Vita: "Una bella pagina del pacifismo italiano"



In Palestina un pezzo di società civile italiana

di Giuseppe Frangi (g.frangi at vita.it)

04/04/2002 Vita

Anticipazione. L'editoriale di Vita magazine in edicola da domani dedicato a una bella pagina del pacifismo italiano

Chiamiamoli pure per nome, in ordine sparso: Lisa Clark dei Beati costruttori di Pace, Gianfranco Bettin e Beppe Caccia, consiglieri regionali dei Verdi, Alberto Zoratti delle Botteghe equo solidali, Roberto Giudici e Raffaella Bolini dell'Arci, Paolo Cento, detto familiarmanete “er Piotta”, deputato verde, Luisa Morgantini, animatrice dell'associazione delle “Donne in nero”, Gianpiero Rasimelli portavoce del Forum del Terzo settore. E poi anche Luca Casarini e Francesco Caruso, leader dei centri sociali fino ad ieri vezzeggiati dai media e oggi lasciati soli nella loro pazza impresa. Sono solo alcuni, tra i tanti italiani che hanno scelto di testimoniare le vie della pace nel momento più duro e aspro del dramma palestinese, che hanno scelto di non stare a guardare. Hanno passato la Pasqua là, rischiando di persona, interponendo le proprie persone alla prepotenza della guerra. C'è un che di surreale in quanto è accaduto. La terra più fragile del mondo, quella dagli equilibri più esplosivi e delicati, abbandonata dai potenti e affidata alle mani “impotenti” dei pacifici e degli ultimi cristiani rimasti là dove nacque e visse Gesù. Un paradosso riassunto bene da Mauro Bulgarelli: “E' surreale che illustri sconosciuti come noi abbiano fatto questo e che nessuno dei capi di stato si muova per venire qui”. Gli fa eco Raffaella Bolini, interpellata da Vita: “Siamo scudi umani ma non di una parte o dell'altra”, dice, “se proprio volete definirci così, siamo scudi degli ultimi brandelli di legalità internazionale, di cui qui si stanno celebrando i tragici funerali”. E alla domanda cosa pensiate che serva essere lì, la risposta è semplice: “Forse la nostra presenza impedisce qualcosa di peggio, qualcosa che non riusciamo ad immaginare”. Surreale. Non ci sono altre parole. Il dramma della Palestina seppellisce insieme a tante vittime, insieme alla pur complicata speranza di convivenza tra due popoli, insieme al sogno dei palestinesi di avere un loro stato, seppellisce anche la legalità internazionale. L'Onu, sparita dietro la sceneggiata di risoluzioni che a Sharon non fanno neppure il solletico; Bush, spettatore sempre più prepotente e interessato; l'Europa, spettatrice rinunciataria e impotente. E' paradossale che tutto questo succeda esattamente dieci anni dopo l'inizio della guerra in Bosnia. Allora come oggi, nel disastro, l'unica voce ragionevole e l'unico filo di speranza per tutti pare affidato alle fragili presenze dei volontari e degli amanti della pace. La presenza di persone che hanno sentito come proprio, il destino che si stava consumando in Palestina. Non erano là come parte politica, erano là come spezzoni di società viva per difendere il diritto di altri ad essere società. Il pacifismo italiano ha scritto una pagina importante in questi giorni, rifuggendo ideologie ed utopie, giocandosi, fisicamente, in prima persona. Certo, resta la domanda più angosciosa: cosa resta da fare, domani. Cosa, nella fragilità dei mezzi e delle voci, sia possibile mettere in campo per fermare una macchina da guerra che semina distruzione non solo nel presente ma anche su ogni possibile scenario futuro. Qui ci soccorre la caparbietà, disarmata, con cui il manipolo degli ultimi cristiani di Terra santa continua a difendere il diritto ad esister per tutti. Ci ha commossi l'immagine dei leader di tutte le confessioni cristiane, con tanti secoli di storia sulle spalle, mettersi in corteo per urlare all'unisono il loro no davanti all'abitazione di Sharon. Ma nessuno lascia il colpo, negli ospedali, negli asili, nei conventi, tra la gente. Il nostro modo di non lasciare il colpo è di essere tutti presenti il prossimo 12 maggio all'edizione straordinaria della Perugia Assisi. Flavio Lotti, il portavoce della Tavola della Pace, in questo numero di Vita spiega perché non ha avuto timori di rischiare un'iniziativa del genere, gettando sul piatto il credito di immagine riscosso con la marcia dei 300mila dello scorso giugno. “Urgono atti di responsabilità e di coraggio. A ciascuno di noi spetta il compito di sollecitarli”.