore. Ma non e' solo una paralisi della
parola, dei muscoli. E' il potere di "mutare in cosa - come pietra - un
uomo che resta vivo. E' vivo, ha un'anima; e', nondimeno, una cosa. (...)
Strano stato per l'anima. Chi sa quale sforzo le occorre ad ogni istante
per conformarsi a cio', per torcersi e ripiegarsi su se medesima? L'anima
non e' fatta per abitare una cosa: quando vi sia costretta, non vi e' piu'
nulla in essa che non patisca violenza". Vi sono esseri cosi' sventurati
che "senza morire, sono divenuti cose per tutta la loro vita", nella quale
"non vi e' alcuno spazio per qualcosa che proceda da loro". "Si tratta di
un'altra specie umana, un compromesso tra l'uomo e il cadavere",
contraddizione che strazia l'anima. La condizione delle vittime, degli
schiavi, dei dominati, "e' una morte che si allunga, si stira per tutto il
corso di una vita". Questo e' cio' che fa la pace armata, la minaccia, la
strategia del terrore, che sia equilibrato come ieri o unilaterale come
oggi.

E' importante ricordare, in questo tempo di guerra, che la morte
artificiale e organizzata nella guerra, e' solo la punta piu' visibile e
orrenda della violenza, la quale si ramifica nel profondo in tutte le forme
di dominio, alle quali serve l'apparato militar-industriale. Questo non e'
solo strumento per il dominio, ma anche tentazione e spinta a dominare,
sicche' e' meglio, e' piu' sicuro non avere potenza militare. Dice un
proverbio americano: "Chi ha un martello in mano scambia il mondo per un
chiodo".

3) La pace prima della guerra, invece della guerra, e' la pace migliore, la
vera pace; e questa non e' tanto una idea statica di pace, di un ordine
perfetto da mantenere ("tranquillitas ordinis", S. Agostino), ma un'idea
dinamica: la capacita' di risolvere i conflitti (naturali e inevitabili
nella vita) facendoli evolvere in modi costruttivi, conciliativi
(compromesso come incontro alto, non al ribasso), scartando le "soluzioni"
eliminatorie, offensive, distruttive, che non risolvono ma rilanciano in
peggio il conflitto.

4) Ma c'e' anche una pace ancora piu' faticosa ed eroica: la pace durante
la guerra, contro la guerra in corso. Chi fa questa pace?

a) gli obiettori di coscienza, che hanno diritto naturale ed inviolabile ad
obiettare non solo prima di vestire la divisa, ma anche se hanno accettato
il servizio militare e la guerra, quando la loro coscienza, sempre libera e
suprema istanza, li porta successivamente a rifiutare di collaborare alla
guerra. Afferma questo diritto naturale una avanzata risoluzione del
Parlamento europeo che risale al 7 febbraio 1983, ancora estranea alla
nostra legislazione (cfr. Rodolfo Venditti, L'obiezione di coscienza al
servizio militare, terza edizione, Giuffre' editore, Milano 1999, p. 109).
Ci sono stati 30.000 disertori anche nell'esercito del Reich, meta' dei
quali catturati e "ingiustiziati" con la pena di morte. Tradire il
tradimento dell'umanita' - perche' tale e' la guerra- e' la vera fedelta'.

b) quei militari che, anche se non arrivano ad uscire dalla guerra, ne
contraddicono la logica e il meccanismo inumano, con atti di umanita' verso
il nemico. Essi sono gli "amici del nemico", che la logica militare
condanna, fino alla pena di morte immediata, ma in verita' sono "piu'
uomini che soldati"; sono loro che salvano l'onore dell'umanita' e del loro
popolo ben piu' di quanto facciano i cosiddetti "eroi" nel combattere e i
comandanti e politici della guerra. Di tali uomini, magari dalla coscienza
risvegliata all’ultimo momento, se ne sono trovati anche nelle SS, a
Marzabotto, a S. Anna di Stazzema. Tali atti di pace in contraddizione con
la guerra, sono semi di pace futura (vedi anche Kant, Per la pace perpetua,
sesto articolo preliminare).

Di questi vari tipi di pace, la pace stabile non e' mai quella imposta
(pace "di imperio"), non e' certamente la "pace armata", ma soltanto quella
"di soddisfazione" reciproca (Raymond Aron, Norberto Bobbio), senza
rivendicazioni importanti; quella pace in cui i diritti rispettivi delle
parti in conflitto sono stati abbastanza conciliati sulla base di interessi
superiori comuni - per esempio oggi la sopravvivenza dell'umanita'; cioe'
quella pace che non consiste solo nella cessazione dei combattimenti.

Questa pace di reciproca soddisfazione, ottenuta da chi ha saputo
trasformare i conflitti in intese anche a meta' strada, e' la
riconciliazione. La quale e' tale se avviene  sulla base di verita' (dei
fatti) e di giustizia (riconoscimento dei diritti e dei dolori). Vedi il
grande esempio del Sudafrica, che ha superato il regime dell'apartheid non
con la giustizia punitiva vendicativa, ma con la giustizia riparativa,
concedendo l'amnistia personale a chi, riconoscendo la verita' (il proprio
delitto) cercava la riconciliazione con la parte offesa.

La riconciliazione e' la vera vittoria comune, non sul nemico, ma
sull'inimicizia e sull'infliggersi l'un l'altro dolore. La giustizia non
sta nel rendere male per male, nuovo anello nella catena di mali e di
dolori, ma nel ricomporre il rapporto umano violato dalla violenza.

La politica e' questa pace, altrimenti non e' politica; e' l'arte di
costruire la con-vivenza, quindi di conciliare e riconciliare le
differenze, che sono la varieta' della societa' umana; se non fa questo, e'
una meccanica non umana, uno scontro di forze brute, e' selvaggia, non
civile, e' legge della foresta e non della citta' umana. Se la politica e'
imporre e non comporre non e' convivenza.

Quindi, la vittoria militare non porta mai la pace, anzi distrugge la
possibilita' della pace giusta e stabile; la vittoria militare e' pace "di
imperio", percio' e' gravida di altre guerre "logiche", o di difesa del
dominio, o di rivolta contro il dominio.

La vittoria militare, frutto di inimicizia, e' seme di nuova prolungata
inimicizia, nella rivincita, nella vendetta.

Percio' devo dire: la vittoria divide, la pace unisce; non la vittoria e'
da celebrare, ma i passi compiuti della costruzione della pace, anche se il
cammino e' difficile e lungo.

*

4. La vittoria divide, la pace unisce

Se c'e' un vincitore c'e' un vinto; uno e' contento di avere inflitto un
dolore e un danno, l'altro ha subito e patisce un male.

Ascoltiamo due voci autorevoli, che superano i tempi: Buddha ed Erasmo.

Buddha: "La vittoria alimenta inimicizia, perche' chi e' vinto giace
dolente. Chi ha abbandonato vittoria e sconfitta, costui rista' tranquillo
e felice" (Dhammapada, n. 201, in Aforismi e discorsi del Buddha, a cura di
Mario Piantelli, Tea, Milano 1988).

Dopo ogni vittoria resta ancora da fare la cosa piu' importante, che la
vittoria ha allontanato: la riconciliazione. Il bisogno del vinto e
ugualmente il bisogno del vincitore rimane ancora insoddisfatto: e' il
bisogno di essere riconciliato, per avere sicurezza e tranquillita', per
non dover temere recriminazioni, attacchi, dominio, vendetta. Questi sono i
bisogni e diritti fondamentali della vita, e la vittoria non li assicura,
ma li rende incerti piu' che mai.

Erasmo da Rotterdam (1466-1536), il grande difensore della pace all'inizio
del Cinquecento, avverti' che lo Stato moderno si andava costituendo sul
diritto di guerra, per il quale disponeva dei nuovi terribili armamenti da
fuoco. Cioe', la guerra era il primo reale articolo delle costituzioni
statali, ancora non scritte. Erasmo propose un'alternativa storica che non
fu seguita: la riforma religiosa sulla base della pace. Lutero segui'
un'altra via, non questa, che oggi si impone di nuovo.

Erasmo fu un grande cristiano, che oggi la chiesa fa molto male a non
ricordare. Dovrebbe essere proclamato "dottore della chiesa", Dottore
Pacifico. Noi oggi, al termine della modernita', nell'era della
distruggibilita' atomica, siamo di fronte ad un compito uguale: superare
gli Stati e gli imperi costituiti sulla violenza e la guerra.

Scrive Erasmo: in guerra, "il trionfo di questi e' il lutto di quelli...
atroce e grondante di sangue e' la felicita'" del vincitore. "Alla fine,
anche se ottengo vittoria completa, e' piu' lo scapito che il guadagno".
"Il bello e' che non ottengono mai proprio quello che vogliono, e mentre
stupidamente cercano di evitare questo o quello scoglio, piombano in altri
guai, o negli stessi ma molto peggiorati". "Chi vince e' un assassino. Chi
e' vinto muore, ma non e' meno colpevole: muore solo per non essere
riuscito  a compiere lui l'assassinio che tentava". "In guerra piange anche
chi vince". "Noi ti preferiamo pacifico piuttosto che vittorioso" (a
Filippo di Borgogna). "La vittoria (in guerra) non rientra mai fra i beni
che appagano" (sono parole tratte dal Dulce bellum inexpertis [la guerra
piace a chi non la conosce], dalla Querela pacis, dalla Lettera ad Antonio
di Bergen, e da altri testi, oggi accessibili a tutti nel libro curato da
Eugenio Garin nelle Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole
1988).

In Erasmo si coalizzano due argomenti contro la guerra: l'argomento del
sano utilitarismo e quello morale, per cui l'uomo e' fallito quando uccide
l'uomo. Serve la guerra contro la violenza e la malvagita'? Neppure per
questo serve, perche', come dice Kant: "La guerra e' un male perche' fa
piu' malvagi di quanti ne toglie di mezzo" (Per la pace perpetua). Oltre
che vergognosa e degradante, la guerra, anche se vinta, non conviene, e'
stupida, costa sempre troppo cara, non risolve nessun problema, attira
vendetta.

Dunque, fallimento morale e fallimento anche economico, se economia vuol
dire "regole per bene abitare la casa", la casa umana, insieme, senza danni
e minacce reciproche.

*

5. Perche' e' male dividersi?

Allora, se la vittoria divide, la vittoria e' un male, e se la pace unisce,
la pace e' un bene. Perche' e' male dividersi? Perche' e' bene essere
uniti? Perche' senza gli altri siamo meno vivi. Ognuno di noi e' fatto
dalla relazione di scambio con gli altri: ascoltiamo, riceviamo, impariamo,
siamo aiutati, siamo sollecitati a crescere; ci esprimiamo, comunichiamo,
diamo, regaliamo e cosi' siamo vivi, attivi, creativi, donativi. Senza gli
altri, la vita e' rattrappita, rachitica, anzi impossibile. Divisioni e
distanze sono riduzione della vita.

La pace non e' solo tranquillita', assenza di turbamento; e' piuttosto
ricchezza di vita perche' e' incontro, dare e ricevere senza calcolo i beni
della vita, che sono un valore senza prezzo.

Io sono ormai convinto che l'etica dell'unita' umana, cioe' del valore
inviolabile dell'umanita' riconosciuta e venerata in ogni altro essere
umano, giudica tutte le culture, le filosofie, le religioni, le politiche,
le economie e tutte le nostre memorie e categorie mentali. Tutte le vie
umane sono giudicate dall'etica di pace nonviolenta, cioe' dal "rispetto
della vita" (Albert Schweitzer). E' dunque possibile che questa etica ci
imponga di "rivedere" ("revisione" non e' "negazione") anche le nostre
memorie storiche, fossero pure quelle finora piu' esaltate, anche quelle
che ci sono state care, quando ne vediamo le ombre, i limiti, i veri e
propri disvalori.

Possiamo accennare, all'opposto, ad una ontologia e antropologia della
vittoria: l'essere dell'uomo individualistico e' la separatezza ontologica
dall'altro; allora il rapporto essenziale non e' di comunicazione, ma di
rivalita', di competizione, di forza. Questa e' la micidiale cultura oggi
prevalente, sotto nome di liberta'. Conseguenza: anzitutto vincere,
primeggiare, escludere, sopraffare. Ne viene una societa' di rivali, non di
soci. Ne vengono gli spettacoli di violenza nel mondo che ogni giorno ci
offendono, perche' la violenza del vincere l'altro e' nelle menti e nei
cuori di troppi di noi (cfr Roberto Mancini, Il silenzio, via verso la
vita, Qiqaion, Bose 2002, pp. 186-187 e passim).

In realta', e' una vergogna vincere, e' una vergogna comandare. La vittoria
e' una sconfitta. Perche'? Perche' e' una non-relazione, non gioia
dell'amicizia e della vicinanza, e' uno spezzare l'umanita', perche' noi
non siamo separati dagli altri. Se ci separiamo ci mutiliamo in modo
mortale.

*

6. Due teorie sulla psicosi della vittoria

La mania e il culto della vittoria sono proprio una malattia, una
superstizione, una paura e una debolezza. Chi e' sano non ha bisogno di
imporsi e di celebrare le volte in cui si e' imposto.

Johan Galtung (Pace con mezzi pacifici, Esperia, Milano 2000) esamina il
"complesso EMT", cioe' Elezione, Miti, Traumi.

1) Elezione, sentirsi popolo eletto, attribuirsi superiorita' di forza, di
diritto, di civilta', di razza, di ricchezza. La vittoria dimostra che sono
benedetto da Dio e dalla Storia! Dunque ho un diritto superiore agli altri,
il diritto di dominare, dettar legge, e punire chi mi contrasta o mi
resiste, perche' violando il mio diritto superiore egli e' colpevole. Nella
favola di Fedro l'agnello e' colpevole di non sottostare all'appetito del
lupo. C'e' un proverbio francese: "Cet homme est trs mechant; quand on
l'attaque il se defend".

2) Miti di glorie passate e di glorie attese; una vittoria e' una gloria
che si e' condannati a mantenere e rinnovare, accrescere, e guai a chi lo
impedisce.

3) Traumi: sconfitte, vergogne da riscattare: se ieri ho perso domani devo
vincere; ogni guerra ne contiene un'altra, ed eccoci chiusi nell'inferno
senza uscita.

Pat Patfoort, sociologa belga: quando c'e' superiorita'-inferiorita',
Maggiore-minore, l'inferiore vuole diventare Maggiore, il superiore vuole
accanitamente restare Maggiore. La guerra, anche "fredda" e' fatta piu'
spesso dai ricchi forti per difendere la superiorita', e ogni tanto dai
poveri deboli per ribaltare le posizioni. Pero' anche questi, se possono,
abbattono e assoggettano i padroni, i quali, naturalmente, vorranno
vendicarsi con la ri-vincita, cioe' la repressione e vendetta. Helder
Camara chiamava  violenza n. 1 il dominio; n. 2 la rivolta; n. 3 la
repressione. La violenza non comincia con la rivolta, ma col dominio.

Se i poveri ribellatisi vincono, ben difficilmente, finche' rimangono in
questa logica, saranno capaci di stare in uguaglianza e giustizia, ma
vorranno essere loro, ora, i superiori, specialmente i loro capi militari;
e il tragico gioco continua: ancora una volta siamo nei gironi a spirale
infinita dell'inferno.

La soluzione non e' mai la vittoria, ma l'equi-valenza, che consiste non
nell'attuare un'impossibile e neppure augurabile uguaglianza assoluta, in
tutto, ma nel riconoscere l'eguale valore delle persone e dei popoli, delle
culture, delle civilta'. Chi e' piu' avanti in una cosa ha da imparare in
altre cose; nessuno sa fare tutto, tutti sappiamo fare qualcosa; nessuno
vale piu' degli altri; nessuno vale meno degli altri (se non in qualche
aspetto o capacita' particolare - bellezza, forza, abilita' - ma non nel
diritto essenziale di ogni persona).

*

7. Il conflitto: vitale o mortale?

Il conflitto e' parte della vita, perche' siamo diversi, abbiamo esperienze
diverse, vediamo le cose diversamente. Il conflitto e' l'incontrarsi non
facile delle differenze. Anche la coppia umana, che e' l'attrazione
reciproca della differenza psico-fisica fondamentale uomo-donna, non e'
facile, perche' richiede una disposizione e una interminabile educazione ad
accettare e valorizzare le differenze personali, superando continuamente
l'autocentramento.

Ma il conflitto e' sempre anche una forma di collaborazione (collaborazione
antagonistica): non si litiga se non si vuole entrambi litigare. C'e' la
storia di quei due eremiti nel deserto che vollero provare a litigare, come
fanno tutti nel mondo, e non ci riuscirono, perche' il primo disse: "Questo
sasso e' mio!" e il secondo: "Allora tienilo". Non erano d'accordo a
litigare! Non erano soggetti al dogma possessivo.

Siamo differenti, ma siamo della stessa natura umana, tanto e' vero che
comprendiamo i sentimenti e le emozioni degli uomini della preistoria,
dell'antichita', di tutte le culture, religioni, civilta'.

Qui a Bolzano, vedendo il corpo di Oetzi, vissuto 5.000 anni fa, e
immaginando la sua tragica avventura, sappiamo capire e far nostri i suoi
possibili sentimenti, perche' lui e' un uomo come noi e noi siamo uomini
come lui. Si possono avere usi e costumi diversissimi,  ma sappiamo tutti
che cosa e', per tutti gli umani, dolore o gioia, offesa o amicizia,
crudelta' o compassione. Percio' possiamo "metterci nei panni dell'altro":
la distanza non e' incolmabile. Abbiamo la ragione e la parola per
spiegarci, per capire il punto di vista altrui, e comporre costruttivamente
le differenti esigenze. Percio' le differenze sono una ricchezza della vita
umana, non una condanna: per Gandhi "il conflitto e' un'occasione di
verita'", un allargamento del proprio iniziale punto di vista ed
esperienza; nel conflitto, io, se sono saggio, acquisto - non conquisto! -
anche qualcosa della vita dell'altro.

Ma tutto dipende da come gestiamo i conflitti della nostra vita: in modo
vitale o mortale? Il conflitto e' vitale se condotto con l'arte, la
scienza, l'etica della nonviolenza attiva, cioe' dell'incontro costruttivo,
reggendo anche all'offesa senza adottare mezzi offensivi e distruttivi. Il
conflitto e' mortale nella cultura della competizione, della
diseguaglianza, della ossessione di vincere, primeggiare, sorpassare. Solo
la cultura dell'equi-valenza, e quindi di una sufficiente e decente
eguaglianza di diritti e di soddisfazioni, garantisce la pace, cioe' la
soluzione nonviolenta dei conflitti.

La pace e' complessa, come la salute: consiste nella sopravvivenza non
minacciata, nel benessere (non solo ben-avere), nella giustizia, nella
liberta', nel rispetto dell'identita', nell'ecoequilibrio o ecosalute. La
vittoria e' diseguaglianza sotto ognuno di questi aspetti, percio' e' madre
di tutte le guerre; non e' la fine della guerra, ma l'inizio e minaccia
della prossima guerra. La vittoria e' "soluzione" apparente del conflitto
perche' lo chiude a somma zero, cioe' con due risultati opposti: positivo
per il vincitore (ma minacciato) negativo per il vinto (vendicativo). In
realta', a veder meglio, il risultato e' negativo per entrambi, e' la
sconfitta di tutti, anche del "vincitore". Ogni vittoria contiene nella
pancia, gia' in lotta fra loro, una paura (del vincitore di oggi) e una
vendetta (del vinto). Il conflitto a risultato positivo per entrambi
(minore in quantita' rispetto al "vincitore" unico, ma superiore in
qualita' ed effetti per tutti e due) e' la vittoria comune, il con-vincere
il "fare pari". Entrambi hanno vinto non l'avversario, ma il danno che si
potevano fare.

*

8. La guerra costituzione del mondo

Riferisco una riflessione drammatica di Raniero La Valle: la guerra oggi
non e' soltanto la gestione violenta del conflitto; e' la costituzione
materiale del mondo; e' l'instaurazione dei conflitti per tenere in piedi
il sistema di violenza. La violenza non e' il mezzo ma il fine: violenza
strutturale da perpetuare. Il problema non e' bonificare il mezzo, ma
rovesciare il fine, cioe' la cultura del dominio, della rottura
dell'umanita' in due. Il sistema economico e politico vigente dall'89 non
e' in grado di assumere l'intera popolazione mondiale in un progetto comune
di vita e di sviluppo. O il sistema si cambia, o seleziona gli esseri
umani. Ma non si cambia. Dunque, una parte di umanita' e' contro l'altra:
appagati ed esclusi dallo sviluppo; sazi e affamati; nel lavoro
tecnologico, i necessari e gli esuberi; nel naufragio ecologico, i salvati
e i sommersi; nel movimento dei popoli, gli avec papier e  i sans papier.
E' una razionalita' di esclusione violenta. Chi fa la selezione? Il
mercato. Se gli esclusi si ribellano e magari si suicidano, ci vuole la
guerra, che aspettava l'occasione o che la previene (guerra preventiva),
quindi "guerra infinita", permanente. E' il regno dell'antropologia della
divisione: due specie umane, due razze, due diritti. Uomini signori e
uomini schiavi, popoli signori e popoli schiavi (proprio come Hitler). La
guerra sistemica e' posta a mantenere la differenza.
L'informazione-propaganda e' diffusa a fare apparire giusta l'ingiustizia.
Allora, se non ci rassegniamo, che fare? Obiettare regolarmente alle leggi
di guerra e di razzismo.

*

9. La vittoria libera dal male? No, anzi...

C'e' un'obiezione: ma la pace non viene dopo la vittoria? dopo avere
respinto il nemico?

Distinguiamo il respingere un'aggressione dal fare una conquista. La
vittoria del 1918 - perche' di questa si parla a Bolzano in questo periodo,
a proposito del nome della piazza- e' stata anche la giusta difesa sul
Piave dopo Caporetto: quello fu il momento in cui davvero il Paese senti'
come sua la guerra, perche' era di difesa, sebbene dopo che l'Italia aveva
scatenato un attacco offensivo all'Austria che non ci aggrediva, di cui
eravamo alleati; oltretutto in modo illegale, senza e contro il Parlamento
e la volonta' degli italiani (come nel 1911, nel 1935, nel 1940; come fa
oggi Berlusconi che dichiara all'Onu e a Bush la disponibilita' dell'Italia
alla guerra all'Iraq senza aver affatto sentito il Parlamento e contro la
volonta' maggioritaria del paese).

Cercare di riunire Trento e Trieste, italiane di popolazione, al regno
d'Italia era una giusta aspirazione: ma in che modo si poteva cercare
l'unione? solo con la guerra? a prezzo di 600.000 uomini ammazzati? a
prezzo della cerchia estesa di dolore che ogni morte violenta di guerra
porta con se'? e dell'abitudine alle armi e alla violenza che si trasmise
nella societa' corrompendola, e che qualifico' il movimento fascista e il
suo culto e uso della violenza, interna ed esterna, fino alla guerra
mondiale? No, questi prezzi non erano da pagare!

Ricordiamo il "parecchio" di Giolitti. Era possibile avere Trento e Trieste
italiane in cambio della neutralita'. Ma, a parte quel momento di difesa
sul Piave - e qui a Bolzano lo sapete bene - la guerra e' stata anche
l'attribuzione all'Italia, conquista di guerra, dell'Alto Adige, o Tirolo
Cisalpino, o Sudtirol, che e' il nome di questa terra nella lingua locale
prevalente.

L'Alto Adige non era Italia, ne' necessario all'Italia se non in una
visuale strategico-militare, del crinale alpino come postazione di
potenza-minaccia; se non nella concezione dei confini non come contatti e
ponti, ma come fronti e trincee opposte; questa e' una patologia della
geografia umana.

Cesare Battisti, trentino irredentista, scriveva chiaramente: "Riterremmo
stoltezza vantare diritti su Merano e Bolzano". "Certi italiani confondono
troppo facilmente il Tirolo col Trentino e con poca logica vogliono i
confini d'Italia estesi fino al Brennero" (Scritti politici, vol 2, pp.
96-97, cit. da Lorenzo Milani, nella famosa Lettera ai giudici del 18
ottobre 1965 in L'obbedienza non e' piu' una virtu', in molte edizioni).

La vittoria dell'Italia e dell'Intesa nel 1918 diede luogo alla cosiddetta
pace di Versailles, che fu una "pace" punitiva, sbagliata e stolta, come
sempre e' la logica di guerra, che vuole usare il male per togliere il
male, e cosi' lo accresce.

Versailles creo' nella Germania la voglia di rivincita, come sempre fa la
vittoria che abbassa, stabilisce diseguaglianza, invece di chiudere il
conflitto con una riconciliazione nella equi-valenza. Il nazismo cavalco'
quel revanscismo.

Ecco gli effetti in Italia di quella vittoria-atto-supremo-di-guerra: la
dittatura all'interno, il nazionalismo imperialistico e aggressivo verso
l'esterno, le ideologie della forza e della razza, fino all'alleanza con
Hitler e il coinvolgimento in una guerra ingiustissima, che per grazia di
Dio abbiamo perduta. Conosco una famiglia nella quale il padre, vincitore
nel 1918, disse al figlio, richiamato alle armi nel 1940: "Io ho vinto la
guerra, e ho avuto il fascismo come risultato. Tu prova a perderla!
Speriamo che ti vada meglio". Il figlio, appena visti gli inglesi sul
fronte africano butto' a terra il fucile, passo' il tempo di guerra come
prigioniero, torno' ed ebbe l'Italia democratica.

Dunque, la guerra 1915-18 fu una guerra ingiusta, con una vittoria disastrosa.

La politica strategico-militare-espansionistica produce minaccia; e la
minaccia e' pericolosa per chi e' minacciato, ma anche per chi minaccia. La
sicurezza, infatti, o e' comune o non e' di nessuno; se il mio avversario
si sente minacciato, io non sono affatto sicuro, perche' lui ha bisogno di
minacciare me, illudendosi anche lui di rendersi cosi' sicuro. La forza
minacciosa e' stupida.

*

10. Liberarsi o assoggettarsi?

Dunque, la vittoria-liberazione da una aggressione e' un sollievo, purche'
si cerchi anche la riconciliazione col nemico. Ho scritto piu' volte la
storia di un soldato tedesco, Josef Schiffer, vivente, diventato mio amico,
che durante l'occupazione aiuto' e protesse la popolazione civile ad Aulla.
Ho visto, nel 1995, a 50 anni dalla fine della guerra, e di nuovo in
occasioni successive, l'ultima lo scorso luglio,  con quanto calore,
gratitudine e amicizia lo hanno accolto gli anziani che l'avevano
conosciuto durante la guerra. A cena qualcuno disse: "Eravamo nemici, ora
siamo amici: questa e' la vera vittoria". Gandhi vinse la sua battaglia
quando l'indipendenza dell'India fu festeggiata in amicizia con gli
inglesi, ex-dominatori.

Mentre la vittoria in una aggressione e' un male, sorgente di disastri,
respingere un’aggressione, certo, e' un diritto-dovere. Ma come? Imitando,
riproducendo i metodi e i mezzi dell'aggressore? Non e' forse questo un
assoggettarsi sostanziale al suo potere?

Certo, e' difficile. Ogni giorno sentiamo quanto e' difficile rispondere ad
un'offesa con un atto di apertura che trasformi il rapporto, che risvegli
nell'avversario il meglio della sua umanita'. E' piu' facile copiare
l'avversario e dare ragione alla sua offensivita' ricambiando offesa per
offesa, occhio per occhio, dente per dente. Sentiamo che e' difficile
uscire dall'imitazione, ma che c'e' piu' forza e piu' futuro nel resistere
che non nel rendere colpo per colpo.

La resistenza nonviolenta e' la piu' potente condanna della violenza di chi
ci aggredisce. Ed e' anche, se si prepara per tempo nella consapevolezza e
nei mezzi, una difesa efficace, priva di effetti collaterali negativi, come
apprendiamo dalla storia delle lotte nonviolente che si sta costruendo. E'
possibile concretamente difendersi senza guerra.

Rendere male per male rende peggiore l'avversario violento, chi gia' si
comporta male, gli da' conferma dei suoi metodi. Inoltre peggiora chi ha
diritto di difendersi, sporca la sua causa giusta. Certo, e' necessaria una
pedagogia del conflitto, per imparare a farlo evolvere da
mimetico-distruttivo a trasformativo-costruttivo.

La nonviolenza e' questa pedagogia, non e' la resa, non e' la non-difesa,
non e' roba da scemi, ma e' il coraggio, la scienza e la saggezza delle
differenze costruttive, della relazione umana difesa e compiuta al di sopra
del conflitto, anche attraverso di esso.

*

11. Ricordare e cercare, per procedere e migliorare

Il grande obiettivo per dare qualita' umana e vitale ai rapporti tra
persone e popoli, ridurre i dolori e accrescere la felicita' e la
giustizia, senza la quale siamo disonorati, e' rinunciare a vincere (cfr.
il mio libro La politica e' pace, Cittadella, Assisi 1998, pp. 32-37).

Percio' non possiamo esaltare vittorie armate dolorose e disastrose, ma
solo la pace che cerchiamo e i segni che nella storia ne sono comparsi, che
ci incoraggiano e ci obbligano ad impegnarci nella costruzione della pace,
intesa questa come spiritualita', come cultura, come politica, come scienza
e arte vitale dei conflitti.

Anche qui avete vicini, nella memoria di questa vostra terra, dei segni  di
questa arte e coraggio della pace, pur in mezzo alla guerra: per esempio
Josef Mayr-Nusser (cfr. il libro di Francesco Comina, Non giuro a Hitler,
San Paolo, Milano 2000).

Ci sono memorie di dolori, paure, sollievi, gioie; ci sono anche memorie
infette, avvelenate, che trasmettono germi di odio e di nuove ostilita':
vedi la tragedia jugoslava. Bisogna curare - nei due significati di
"conservare" e "guarire" - le memorie, non trasmettere le infezioni dei
mali del passato. Bisogna lavorare per la riconciliazione. Condizione di
vera pace serena e stabile, e' la riconciliazione; anche la riconciliazione
delle memorie, che significa anche perdonare: il perdono e' parte della
giustizia (messaggio di Capodanno 2002 di papa Giovanni Paolo II), e'
necessario per la ricostruzione di relazioni giuste, capaci di salire al di
sopra dei mali compiuti e patiti.

Allora mi permetto, da ospite e amico della vostra citta', di suggerire una
piccola cosa (forse gia' pensata da qualcuno) sulla questione dibattuta del
nome da dare alla piazza finora chiamata della vittoria, cioe' di quella
vittoria del 1918 che abbiamo detto. Suggerisco di considerare se non
sarebbe bello che la piazza - visto che piazza della pace e' bello, ma non
e' gradito a tutti (non posso capire perche') - si chiamasse della
riconciliazione, o della riconciliazione tra i popoli, o della unita' dei
popoli, o dell’incontro dei popoli.

La vostra citta', su un confine-contatto, ha una vocazione e significato di
comunicazione tra terre e popoli; ha una storia controversa, che oggi puo'
diventare storia di incontri, di conoscenza e collaborazione nuova, e piu'
promettente che pericolosa, tra popoli di terre vicine e anche con popoli
nuovi, gli immigrati, che vengono a cercare di condividere con noi
liberta', dignita', pace, giustizia; con noi che qualche passo abbiamo
fatto, con delle contraddizioni, e altri passi vogliamo fare per l'unita'
bella e varia di tutta intera la famiglia umana.

Nonostante le nuove fiamme infernali di una guerra premeditata, nonostante
le tante violenze strutturali, il mondo oggi ha questa vocazione e
possibilita': unire i popoli e le persone nel rispetto e valorizzazione
reciproca delle differenze, che ne sono la ricchezza. Oggi il bilinguismo
e' la lingua per camminare nel mondo chiamato ad unirsi. Auguro a Bolzano
bilingue, citta' superiore ai limiti e alle piccolezze nazionalistiche, un
ruolo esemplare in questa vocazione del mondo alla pace.

*

12. Solo per amore

Laura Conti, scienziata dell'ecologia, morta nel giugno 1993, mi diceva
dopo Cernobyl, un giorno che l'avevo invitata a parlare ai miei alunni:
"Faccio questa battaglia ecologica senza speranza, solo per amore di ogni
essere, come le mie petunie e i miei gatti" (cfr. "Il foglio" n. 202,
luglio 1993). Forse i nostri sforzi saranno inutili. Forse la follia della
vittoria e del dominio distruggera' la natura e l'umanita'. Forse. Ma per
amore dell'umanita' e della natura, che e' il nostro corpo comune, cio' non
avverra' con la nostra complicita' e col nostro silenzio. Anzi, speriamo
che grazie anche alla nostra azione, mossa da un amore piu' forte del
timore, cio' non avverra'.



3. MAESTRE. VANDANA SHIVA: LE SOCIETA' REALMENTE SOTTOSVILUPPATE

[Da Vandana Shiva, I movimenti ecologisti in India, in Ipri, I movimenti
per la pace, vol. III, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1989, p. 148. Vandana
Shiva, scienziata e filosofa indiana, direttrice di importanti istituti di
ricerca e docente nelle istituzioni universitarie delle Nazioni Unite,
impegnata non solo come studiosa ma anche come militante nella difesa
dellâambiente e delle culture native, e' oggi tra i principali punti di
riferimento dei movimenti ecologisti, femministi, di liberazione dei
popoli, di opposizione a modelli di sviluppo oppressivi e distruttivi, e di
denuncia di operazioni e programmi scientifico-industriali dagli esiti
pericolosissimi. Opere di Vandana Shiva: Sopravvivere allo sviluppo, Isedi,
Torino 1990; Monocolture della mente, Bollati Boringhieri, Torino 1995;
Biopirateria, Cuen, Napoli 1999, 2001; Vacche sacre e mucche pazze,
DeriveApprodi, Roma 2001; Terra madre, Utet, Torino 2002 (edizione riveduta
di Sopravvivere allo sviluppo); Il mondo sotto brevetto, Feltrinelli,
Milano 2002]

Le societa' realmente sottosviluppate sono quelle in cui un piccolo gruppo
sociale si appropria di ogni beneficio proveniente dalla crescita mentre un
gruppo molto piu' vasto ne paga i costi.



4. SOLIDARIETA'. UNA MISSIONE MUSICALE DI PACE A BAGHDAD

[Riceviamo e diffondiamo il seguente comunicato]

Baghdad, 8 novembre 2002: interverranno i cantanti e i musicisti Max
Gazze', Claudio Lolli, Nada, Antonio Onorato, Pippo Pollina.

A tale proposito si lancia un appello per la raccolta dei fondi necessari a
sostenere le diverse iniziative umanitarie da attivare in occasione del
concerto a Baghdad.

L'iniziativa e' curata da "Aiutiamoli a vivere" di Pescara, "Storie di
note" di Roma, "Laboratorio progetto poiesis" di Alberobello-Bari.

Chiunque vorra', potra' inviare un proprio contributo sul c/c 7749 abi 1030
cab 41320 intestato al Laboratorio progetto poiesis, causale "Un euro per
la pace: il cielo sopra Baghdad", Banca Monte dei Paschi di Siena, filiale
di Alberobello.

I soggetti interessati potranno aderire all'iniziativa inviando una e-mail
indirizzata a lab.poiesis at tiscali.it e/o yuro.doc at inwind.it accompagnata da
un proprio curriculum.

Le tre associazioni riporteranno un bilancio pubblico completo di entrate
ed uscite per documentare in modo dettagliato l'uso della raccolta fondi
denominata: "Un euro per la pace: il cielo sopra Baghdad".

La manifestazione promossa da da "Aiutiamoli a vivere" di Pescara, "Storie
di note" di Roma, "Laboratorio progetto poiesis" di Alberobello-Bari, con
il patrocinio del Comune di Alberobello, intende organizzare l'8 novembre
2002 a Baghdad un concerto musicale e una lettura di poesie con la presenza
dei cantanti e musicisti italiani: Max Gazze', Claudio Lolli, Nada, Antonio
Onorato, Pippo Pollina, i poeti Giuseppe Goffredo e Tusio De Iuliis, il
fotografo Michele Stallo, insieme a poeti, cantanti e musicisti iracheni.

Con tale progetto le tre associazioni, impegnate, da anni, in favore
dell'intervento umanitario e del dialogo culturale con l'Iraq e i paesi
mediterranei, vogliono dare voce al dissenso di tutti coloro, singoli
cittadini o associazioni, che intendono opporsi alla guerra.



5. SCUOLA. UN APPELLO DEL CENTRO DI EDUCAZIONE ALLA MONDIALITA'

[Dagli amici del Centro di Educazione alla Mondialita' (per contatti:
cemmondialita at saveriani.bs.it) riceviamo e diffondiamo]

Carissimi,

il direttore del Centro di Educazione alla Mondialita' (Cem) ha inviato una
lettera aperta al ministro dell'Istruzione on. Letizia Moratti chiedendole
di riattivare la Commissione ministeriale per l'educazione interculturale
che dall'entrata in vigore dell'attuale governo non e' stata piu' convocata.

Nella precedente legislatura era stata istituita un'apposita Commissione
ministeriale per l'educazione interculturale. Formata da una quarantina di
esperti e convocata periodicamente (cinque o sei volte all'anno) la
Commisione ha promosso convegni e momenti formativi, trasmissioni in
collaborazione con Rai-Educational sul tema dell'interculturalita'. Grazie
ad essa, si era costituita una rete di insegnanti e di scuole per un
programma di educazione a distanza ed era stato avviato un lavoro di
integrazione tra la Commissione per l'intercultura e altri gruppi di lavoro
in vista della riforma della scuola.

Dal 13 maggio dello scorso anno, la Commissione non e' stata piu' convocata
e il lavoro e l'impegno partecipativo prodotto rischiano di andare perduti.

So che soffiano forti venti di guerra e che questa puo' sembrare
un'iniziativa marginale, ma se hai un momento di tempo ti chiedo di:

1: Sottoscrivere e inviare l'appello al ministro (lo trovi con tutta la
documentazione al sito: www.saveriani.bs.it

2. Spedire questa mail ai tuoi amici chiedendo loro di diffonderla.

Puoi trovare tutte le informazioni sull'appello e sul comunicato stampa al
sito di "Cem Mondialita'": www.saveriani.bs.it

Per ulteriori informazioni da "Cem Mondialita'" invia una e-mail a:
cemmondialita at saveriani.bs.it



6. TESTIMONIANZE. MARCO FAZZINI INTERVISTA WOLE SOYINKA

[La seguente intervista al grande scrittore africano abbiamo ripreso dal
quotidiano "Il manifesto" del 4 ottobre]

Primo scrittore africano a ricevere il Nobel per la Letteratura, Wole
Soyinka ha saputo fondere in modo esemplare - dalla fine degli anni `50
quando vennero pubblicati i suoi primi libri - rielaborazione mitica e
trattazione politica, in maniera da rendere i suoi regni cosmologici e
spirituali una sensazionale soluzione per la ricerca della liberta' dei
molti popoli oppressi della nostra geografia contemporanea. Lo abbiamo
incontrato ad Ascoli Piceno, poche ore prima che gli venisse assegnato il
Premio internazionale di poesia e traduzione della Fondazione Cassa di
Risparmio di Ascoli Piceno con una motivazione che ricorda tutta la gamma
delle forme letterarie da lui praticate - dalla poesia al teatro alla
narrativa alla saggistica - facendone uno dei massimi intellettuali "del
continente piu' ferito della storia".

- Marco Fazzini: Per cio' che concerne strettamente la poesia, pensa sia
ancora possibile scrivere e leggere tenendo a mente, in maniera moralmente
e intellettualmente imperativa, l'impegno civile e sociale della scrittura?

- Wole Soyinka: Non l'ho mai pensato. E' inevitabile che ci siano opere
legate a questioni sociali, cosi' come ci sono opere derivate dalla
percezione dei fenomeni, o altre direttamente legate ai nostri stati
d'animo, e cosi' via: sono scelte che spettano ai diversi scrittori,
altrimenti si rischia di scadere nella scrittura di propaganda, una
scrittura totalmente menzognera. Mi piace prendere una poesia e gustarmela
per il modo in cui allarga gli orizzonti umani, senza che sia
necessariamente impegnata da un punto di vista politico. D'altronde, se
confesso di essere un consumatore di questo bene creativo debbo credere che
esso sia giusto e assolutamente veritiero.

- M. F.: Da dove nasce, per lei, la poesia? Da una immagine, da una frase,
oppure da un periodo di gestazione che risponde a una volonta' piu' ampia e
piu' alta?

- W. S.: Direi che la poesia nasce da una combinazione di tutto questo.
Puo' nascere da una immagine trattenuta nella mente, o da un fenomeno che
puo' tradursi immediatamente tanto in una immagine che in un'espressione
destinata a descrivere un'esperienza totalmente diversa, cosi' come puo'
nascere da un concetto puramente intellettuale che mi commuove. Puo'
funzionare indifferentemente attraverso una via emotiva o politica, e
talvolta attraverso uno stato d'animo in cui mi trovo, specialmente nelle
ore piccole della notte. Ricordo, tempo fa, lo speciale stato d'animo che
mi fu procurato stando seduto a un bar, osservando la gente che si muoveva
tra il fumo, i loro gesti e le loro membra: sembrava stessero dentro a una
caverna. E' un processo dagli svariati aspetti; non riesco a definirlo o
catalogarlo con precisione, ne' riesco a definire la sua gestazione, che
puo' essere breve o lunghissima.

- M. F.: Durante la sua carriera, ha mai tenuto particolarmente presente
qualche modello, o ha tratto idee da qualche scrittore in particolare?

- W. S.: No, non riconosco alcun tipo di influenza letteraria. Lascio
questa attivita' all'analisi e alla critica letteraria. Considero la
creativita' come una giuntura sempre attiva attraverso variazioni ben
congegnate, consciamente o inconsciamente, su sentieri inventivi sempre
nuovi. Si potra' dire, per esempio, che l'Opera da tre soldi di Bertolt
Brecht si e' plasmata sull'Opera del mendicante di John Gay, e che ne
esistono versioni ambientate in Nigeria e nella repubblica dell'Africa
centrale: queste sono influenze dirette e scoperte. Ma per cio' che mi
riguarda sento di non avere alcun controllo sulle influenze inconscie e
nascoste del mio operare.

- M. F.: La figura di Ogun, dio della guerra e della creativita', dei
metalli, della strada ma anche riparatore di diritti, esploratore (colui
che va per primo), e' sempre stata una presenza costante nella sua opera
sin dal poemetto, Ogun Abibiman, che lei scrisse nel 1976 per lanciare un
invito alla lotta contro le diseguaglianze razziali del Sudafrica. Potrebbe
descrivere qual e' la particolare attrazione che questa divinita' le ispira?

- W. S.: Ogun rappresenta il volto ricorrente della condizione umana, la
componente creativa dell'uomo ma anche la sua distruttivita'. La
particolarita'" di Ogun, una delle tante divinita' yoruba, risiede nella
prerogativa del rimorso e della restituzione nei confronti degli umani. E'
un dio lirico, eppure, oltre a essere dio dei metalli, e' anche il
protettore delle aziende agricole e il demiurgo che sovrintende allo
sviluppo tecnologico. Per questo lo vedo particolarmente pertinente allo
sviluppo scientifico contemporaneo; si pensi ai piloti, agli astronauti, ai
motociclisti... E' anche un dio guerriero, dunque contiene in se' quella
mistura di elementi diversificati che mi attrae particolarmente e mi spinge
a investigare ancora il personaggio.

- M. F.: Ho visitato il Sudafrica qualche mese fa e sono stato informato
della rapida scomparsa di editori di poesia, un genere in declino anche in
altre parti del mondo, compresa l'Europa. Di recente, per esempio, la
Oxford University Press ha chiuso la sua collana di poesia contemporanea,
mentre molti dei poeti appartenenti alle aree periferiche del Regno Unito
(la Scozia, il Galles e l'Irlanda) si trovano oggi costretti a cercare
canali londinesi o newyorchesi per poter far uscire i loro libri. Pensa sia
un fenomeno fisiologico o esiste una qualche sorta di strategia economica
che rema contro i principi sui quali, in passato, si e' basata la poesia?

- W. S.: Penso che il motivo sia principalmente economico. Sto pensando
alla enorme diffusione dei prodotti tipicamente consumistici come i
computer, con i loro giochi elettronici, e a tutte le altre gratificazioni
a buon mercato, come la televisione e la video-music: emittenti di immagini
del tutto simili a un caleidoscopio. Puo' darsi che tutto questo non
influenzi la poesia, che oggi va anche sui compact disk, o in metropolitana
o su grandi camion dell'immondizia che la rendono visibile sulle strade; ma
sappiamo che la poesia richiede concentrazione. Forse riesco a leggere un
romanzo mentre qualcos'altro accade attorno a me, ma trovo difficilissimo
leggere una poesia in presenza di altre distrazioni. Ho bisogno di tempo,
concentrazione e spazio per leggere una poesia. E' forse per la crescente
difficolta' a trovare concentrazione che si sta verificando il declino
degli editori di poesia.

- M. F.: So che lei ha aiutato, negli Stati Uniti, la nascita di un nuovo
centro di studi sulla traduzione. Mi puo' parlare di questo progetto e
delle idee che stanno dietro al suo impegno nei confronti di questa
attivita', a volte definita un'arte minore nel campo della scrittura?

- W. S.: Il mio impegno nasce dal fatto di essere un soggetto coloniale,
uno che ha subito l'imposizione di una lingua straniera come mezzo
d'espressione, ma anche dal fatto di essere cosciente del fatto che il
popolo yoruba e' diviso in aree anglofone, francofone e addirittura
germanofone, in particolare quelle verso la costa del Togo. Molte
nazionalita' africane, di converso, sono confluite all'interno dello stesso
confine nazionale, e lo stesso di conseguenza e' avvenuto per molte lingue.
Sono convinto che tante etnie e tanti ceppi linguistici debbano essere
preservati per assicurare continuita' alle varie identita', portatrici a
loro volta di culture e storie del tutto singolari. La traduzione quindi
assume una particolare funzione, ed e' per questo che ha costituito sempre
una preoccupazione attorno alla quale fare ruotare il mio lavoro. Quando
negli anni Sessanta, con l'appoggio di Senghor, si penso' di promuovere lo
swahili come la lingua di tutta l'Africa nera, la traduzione divenne una
strategia non solo linguistica ma anche culturale e politica. Ovviamente,
per poter diffondere le opere scritte in altre lingue e renderle visibili a
un piu' ampio pubblico africano, la traduzione in lingua swahili risulto'
uno dei programmi sui quali si punto' con piu' insistenza. La traduzione
per me, quindi, va di pari passo con la creativita'. Inoltre di recente,
presso l'universita' del Nevada, l'istituto di lettere moderne ha avviato
un particolare programma per la traduzione letteraria, sia per promuovere
la traduzione in inglese di opere scritte in altre lingue sia per concedere
borse di studio e di ricerca su autori e poetiche. E' curioso osservare che
il tutto avviene a pochi passi dai casino' di Las Vegas, dove l'interesse
per la poesia e la traduzione temo sia molto scarso. Questo programma si
finanzia attraverso uno speciale progetto che prevede entrate provenienti
da collezionisti di opere d'arte e libri d'arte; tutti i proventi sono
indirizzati verso la traduzione e il finanziamento di uno speciale asilo
per scrittori perseguitati in tutto il mondo da governi corrotti e
totalitarismi di spietata violenza.

- M. F.: Lei ha di recente presentato il suo ultimo lavoro teatrale, King
Baabu, in Sudafrica. E' una piece ironicamente denunciataria: quale
reazione ha incontrato a Citta' del Capo?

- W. S.: In realta', King Baabu fu gia' messo in scena in Nigeria nel
luglio dello scorso anno. Per me ha rappresentato una sorta di vendetta
creativa contro il potere, la corruzione e la disumanizzazione. Non ho
voluto direttamente riferire l'opera a un singolo paese africano, quale la
Nigeria, perche' mi e' sembrato importante far uso di un piu' ampio
scenario africano, anche se ovviamente le angherie di questo leader
rimandano a cio' che e' avvenuto nel mio paese. E' stato rappresentato a
Zurigo, visto che il regista e' svizzero, e quest'anno in Sudafrica, dove
mi sono recato di recente, e poi nel Lesotho. Cio' che piu' mi ha colpito
della reazione riscontrata a Citta' del Capo non e' stato solo il
collegamento che hanno fatto tra il mio personaggio autoritario e Mugabe,
il leader dello Zimbabwe, ma l'inaspettata pertinenza che hanno avvertito
per tendenze simili all'interno del Sudafrica. L'insistenza mostrata nel
tracciare quel parallelismo mi ha imbarazzato: infatti, mi e' difficile
pensare al Sudafrica di oggi come a un paese degenerato fino al punto da
trovare analogie con cio' che dico nel mio dramma. Eppure, dopo lo
spettacolo, ho parlato con un dirigente dell'African National Congress che
era andato a vedere lo spettacolo a Pretoria e, nonostante abbia rilevato
come l'opera si rivolga genericamente all'Africa tutta, ha trovato la
performance scioccante, tanto che non ha voluto rilasciare commenti,
limitandosi a chiedere subito e semplicemente un whisky.



7. RILETTURE. EVA CANTARELLA: L'AMBIGUO MALANNO

Eva Cantarella, L'ambiguo malanno, Editori Riuniti, Roma 1981, 1983, pp.
208. Una lucida analisi della condizione e dell'immagine della donna
nell'antichita' greca e romana.



8. RILETTURE. ANGELA DAVIS: AUTOBIOGRAFIA DI UNA RIVOLUZIONARIA

Angela Davis, Autobiografia di una rivoluzionaria, Garzanti, Milano 1975,
pp. 416. Una testimonianza, e una riflessione, di grande rilevanza.



9. RILETTURE. ITALA VIVAN: INTERPRETI RITUALI

Itala Vivan, Interpreti rituali, Dedalo, Bari 1978, pp. 256. Uno studio su
cinque grandi romanzieri africani.



10. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO

Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale
e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale
e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae
alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo
scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova
il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti.

Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono:

1. l'opposizione integrale alla guerra;

2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali,
l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di
nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza
geografica, al sesso e alla religione;

3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e
la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e
responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio
comunitario;

4. la salvaguardia dei valori di cultura e dellâambiente naturale, che sono
patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e
contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dellâuomo.

Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto
dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna,
dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica.

Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio,
l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la
noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione
di organi di governo paralleli.



11. PER SAPERNE DI PIU'

* Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org;
per contatti, la e-mail e': azionenonviolenta at sis.it

* Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della
Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in
Italia: http://www.peacelink.it/users/mir; per contatti: lucben at libero.it;
angelaebeppe at libero.it; mir at peacelink.it, sudest at iol.it

* Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista
Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati
per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it. Per
contatti: info at peacelink.it



LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO



Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di
Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100
Viterbo, tel. e fax: 0761353532, e-mail: nbawac at tin.it



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con richiesta di rimozione a: nbawac at tin.it



Numero 376 del 6 ottobre 2002