Enduring Freedom-int. di E. Deiana



Resoconto stenografico dell'Assemblea
Seduta n. 87 del 28/1/2002
PRESIDENTE. E' iscritto a parlare l'onorevole Deiana. Ne ha facoltà.
ELETTRA DEIANA. Signor Presidente, voglio partire da una domanda
provocatoria posta da una nota giornalista del New York Times ai
responsabili della campagna Enduring Freedom. La giornalista è Maureen Dowd,
editorialista piuttosto nota nel suo paese. Lei ha chiesto: «La guerra è
finita, oppure no? Se sì, l'abbiamo vinta, oppure no?». Si tratta di una
domanda che pone sotto accusa non soltanto, e forse non eminentemente, le
scelte dell'amministrazione statunitense ma, in maniera radicale, il
contesto che quelle scelte hanno reso possibile e legittimato, un contesto
di assoluta sospensione delle regole e delle certezze del diritto.
Non stiamo discutendo di Enduring Freedom, ma soltanto della tecnica con cui
rendere possibile e legittima la guerra. Credo che, anziché discutere del
proseguimento della missione, bisognerebbe discutere della guerra, di cosa
ha suscitato e di cosa ci propone per la prossima fase. Enduring Freedom
incombe sul mondo come una maledizione biblica ormai, un pericolo
ancestrale, un incubo planetario.
I suoi effetti micidiali non riguardano soltanto quanto è avvenuto in
Afghanistan, un paese martirizzato, martoriato più volte, bombardato oltre
ogni limite della decenza militare - e perfino oltre ogni possibilità di
accoglimento, sul suo suolo, di ordigni militari -, sempre più dipendente (e
chissà per quanto tempo) da una carità occidentale che si rivela, come
sempre, pelosa e striminzita, fino all'avarizia. Quegli effetti non
riguardano soltanto i prossimi obiettivi su cui, nel silenzio più assoluto,
si va appuntando l'operazione Enduring Freedom: non se ne sa nulla;
probabilmente, a norma del nuovo codice penale militare di guerra, far
circolare notizie sugli intendimenti dell'amministrazione americana
costituirebbe un crimine di guerra per chiunque, anche per i civili). Quei
territori, quegli Stati, quei paesi del mondo contro cui si appuntano le
prossime mosse di Enduring Freedom sono gli stessi che gli Stati Uniti hanno
definito di natura «canagliesca» e, per ciò stesso, sulla base di tale
definizione, passibili di essere, in ogni momento, obiettivi dei
bombardamenti occidentali.
Ma quegli effetti riguardano tutti noi, perché sono effetti di
addormentamento della coscienza civile, di assuefazione e di banalizzazione
del male, di ottundimento dell'intelligenza. Non riesco a capire come si
possa, in quest'aula, continuare a far finta di niente nonostante ciò che
sta avvenendo, i risultati della guerra in Afghanistan e le prospettive che
si delineano (che sono drammatiche). Come non vedere, per esempio, nella
tragedia che si sta consumando all'interno del conflitto tra Israele e
Palestina, un effetto diretto e coerente con l'impostazione non di lotta al
terrorismo, ma di dominio del mondo, che sta dietro l'operazione Enduring
Freedom? Essa, infatti, ha rivelato subito la sua natura e le intenzioni che
la guidano: vendetta e ritorsione, violazione di ogni regola del diritto
internazionale e tragici effetti collaterali, cioè la morte di migliaia di
innocenti civili afgani.
Tutto questo, ovviamente, non ha nulla a che vedere con l'attivazione di ciò
che sarebbe stato necessario: una forte e responsabile politica
internazionale di individuazione, traduzione in giudizio, isolamento dei
responsabili dell'11 settembre e dei gruppi terroristici da cui essi
provengono, da cui sono sostenuti e che, con ogni probabilità, trarranno
nuova linfa da questa vicenda bellica. Enduring Freedom risponde a tutta
un'altra strategia: ha altri obiettivi, altre intenzioni e altri programmi.
La Palestina è lì a dimostrarlo: i suoi destini, infatti, sono iscritti
nella dinamica di sconquasso e riassetto geopolitico - sconquasso
dell'assetto esistente e riassetto geopolitico dell'area mediorientale ed
asiatica - che gli strateghi di «Libertà duratura» hanno voluto mettere in
movimento. Il significato di questa operazione, la strategia, i tentativi di
ridefinizione degli assetti geopolitici sarebbero argomenti di discussione
di prima grandezza da sviluppare in questa sede. Intanto, in Palestina,
siamo al secondo atto dalla guerra globale, mentre si studiano i piani
attraverso cui la punizione di Bush deve svilupparsi verso qualche altro
paese tra quelli sotto tiro: la Somalia, pare certo, più avanti l'Iraq e,
forse, ad un certo punto, altri paesi.
Tra l'altro, dato che è presente il sottosegretario Cicu, vorrei chiedergli
dove siano, in questo momento, le forze italiane arruolate nell'operazione
Enduring Freedom, quale sia la loro destinazione, quali compiti stiano
svolgendo, a chi debbano obbedire...
SERGIO COLA, Relatore per la II Commissione. A Bin Laden!
ELETTRA DEIANA. ...a chi debbano obbedire - onorevole Cola, non mi faccia
dire una battuta feroce - qualora scattasse un'altra operazione militare
diretta.
Torno sulla questione palestinese perché rivela il dramma di questo
Parlamento e delle forze politiche che, più volte, hanno sottolineato la
necessità di un impegno italiano a sostegno delle regioni del popolo
palestinese e della ricerca di una soluzione di giustizia, oltre che di
pace.
Vorrei ricordare che tutte le forze di maggioranza e d'opposizione si sono
impegnate in una specie di controbilanciamento parlamentare rispetto
all'impegno di guerra. Il Premier Berlusconi si è impegnato molto a
sostenere un nuovo piano Marshall per il rilancio della Palestina. Impegni,
promesse. Nel frattempo si consuma una tragedia senza fine, rispetto alla
quale non trovo le parole per definire le «non parole» che giungono dalle
forze di Governo e da questo ramo del Parlamento. Non si tratta soltanto di
abbandonare, da parte degli Usa, Arafat, di lasciarlo tragicamente senza
sponde né aiuti internazionali capaci di resistere alla lucida
determinazione di Sharon di innalzare il livello dello scontro e di
trasformare un problema storico di giustizia per il popolo palestinese
nell'ennesimo episodio di terrorismo, da combattere con i modi con cui in
Afghanistan è stato combattuto il terrorismo di Al Qaeda. Gli Stati Uniti,
coadiuvati puntualmente dall'alleato britannico, stanno costruendo la
seconda fase della guerra globale permanente. Chiuso - o quasi - il capitolo
afgano, Bush e Blair hanno concentrato tutte le loro attenzioni sulla
Palestina e sul suo leader storico. Il premier inglese, con ineffabile
humour tutto britannico, è arrivato a dichiarare di aver perso la pazienza
con Arafat. Il Premier Blair ha perso la pazienza!
Il disegno angloamericano, purtroppo, è abbastanza chiaro: attaccando Arafat
e la dirigenza dell'Olp, Washington spinge i palestinesi tra le braccia del
radicalismo islamico, così come la guerra in Afghanistan non fa altro che
moltiplicare le spinte terroristiche. Lo fa con la consapevolezza di
aggravare la tensione, di rompere tutti i ponti diplomatici eretti in
decenni di pazienti trattative che i palestinesi hanno portato avanti. Lo fa
con almeno tre obiettivi: esacerbare la situazione mediorientale, perché ciò
è funzionale a quell'operazione di destabilizzazione degli assetti
geopolitici nell'area mediorientale di cui parlavo in precedenza; costretti
a frenare la minaccia dell'islamismo radicale, gli Stati Uniti saranno in
tal modo liberi di continuare a gestire il proprio primato politico militare
su scala mondiale, assurgendo a veri difensori della libertà contro un nuovo
impero del male, ben raffigurato simbolicamente dalla figura di Bin Laden.
La guerra in Afghanistan è servita a rafforzare questa prospettiva. Gli
Stati Uniti diventerebbero, in questo modo - come negli anni della «guerra
fredda» - l'unica potenza in grado di condurre e dirigere questa nuova
guerra planetaria.
Le scelte del Governo e di questo Parlamento sono state d'accodamento totale
all'amministrazione Bush e stanno all'interno di questo disastro con
conseguenze sempre più negative, come si evince dal disegno di legge
approvato dal Senato. Tale provvedimento, con operazione che ritengo
assolutamente impossibile, ha fuso, in tempi rapidissimi, con un
avventurismo istituzionale indescrivibile, due disegni di legge: il
decreto-legge concernente l'operazione Enduring Freeedom e quello contenente
le modifiche al codice penale militare di guerra.
Poco fa, con candore ineffabile ed inanellando parole in libertà, il collega
Rizzi ha parlato di svolta epocale, di rottura storica, di capovolgimento
planetario. Al di là della retorica patriottarda ad esse sottesa, che
consiglierebbe ad un esponente della Lega di sottoporsi a terapia
psicoanalitica, quelle parole significativamente chiariscono la portata di
questo provvedimento.
Un codice di guerra del 1941 - adottato, quindi, in epoca fascista, nel
corso di una guerra fascista, prima della Costituzione e mai messo a
confronto con quest'ultima - viene riesumato in un modo che costituisce, di
per sé, materia di riflessione. Non si tratta, evidentemente, soltanto di
dover colmare un vuoto: si vuole disegnare, oggi, un ben determinato
contesto politico, culturale e simbolico in rapporto alla questione della
guerra e della pace.
A questo proposito, ho presentato una questione pregiudiziale, che verrà
discussa domani, relativa al carattere anticostituzionale di questo disegno
di legge, che incorpora modifiche al codice penale militare di guerra, ma ne
lascia immutato l'impianto complessivo, in una maniera simbolico-politica
che tende alla costruzione di un contesto di senso della guerra, prima
ancora che di un dispositivo giuridico (gli interventi dei colleghi del
centrodestra lo confermano ampiamente).
Voglio ricordare le preoccupazioni manifestate, al riguardo, da un
magistrato al di là di ogni sospetto (si intende, dal punto di vista delle
idee e della formazione politica): il procuratore generale militare della
Repubblica, dottor Vinicio Bonagura. In occasione dell'inaugurazione
dell'anno giudiziario, nella sua relazione, egli ha pronunciato parole di
preoccupazione per l'approccio minimalista - così si è espresso - al tema
delle garanzie costituzionali in materia di giustizia, nonché per la
frettolosità con cui è stato affrontato il problema.
Se, infatti, il contesto effettivamente richiedesse di far fronte ad una
necessità epocale, com'è stato sottolineato, proprio la grandiosità di tale
impegno avrebbe richiesto una discussione ampia, un diverso metodo, una
circolazione delle idee, un confronto a tutto campo ben più densi ed
articolati di quelli che hanno preceduto il «pasticciaccio» che stiamo
esaminando; il significato - ripeto, eminentemente politico - del
provvedimento è stato testé chiarito, in forma immediata e senza soverchie
mediazioni politiche, dal collega Rizzi: sostanzialmente, si vuole bensì
dare seguito, attivare un processo inedito, promuovere una svolta epocale,
ma in che cosa? Nella rottura qualitativa, irriducibile, che questa
maggioranza vuole operare rispetto al dettato costituzionale: la guerra non
è più un incidente di percorso oppure un'operazione che può essere
imbellettata ideologicamente con addolcimenti linguistici e slittamenti
semantici, quali peacekeeping, peaceforcing, missione di pace, e via
dicendo; la guerra è guerra!
La nostra pregiudiziale ha, anzitutto, un valore politico-simbolico (al di
là degli appunti di natura giuridica), derivante da un punto di vista che
privilegia il ristabilimento della legalità costituzionale ed il ripristino
del valore fondativo di cui all'articolo 11 della Costituzione.
La frettolosità, la retorica con cui si parla di questo disegno di legge, di
questa incorporazione delle modifiche del codice, con cui si preannuncia
l'impegno del Governo ad una riedizione totale del codice penale militare di
guerra, significa esattamente che c'è l'intenzione di chi le propone e di
chi le accoglie purtroppo - ho ascoltato l'intervento dell'onorevole
Minniti, che spesso va oltre le intenzioni del centrodestra in materia di
guerra - di affermare che siamo in un'altra epoca, che siamo oltre la
Costituzione, che la Costituzione ormai è carta straccia e che c'è bisogno
di altro. C'è bisogno di assumere la guerra come elemento per dirimere le
questioni internazionali - come sta avvenendo - o forse per preparare
l'inganno semantico, perché in Italia ci sono molte culture pacifiste -
cattolici, persone di sinistra, eredi del movimento operaio (non so come
potremmo essere definiti a norma dell'articolo 187 del codice penale
militare di guerra) - e quindi c'è una certa resistenza a questa cultura di
guerra. C'è bisogno di preparare l'inganno, quindi, con una riedizione del
codice di guerra che chiama guerra in un altro modo. Ecco, io finisco qua;
la discussione si svilupperà domani anche più specificamente sugli articoli;
intanto preannuncio, ovviamente, per tutte le cose che ho detto, il voto
contrario del gruppo di Rifondazione comunista.



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