due leoni e tante bestie



Due leoni e tante bestie
di lanfranco caminiti

In quello che molto eufimisticamente è stato definito lo "zoo di Kabul"
[uno squallidissimo luogo che più d'altri ben pretenziosi può darci la
sensazione reale di cosa è comunque uno zoo, una tristezza che ti
attanaglia e dove i bambini non dovrebbero per principio essere mai
accompagnati] è morto Marjan. Marjan era un leone spelacchiato, anziano,
ferito e malato, ormai simile a un grande pupazzo di panno lenci -
stropicciato da troppi giochi violenti di bambini o da troppi traslochi
- più che a un re della foresta. Marjan era ormai di età indefinita,
alcune notizie gli assegnano 38 anni, altre 30, qualcuna 47 e qualcuna
ancora 50. C'è anche chi si rifà sbrigativamente agli "inizi degli anni
settanta", per collocarlo lì, in arrivo dalla Germania [un regalo: ma
che cazzo di regali fanno i tedeschi?], e questo invece di aiutarci a
dargli un'età precisa rende tutto ancora più nebuloso, come nebuloso
diventa il ragionar comune quando si parla di quegli anni.
Marjan, leone spelacchiato, anziano, ferito e malato, aveva ancora una
sua fierezza, benché mi si è stretto il cuore a vederlo in un filmato
recente strofinarsi ai muri della gabbia - micio micione -,
stiracchiarsi magro da potergli contar le ossa, cieco d'un occhio,
lasciarsi avvicinare e accarezzare da un guardiano. Qualche anno fa
aveva fatto fuori un coglione che voleva misurarsi con lui, tanto per
mettere le cose al loro posto.
Nessuno può più dire con esattezza l'età di Marjan, perché Marjan li ha
sepolti tutti quelli che l'hanno visto arrivare in regalo dalla Germania
[ma che cazzo di regali fanno i tedeschi?], monarchi, in trono o in
esilio, loya jirga, sovietici e governi fantoccio, talebani. Li ha
sepolti o li ha visti scappar via, cambiar casacca. Lui no, benché le
sbarre di quella gabbia fossero ormai solo una virtualità, lui non è mai
andato via, non ha mai cambiato casacca: e dove mai sarebbe potuto
andare Marjan, da cosa mai si sarebbe potuto travestire?
L'impossibilità d'esser altro - che alcuni uomini dichiarano in momenti
cruciali, come a proclamare una decisione d'onore, uno scatto
d'orgoglio, una dimostrazione d'animus e d'anima - nel caso di Marjan
era naturale. E poi perché mai avrebbe dovuto volere esser altro? Lui
era un leone, anzi "il" leone dello zoo di Kabul.
L'ultimo periodo della sua vita Marjan l'ha passato male, a fare i conti
con le stronzate dei talebani [e le donne non possono andare allo zoo, e
non ci sta scritto che il profeta permette gli zoo, e quello e
quell'altro], che spesso infierivano contro di lui, e con una dieta
ristretta. Per quello che si capisce gli è stato devotamente vicino il
direttore dello zoo, un uomo legato al suo modesto lavoro mentre il
mondo tutt'intorno gli impazziva; un uomo che non permetterebbe a
nessuno di definire con delle virgolette il proprio lavoro, e che anzi
con la sua sola storia riscatta quelle dello zoo di Kabul. Pare che il
pasto di Marjan degli ultimi tempi si dovesse sostanzialmente alla linea
di credito d'un macellaio e alla sua buona volontà, ma certo non è
difficile immaginare che - sotto i bombardamenti americani - Marjan
abbia dovuto dividere la sua carne con più persone [il direttore stesso
ha sette figli].
La letteratura - anche la cronaca storica - ha più volte fatto ricorso a
questa scena apocalittica: una città in preda alla conquista d'un
nemico, i cui abitanti impazziscono di panico, di paura e che riversano
queste emozioni e queste angosce sugli animali del proprio zoo. Quasi
fosse un acme della follia umana: e forse qui c'è quel fondo archetipico
di coscienza che ci viene dietro, per il quale la nostra civilizzazione
si misura sempre dal modo in cui sappiamo interagire con gli animali,
quando sono nostri "prigionieri", quando vengono "addomesticati". Nel
panico, nell'orrore, gabbie divelte, animali feriti, animali che fuggono
seminando terrore, morte, animali uccisi, a volte divorati. Nella
provincia di Rosario, in Argentina, adesso si cucinano i cani, los
perros, per fame: le cacerolas sono vuote. A Marjan è stato risparmiato
questo: e, in un certo senso, la sua fine può essere intesa come la fine
del vecchio Afghanistan. Era sopravvissuto a tutto, non ha retto la pax
americana.
Se avessi potuto, se la mia opinione contasse qualcosa in questo mondo,
avrei concesso - per via della proprietà transitiva - a Marjan lo
statuto di "prigioniero di guerra". E' vero che questo statuto è negato
a degli uomini stipati in gabbie di 2 metri per 2, tenuti legati ai
piedi, alle mani dietro la schiena e con dei bavagli alla bocca e delle
bende sugli occhi. Ma è pur vero che a Guantanamo arrivano dei
visitatori a "vedere le bestie" e pagano persino il biglietto, ma
nessuno scrive che quello è uno "zoo".
La letteratura - anche la cronaca storica - ha più volte fatto ricorso a
questa scena apocalittica: una città in preda alla conquista d'un
nemico, i cui abitanti impazziscono di panico, di paura e che riversano
queste emozioni e queste angosce sui propri simili. Quasi fosse un acme
della follia umana: e forse qui c'è quel fondo archetipico di coscienza
che ci viene dietro, per il quale la nostra civilizzazione si misura
sempre dal modo in cui sappiamo interagire con gli altri uomini, quando
sono nostri "prigionieri", quando vengono "addomesticati".
Sembra una boutade la mia, quella di concedere a Marjan lo statuto di
"prigioniero di guerra" - e, ora che è morto, gli onori militari -, ma
pochi giorni prima che Marjan morisse l'ex ministro dello Sport inglese,
Tony Banks, aveva promosso una campagna ai Comuni per salvare gli
animali rinchiusi nello zoo di Kabul. E' vero, gli inglesi hanno
tradizionalmente un diffuso amore verso gli animali, i loro pet, benché
questo, nella loro storia, non gli abbia mai impedito di essere
estremamente feroci con gli uomini. Però, curiosamente - per la
proprietà transitiva? - gli inglesi sono stati tra i pochi che si sono
mostrati offesi per i modi con cui vengono trattati i prigionieri di
Guantanamo. I quali, anche loro, devono fare i conti con le stronzate di
altri guardiani che hanno preso l'abitudine di pulirsi il culo con i
trattati internazionali [e non ci sta scritto da nessuna parte che
questi possano godere della Convenzione di Ginevra, e i giornalisti non
possono visitarli, e quello e quell'altro].
Anch'io - modestamente - mi sento offeso. In ricordo di Marjan.
Marjan, però, non è il primo leone a morire recentemente in Afghanistan:
l'altro è stato Massud, il "leone del Panshir". Nessuno ricorda che la
guerra di bin Laden contro gli americani è cominciata proprio così, con
due kamikaze travestiti da giornalisti che si sono fatti saltare in aria
uccidendo Massud. L'attentato è del 9 settembre e, verosimilmente, è
stato il frutto di un intrigo tra i Servizi segreti pakistani, i
talebani e l'organizzazione di bin Laden. E' difficile adesso dire se
altri ne fossero a conoscenza [ad esempio, Gulbuddin Hekmatyar e i
falchi dello Hezbi Islammi, il partito presso cui si era "reclutato"
Osama da combattente islamico], ma certo in tanti hanno goduto
dell'eliminazione di Ahmad Shah Massud, l'unica figura politica e
militare afghana che in tutti questi anni avesse assunto
contemporaneamente il livello della leggenda nel proprio paese e di una
statura internazionale. Massud - che era tagiko - organizzò il suo primo
gruppo armato nel 1975. Nel 1979, i suoi mujaheddin combattono contro i
sovietici che hanno invaso l'Afghanistan: il suo soprannome gli deriva
dall'accanita resistenza che riuscì a organizzare nella sua imprendibile
valle. Nel 1992 entra a Kabul e diventa ministro della Difesa nel
governo dei mujaheddin del presidente Buranuddin Rabbani; prima di
entrare nella capitale, nel campo di Jabal Saraj aveva passato in
rassegna le sue truppe raccomandando loro, uno per uno, di "comportarsi
bene": niente prede di guerra, doveva essere una grande festa per tutti
gli afghani che avevano riconquistato la libertà. Si può essere gran
combattenti e uomini gentili e generosi: spesso è qui che passa la linea
tra l'essere un soldato o un criminale paranoico, tra il diventare una
leggenda o un uomo da nulla, un vile benché tronfio vincitore. Massud
s'era illuso: lascia l'incarico nel '93. E' costretto dai talebani, nel
1996, ad abbandonare la capitale ormai distrutta dai combattimenti, e si
rifugia nel Panshir: gli "studenti coranici" conquisteranno
l'Afghanistan ma lì, nel Panshir, non entreranno mai.
Massud era un bell'uomo, un viso virile, aperto e persino delicato,
un'aria vagamente malinconica come di chi si trova nell'impossibilità
d'esser altro, ma lo fa sommessamente, naturalmente: tutt'altra cosa
dalle facce da bestia che poi abbiamo visto essere i signori della
guerra afghana, spesso signori del traffico di oppio, e che hanno saputo
ben servire i loro nuovi padroni nei massacri di Mazar-i-Sharif, a
Kandahar, sulle montagne di Tora Bora. Massud era elegante, di una
eleganza sobria, come di chi si prova a mantenere una dignità tra gli
orrori del combattimento: tutt'altro stile dalle pose di Karzai,
dall'aria untuosa e obbliqua.
Pochi giorni prima di essere ucciso, pochi giorni prima che bin Laden
scatenasse i suoi kamikaze contro l'America e tutti gli arabi che non la
pensano come lui, Massud era andato a Strasburgo con il suo vestito
afghano, di lino bianco, protetto appena da un soprabito beige, e il
berretto di felpa buttato all'indietro. Era andato a chiedere
l'interessamento dell'Europa al suo disgraziato Afghanistan: lui e i
suoi uomini potevano forse ancora resistere ma la situazione per il
paese era diventata ormai intollerabile. Se ne lavarono le mani i
burocrati di Bruxelles, i sognatori dell'Europa unita come grande
soggetto politico, tutti presi dalle loro monetine. Massud, che non fu
neanche ricevuto a un livello di interlocuzione dignitoso e
responsabile, se ne tornò nel Panshir: ma molti dei suoi nemici videro
in quella mossa un'insopportabile presunzione: anche più di quando due
anni prima aveva lanciato l'idea di un governo di larga base che non
escludeva i talebani. Se ne tornò nel Panshir e al suo appuntamento con
due kamikaze travestiti da giornalisti belgi. E nessuno ricorda che la
guerra scatenata da bin Laden contro l'America e gli arabi che non la
pensano come lui è iniziata il 9 settembre. Tolto di mezzo Massud tutto
è diventato più facile per tutti.
Dopo Massud, dopo Marjan, non ci sono più leoni in Afghanistan. Non è
proprio, questo, il tempo dei leoni. Da nessuna parte, forse. Ma gabbie
di zoo ce n'è quante ne vuoi.

Roma, 31 gennaio 2002