LETTERA gennaio



Quando dalle mammelle non le fosse più fluito il latte per la sua bambina -Adama - o comunque Adama, con il passare dei mesi, avesse richiesto inequivocabilmente un cibo più sostanzioso, allora il destino di Safiya Husseini si sarebbe compiuto. La polizia l’avrebbe collocata in una buca e ve l’avrebbe seppellita fino al suo ormai inutile seno. La gente del villaggio avrebbe raccolto pietre, non più grandi di un pugno, e con una grandinata di quelle pietre l’avrebbe uccisa. Delitto di Safiya, l’avere procreato fuori dal matrimonio: e a esigere quel supplizio non era il Corano, misericordioso, ma la sharia, una legge che pretende di derivare dalle parole di Maometto e che conosce varie interpretazioni: crudelissima nel Sokoto, lo stato nigeriano in cui vive Safiya. Non avevo letto questa notizia sui grandi giornali italiani e, del resto, soltanto uno di essi, come ho poi constatato, l’aveva pubblicata, con un titolo a una colonna: gli orrori (ma anche le meraviglie) del mondo "altro" trovano ben poco spazio, com’è noto, sulla nostra stampa. A segnalarmi la notizia è stato un giornalista arabo, Farid Adly , che vive in Italia e dirige ANBAMED, un’agenzia di informazioni sul Mediterraneo. Subito ho pensato che dovevo fare qualcosa. Forse sono stati i miei viaggi nel Sud della Terra a "sbalestrarmi", come si dice volgarmente, cioè a confondere la mia bussola ideale, il fatto è che mi càpita (ma so che è condizione di molti miei amici e amiche) di sentirmi, in certe occasioni, in casa mia e contemporaneamente sulle falde di qualche Calvario: fra i lontani, che si pretendono innocenti a causa della loro dislocazione, e contemporaneamente, se fingessi di non sapere, fra i carnefici. E’ accaduto anche questa volta. Ho provato a fare qualcosa perché non riuscivo a rimanere inerte davanti a quella fossa in cui si sarebbe compiuto, oltre a tutto, mandato assolto il padre della bambina, un altro ignobile capolavoro del maschilismo. Così mi sono aggrappato all’e-mail come a un tam tam capace di raggiungere altre persone che non riuscissero a rimanere zitte e immobili davanti al destino di Safiya. Ho spedito circa 300 messaggi ad altrettanti amici: voi. Nel giro di pochi giorni sono stato travolto da una gigantesca ondata di solidarietà: più di 3500 richieste di informazioni o relazioni sul lavoro svolto: una girandola vorticosa di iniziative prese da persone e da associazioni, da parrocchie e da scuole, da consigli comunali e da sindacati, da maestranze e persino da caserme, da italiani all’estero e dai loro amici stranieri. Una grandinata di "Salvate Safiya, vogliamo che Safiya viva" sull’ambasciata nigeriana in Roma, sul nostro ministero degli esteri, su altri indirizzi che parevano validi... Quando ho saputo che persone e associazioni ben più importanti di me (e di Farid Adly, che pure aveva lanciato una sua campagna) erano scese in campo, ho cercato di sottrarmi a quel vero e proprio movimento che mi gravava addosso in maniera assai pesante. Non ci sono riuscito, perché evidentemente la gente prova il bisogno di un dialogo interpersonale. La grande maggioranza di chi mi ha scritto non aveva la minima idea di chi io fossi, ciò che le interessava era uno strumento per evadere dalla prigione dell’impotenza e una parola da scambiare per vincere l’angoscia. La gente ormai (molta, molta gente) benché circuita e assediata dall’ideologia del consumismo, dal volto soave e rassicurante del neoliberismo, comincia a sentire odore di morte (lo smog, ma non solo!) e vorrebbe fare qualcosa per costruire realtà migliori. Se i politici democratici fossero meno ipnotizzati dai loro giochi di potere, molte cose potrebbero cambiare.
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Nella tragica aridità della miseria di Safiya, la "nostra" campagna è stata una goccia d’acqua. ma ha avuto una qualche efficacia: del tutto artigianale, e però sostenuta da alcune care colleghe della RAI ("Chi l’ha visto?", "Primo piano" , "Harem"), dalla Radio Vaticana, da quella della Svizzera italiana e da Radio Kolbe, da qualche quotidiano "locale", da Pax Christi, dal Centro missionario della diocesi di Firenze, etc. ha fatto giungere all’ambasciata nigeriana a Roma (è sicuramente un calcolo per difetto) 250 mila richieste di salvezza per Safiya. Oggi, mi consento un po’ d’ottimismo: il processo a Safiya è stato rinviato al 18 marzo prossimo per nuovi accertamenti, alcuni gruppi islamici di difesa della donna le hanno procurato un avvocato di vaglia, il governo federale (che all’inizio aveva dichiarato di non poter intervenire) adesso assicura che impedirà comunque l’esecuzione della "rea"; premi Nobel e capi di stato e di parlamenti hanno inviato appelli umanitari. Posso permettermi di riflettere su questa esperienza.
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Che grande festa della solidarietà intorno a questa donna di un minuscolo villaggio dell’Africa Nera. Lei era disposta a morire, non fuggiva dalla sua capanna, si affidava a Dio. Quando, una decina di giorni fa, il suo nuovo avvocato le ha spiegato che tante e tanti, in regioni lontanissime dal Sokoto, si occupavano di lei, è rimasta sorpresa e forse non ha neppure capito bene. Aveva in braccio la sua Adama, bellissima bambina. Forse Adama, un giorno, capirà: Siamo, io credo, sorpresi anche noi. Chi più chi meno, nel silenzio dei grandi mass-media, delle grandi agenzie dell’ONU, ci domandavamo se c’era davvero una speranza di salvare Safiya con le nostre iniziative "di base", spontanee. La risposta (forse!) è che quando speranze pulite, buone, coraggiose si mettono insieme, colgono frutti nei deserti legali. La prima cosa che i Potenti della Terra cercano per meglio governarci è l’eliminazione di questo tipo di speranze, la loro sostituzione con le leggi dell’apparente buonsenso, che nega validità alle iniziative delle minoranze e spinge a rivolgersi ai Grandi Poteri. Come dice un’orrendo spot televisivo, tornato non a caso di moda dopo quindici anni con l’avvento del nuovo regime, "Gigante, pensaci tu"! La speranza collettiva, lo si voglia o no, è politica. Lo si voglia o no, è politicamente eversiva poiché non accetta neppure le leggi quando esse neghino, esplicitamente o implicitamente, la dignità delle persone:
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Nelle lunghe lunghe ore passate al computer per più di due mesi, mi sono continuamente domandato se avesse senso tanto coinvolgimento. Forse avremmo salvato la vita di Safiya ma non avremmo mutato la sorte di centinaia di milioni di donne calpestate e uccise dalle leggi dei maschi e dalla miseria. Mentre portavo avanti questo lavoro si andava ammantando di nuovi orrori la tragedia palestinese che da anni seguo con amore. Gli Stati Uniti di Bush ripiombavano nell’oscura violenza delle "gabbie di tigre", trasportando a Cuba gli orrori del Vietnam del Sud, anni ’70. Nell’agonìa di un paese che mi è carissimo, l’Argentina, si rendeva evidente il fallimento delle ricette neoliberiste. In Italia l’oscenità politica del capitalismo arraffone berlusconiano veniva, giorno dopo giorno, favoreggiata da una classe politica che perpetua le proprie tendenze alla sconfitta: Non era più urgente che, come cittadino responsabile, di un paese e del pianeta, mi occupassi di cose come queste, in cui si sta giocando il futuro dei nostri figli e nipoti? E però era impossibile, a un vecchio quale sono, fare l’una e l’altra cosa; ed io non riuscivo ad allontanarmi dalla fossa preparata ai margini del villaggio di Safiya. Come dimenticarla, dopo averne saputo l’esistenza?
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Forse abbiamo salvato Safiya ma certamente non abbiamo sconfitto la sharia: L’altro giorno mi è giunta la notizia che Abok Alfa Akok, una ragazza sudanese cristiana di 18 anni, della tribù Dinka, è stata condannata per adulterio alla lapidazione da un tribunale di Nyala, Darfur del Sud. (L’indirizzo dell’ambasciata sudanese in Italia è: via Spallanzani 24, 00161 Roma. Il fax del presidente del Sudan sudanese - S.E. Omar Hassan Al-Bashir - è: 00249. 11.771,7.24)
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Credo che in realtà non vi sia risposta possibile al dilemma se privilegiare l’impegno per un individuo o per una situazione più vasta, la cronaca o la storia. L’importante è che ciascuno di noi ponga, ogni giorno, segni significanti dell’amore che sente dentro; e anche comprenda che vi sono poi nodi della realtà in cui impegni per gli individui e impegni per la Terra si incrociano e si saldano. Safiya e Abok diventano allora concretissime creature in pericolo di vita ma anche simboli delle strutture di morte che dobbiamo combattere nella macropolitica. Io amo credere (e in parte so per certo) che nelle tante discussioni di gruppo sorte intorno al caso di Safiya (per esempio in non poche scuole occupate o autogestite, a Taranto, a Ischia, a Roma...) sia apparso chiaro che accanto alle lapidazioni "rituali" vi sono anche le lapidazioni di massa di innocenti ad opera di bombardieri i cui piloti considerano semplici astrazioni le loro vittime o ad opera dei bulldozers di Sharon il Genocida..
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Mi pare importante aggiungere che quando usciamo dalla nostra solitudine più o meno ricercata, dal tepido alveo della nostra pigrizia, impariamo e incontriamo, (che sono verbi da giovane). Nella vicenda di Safiya ho visto svilupparsi in tanti ragazzi e adulti e anziani capacità creative che non avrei mai supposte. Ho imparato tecniche che userò certamente in altre evenienze: e mi sono trovato in crocevia reali o virtuali in cui mi è stato facile allacciare nuove conoscenze che mi sembrano preziose e che spero si svilupperanno in amicizie. Quando ci alziamo e usciamo di casa per tentare un gesto di solidarietà anche piccolo, saldando la nostra mano a quella di altri, nei volti di questi compagni di speranze, sconosciuti sino a quel momento, leggiamo nuovi nomi della Storia - e, per chi crede, nuovi nomi di Dio. Grazie dunque, con tutto il cuore, per la vostra vicinanza; Scusate se, a causa del lavoro per Safiya e dei pessimi strascichi di una brutta influenza sono in debito di risposte a tanti di voi.. Spero di mandarvi presto un ricordo di padre Davide Turoldo di cui ricorre il 6 febbraio il decimo anniversario della morte,
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I libri: E’ di Davide il primo libro che vi consiglio questo mese. Lo ha pubblicato Mondadori (pagg. 228, 15,00 euro) si intitola "la mia vita per gli amici" e ha un sottotitolo bonhoefferiano: "Vocazione e resistenza". E il racconto, pacato e solenne, delle ragioni di vita di questo monaco che usò la poesia come liturgia e come impegno planetario. Davide è morto dieci anni fa ed è un’assenza che si fa sentire in molti campi: La Rete Radiè Resch mi ha chiesto di commemorare lui e padre Balducci il giorno 14 aprile p.v., a Rimini, in occasione del suo Convegno nazionale. Di un altro profeta del nostro tempo ha indagato vicende e messaggi Maurizio Di Giacomo. Il suo "DON MILANI. Tra solitudine e vangelo" (Borla ed:, pagg 402, euro 20,66).è il frutto di un’inchiesta giornalistica che non ha dato niente per scontato e che ha scandagliato anche episodi scomodi per chi preferisce i miti alla storia. Sovversivo e fedelissimo, segno di contraddizione, don Milani rimane una voce che continua a stanare pigrizie e moderatismi.
Un saluto affettuoso dal
vostro Ettore Masina