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La nonviolenza e' in cammino. 330
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 330
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Wed, 2 Jan 2002 21:49:30 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 330 del 2 gennaio 2002 Sommario di questo numero: 1. Marguerite Yourcenar, si accorse in seguito 2. Giulietto Chiesa, la terra trema 3. Lidia Menapace, gestione nonviolenta del conflitto: cultura, forme, istituzioni (parte seconda) 4. Presentazione della Lega obiettori di coscienza 5. Riletture: Aldo Capitini, Scritti sulla nonviolenza 6. Riletture: Johan Galtung, Gandhi oggi 7. Riletture: Brian Martin, La piramide rovesciata 8. La "Carta" del Movimento Nonviolento 9. Per saperne di piu' 1. PER LA CRITICA DELLE IDEOLOGIE. MARGUERITE YOURCENAR: SI ACCORSE IN SEGUITO [Da Marguerite Yourcenar, L'opera al nero, Feltrinelli, Milano 1969, 1986, p. 25 (in diversa traduzione - ed a nostro avviso meno pungente - anche in Opere. Romanzi e racconti, Bompiani, Milano 1986, 2000, p. 600)] Si accorse in seguito che i libri sragionano e mentono come gli uomini, e che le prolisse spiegazioni del canonico vertevano spesso su fatti che, non esistendo, non avevano bisogno di essere spiegati. 2. RIFLESSIONE. GIULIETTO CHIESA: LA TERRA TREMA [Giulietto Chiesa, giornalista e saggista, e' un acuto osservatore delle vicende internazionali. Questo articolo e' comparso sul quotidiano "Il manifesto" del 30 dicembre] "They have done a good job". Un amico americano, sicuramente liberal, riassumeva cosi' la situazione bellica in Afghanistan dopo il definitivo massacro dei taliban e di Al Qaeda. "Loro" erano e sono il team di George W. Bush, primo imperatore del XXI secolo. E unico. In effetti alcuni obiettivi, anche se non tutti, sono stati raggiunti. E cerchero' qui di spiegare in cosa consistono. Tra questi, tuttavia, non c'e' la vittoria contro il terrorismo internazionale. Del resto essa non poteva esserci poiche' la guerra, iniziata il 7 ottobre 2001, non puo' concludersi cosi' in fretta. Altrimenti verrebbero contraddette le previsioni del vice-imperatore Dick Cheney, secondo cui essa durera' ben oltre l'aspettativa di vita della presente generazione. Il primo obiettivo raggiunto e' la vendetta. Il numero dei taliban e degli arabi annientato e' e rimarra' sconosciuto ma, mettendo insieme tutte le notizie ufficiose provenienti dal campo dei vincitori (altre notizie non abbiamo, essendo quelle del nemico, per definizione, false), possiamo calcolare che almeno 20.000 uomini siano stati uccisi nei bombardamenti, nei combattimenti, nelle stragi che hanno accompagnato la vittoria, nei massacri di prigionieri (non si fanno prigionieri in questa guerra). Un rapporto di cinque contro uno, se si assume che il numero dei morti nell'attacco dell'11 settembre si aggiri attorno ai 4000. Un rapporto certo inferiore a quello delle rappresaglie naziste della seconda guerra mondiale, ma comunque tale da soddisfare i requisiti della proclamazione di guerra ("la nostra causa e' giusta, la nostra causa e' necessaria", ha detto George Bush) e l'ira del consumatore americano. * Per quanto concerne le vittime civili, esse - com'e' noto - non erano un obiettivo e sono, per definizione, collaterali. Come tali esse non sono state ne' fornite, ne' indagate, e dunque non le conosceremo mai. Anche perche', quando qualcuno comincera' a contarle, l'Afghanistan sara' gia' sparito dalle prime pagine dei giornali e dei notiziari televisivi, e dunque non varra' la pena occuparsene. Il secondo obiettivo raggiunto e' la profonda modificazione delle linee di demarcazione dell'influenza degli Stati Uniti in tutta l'Asia, particolarmente nell'Asia Centrale. Al termine della guerra afghana gli Stati Uniti si sono assicurati il controllo diretto di almeno quattro delle repubbliche ex sovietiche collocate tra il Medio Oriente e l'area del Mar Caspio. Per la precisione la dipendenza di Georgia e Azerbaijan - entrambe guidati da ex membri del Politburo del Pcus - era gia' un dato di fatto prima dell'inizio della guerra afghana. Ma ora essa e' sancita poco meno che ufficialmente e, comunque, ben nota a tutte le cancellerie diplomatiche. In altre epoche sarebbe stato detto che la Georgia di Eduard Shevardnadze e l'Azerbaijan di Geidar Aliev erano diventate due colonie degli Stati Uniti, ma ora si usano espressioni piu' soft. Si aggiungono ora al bottino di guerra l'Uzbekistan di Islam Karimov e il Turkmenistan di Saparmurad Nijazov. Nel primo di questi due stati gli Usa hanno installato una base militare permanente. Del secondo nulla si sa con precisione, anche perche' Ashkhabad, la capitale, e' impenetrabile agli stranieri, in particolare ai giornalisti. Tuttavia buone fonti (russe) affermano che Turkmenbashi' (il padre di tutti i turkmeni, come Nijazov ama farsi chiamare) avrebbe consegnato in mani americane l'aeroporto ex strategico - fu strategico per i sovietici nel corso della loro guerra afghana - di Mary, e forse anche quello di Charzhou. Naturalmente Nijazov si e' anche dichiarato disponibile ad ospitare i terminali dei futuri oleodotti e gasdotti per il trasporto dell'energia dall'area del Caspio al Golfo Persico. Progetto che, come vedremo meglio piu' avanti, risale alla meta' degli anni '90 ed e' strettamente connesso alla nascita del regime dei taliban. * In poco meno di tre mesi l'amministrazione Bush ha disegnato una Yalta asiatica, rimodellando a suo vantaggio tutti i rapporti geo-politici continentali. La nuova superguerra contro il terrorismo internazionale sta pagando ottimi dividendi. E tutto lascia intravvedere che anche le fasi future della superguerra saranno accompagnate da analoghe modificazioni geo-politiche in altre aree del pianeta. Cio' varra' per l'area della Palestina, dove Israele ha cominciato, con l'appoggio di Washington, la guerra per la liquidazione dello stato palestinese, avendo in vista il rilancio del progetto di un grande stato ebraico. La liquidazione di Arafat e' la via per questo disegno, che chiudera' ogni via per un negoziato. Cio' varra' per l'Iraq, dove la fine di Saddam Hussein portera' all'instaurazione di un protettorato statunitense e all'installazione di basi americane, analogamente a quanto fu fatto con l'Arabia Saudita dopo la guerra del Golfo del 1991. Altrettanto vasti rimodellamenti di influenze a vantaggio degli Usa accompagneranno le previste guerre in Somalia e Sudan. Tutto lascia pensare che la nuova guerra asimmetrica e planetaria non si limitera' allo sterminio sistematico delle tentacolari propaggini della piovra di Al Qaeda. A Washington sanno che cio' non bastera' a eliminare il pericolo, anche nell'ipotesi di un successo totale delle operazioni di polizia. Infatti la tensione sociale nel pianeta - gia' dilatatasi spasmodicamente nell'ultimo ventennio - e' destinata anch'essa a crescere di pari passo con il rilancio (in chiave keynesiana e militare) della globalizzazione americana. E dunque si pone fin d'ora il problema della moltiplicazione di basi e presidi permanenti degli Stati Uniti in tutte le aree del pianeta in cui sara' possibile prevedere il risorgere della minaccia agli interessi economici e politici americani. * Cio' detto occorre tuttavia dare un'occhiata al rovescio della medaglia del "good job". La Grande Yalta asiatica implica l'esistenza di un partner-avversario cui concedere parte del bottino. Questo partner-avversario e' la Russia. Che e' rientrata in gioco dopo il lungo limbo decennale in cui la sua debolezza oggettiva (e l'assoluta subalternita' di Eltsin agli interessi americani) l'avevano relegata. Paradossalmente e' stato proprio l'imperatore a richiamare la Russia nel grande gioco. Per ragioni di necessita', costretto a pagare un prezzo che potrebbe rivelarsi perfino piu' salato di quanto appaia oggi. Occorreva la Russia, la sua solidarieta', per mostrare al mondo la Grande Alleanza contro il terrorismo internazionale. L'esistenza stessa di una Grande Alleanza forniva infatti la prova apparentemente inconfutabile della legittimita' morale della guerra afghana. Per ottenere l'appoggio di Mosca l'amministrazione Usa non ha lesinato sforzi e impegni, come dimostra la frequenza febbrile dei contatti, viaggi in Russia, missioni diplomatiche, concessioni di vario genere, dispiegate dal poker d'assi Bush-Cheney-Rumsfeld-Powell. Vladimir Putin ha assecondato molto abilmente questo abbraccio multiplo offertogli da Washington. Lo ha perfino anticipato offrendo, per primo, addirittura piu' tempestivo di alcuni alleati occidentali, condoglianze e solidarieta' dopo la tragedia dell'11 settembre. Da quel momento si e' avuta l'impressione di una totale sintonia tra Mosca e Washington. Impressione che e' stata accresciuta da un impegno davvero totale, spasmodico, ossessivo, unanime (al punto da far sospettare un ordine di scuderia) di tutta l'informazione occidentale nel confermare quella sintonia. In realta' abbiamo assistito all'inizio di una serrata (e a tratti molto rude) trattativa tra Stati Uniti e Russia per ridefinire i loro reciproci rapporti e per ridisegnare - appunto - la carta asiatica alla luce cruda dell'11 settembre. Il presidente russo ha trattato con grande maestria, specie se si tiene conto che le carte che aveva in mano non erano ne' molte, ne' decisive. Il primo a sapere che la Russia e' debole, e' proprio lui. Cosi' Vladimir Putin ha giocato a carte scoperte, mettendo sul tavolo del ranch texano di Bush, tutto intero, il quadro del contenzioso tra Russia e Stati uniti. Si e' dunque negoziato su molte questioni contemporaneamente. Ci si e' lasciati con una stretta di mano perche' ciascuno dei due ha ritenuto (o ha finto di ritenere) di avere conquistato qualche vantaggio. Putin ha subito ottenuto la fine di ogni ingerenza esterna sulla Cecenia. Cioe' sia la fine dell'aiuto ai ribelli ceceni, fino a ieri abbondantemente fornito, attraverso la Georgia e l'Azerbaijan, dai servizi segreti turchi con la benedizione della Cia, sia la fine delle periodiche lamentele occidentali in tema di violazione dei diritti umani in Cecenia. D'ora in poi, e per qualche tempo, il silenzio dell'Occidente e' garantito. * Putin, dal canto suo, ha inghiottito la perdita delle due repubbliche ex sovietiche di Uzbekistan e Turkmenistan, dopo aver dovuto subire, senza poter fare quasi nulla, quella di Georgia e Azerbaijan. Ma ha ottenuto, in cambio, l'assicurazione che l'area d'influenza russa su Armenia, Kazakhistan, Kirgizia, Tajikistan sono sara' minacciata nell'immediato futuro. La Russia compie una cospicua ritirata strategica da una parte dell'Asia Centrale, riconoscendo implicitamente la rivendicazione americana sull'area, gia' proclamata da Clinton come "area d'interesse vitale per gli Stati Uniti d'America". E' probabile che Mosca consideri questa ritirata come temporanea, o tattica, ma essa, per quanto dolorosa, rappresenta un riconoscimento dei rapporti di forza reali. Tanto piu' ferma, di conseguenza, e' stata la posizione di Putin in tema di regolamento politico della situazione afghana dopo la definitiva liquidazione del regime talibano. Non era certo sfuggita a Mosca la lunga operazione pakistano-saudita-statunitense il cui obiettivo avrebbe dovuto essere la creazione di una serie di oleodotti e gasdotti in grado di portare le immense risorse energetiche del Mar Caspio agli utilizzatori occidentali attraverso l'Afghanistan. L'operazione, iniziata nei primi anni '90, aveva visto, come protagoniste, due importanti compagnie petrolifere, la Unocal Corp. (americana) e la Delta Oil (di proprieta' del sovrano saudita). Entrambe avevano soppiantato la minuscola compagnia petrolifera argentina Bridas nei rapporti con il satrapo turkmeno Saparmurad Nijazov (che avrebbe dovuto assicurare il terminale nord di oleodotti e gasdotti) e con i mujaheddin afghani (che si pensava di poter mettere d'accordo in cambio di molto denaro), che avrebbero dovuto smettere di combattersi, garantire un futuro relativamente tranquillo all'Afghanistan e consentire il passaggio degli oleodotti verso il sud, verso il Golfo Persico. * Operazione strategica a doppia valenza: economica e politica. Da un lato avrebbe consentito una soluzione molto economica per il movimento di ingenti quantita' di energia verso le grandi economie occidentali. Dall'altro avrebbe permesso di bypassare la Russia, sottraendole al tempo stesso principesche royalties e l'influenza sull'intera area centro-asiatica. Quest'ultimo aspetto era in stretta connessione con il progetto strategico (sostenuto da influenti circoli di Washington) di indebolire ulteriormente la Russia fino a un suo completo collasso, la sua trasformazione in "confederazione debole", infine la suddivisione in tre stati (Russia europea, senza il Caucaso del Nord, Siberia Occidentale e Estremo Oriente). Il progetto falli' per l'impossibilita' di mettere d'accordo le fazioni afghane. Al suo posto venne deciso di "pacificare" l'Afghanistan mediante un nuovo regime, costruito artificialmente dall'esterno. Il movimento dei Taleban era nato cosi', tra il 1994 e il 1995, mediante il finanziamento saudita delle madrassas (scuole coraniche) e il massiccio intervento dei servizi segreti pakistani, che fornirono istruzione, comandi, intelligence per la guerra contro i mujaheddin. Decine di migliaia di studenti coranici vennero cosi' formati a una nuova Jihad, addestrati, armati e trasportati in Afghanistan dai campi profughi della North-West Frontier. In meno di due anni, con armi e fiumi di dollari, i Taleban del mullah Omar conquistarono o comprarono quasi tutti i comandanti militari ex mujaheddin, costrinsero gli altri alla fuga, e s'impadronirono del 90% del territorio del paese. Era il 1996 quando arrivarono a Kabul. Ma la Russia non era rimasta con le mani in mano. I militari e i servizi segreti russi avevano riempito il vuoto politico del presidente Eltsin. Resisi conto che l'operazione taliban era diretta a colpire a fondo gli interessi russi, avevano cominciato a sostenere e armare l'unico antagonista afghano rimasto sul terreno a contrastare la travolgente avanzata dei taliban: il tagiko Ahmad Shah Massud, trincerato nella fortezza naturale della Valle del Panshir. * Il fallimento dell'operazione taliban era stato figlio della spregiudicatezza di Mosca, pronta a sostenere colui che era stato il suo acerrimo nemico durante gli anni dell'intervento sovietico in Afghanistan. Ma ora Vladimir Putin aveva le sue rimostranze da fare a George Bush. E una proposta: vi diamo l'appoggio politico necessario per liquidare i taliban, che nel frattempo sono divenuti pericolosi anche per voi. Ma a condizione che il futuro governo dell'Afghanistan sia concordato con noi. E a un'altra condizione: che il futuro uso delle risorse strategiche del Caspio sia gestito assieme alla Russia e non contro la Russia. Alla luce degli eventi successivi sembra di poter dire che l'accordo raggiunto nel ranch del Texas, tra Bush e Putin, non fu ne' chiaro, ne' completo. Gli Usa devono soddisfare le esigenze del generale Musharraf, pericolante e infido, mentre la Russia ha tutto l'interesse a sostenere fino in fondo le richieste dei tagiki eredi di Massud. E tra tagiki e Islamabad non c'e' pacificazione possibile, poiche' l'assassinio di Massud e' opera di Osama bin Laden non meno che dell'Inter Service Intelligence pakistana. Si spiega cosi' perche' i tagiki sono entrati a Kabul per primi, contro l'avvertimento di Bush, impadronendosi di fatto del potere, certo d'accordo con Mosca, senza aspettare il via libera americano. E si spiega cosi' anche l'arrivo a Kabul, di nuovo per primi, del contingente russo: secondo il proverbio "fidarsi e' bene, non fidarsi e' meglio". Che nella versione russa suona: "abbi fiducia, ma prima verifica" (doveriaj, no proveriaj). * Cio' che succedera', a Kabul e dintorni, nei prossimi mesi, dovra' essere letto in questa chiave, se si vorra' capire qualcosa. Putin non e' disposto a regalare l'Afghanistan all'America. Ne' e' disposto a lasciare che Washington decida da sola sul futuro dell'Asia Centrale e su quello delle risorse energetiche ivi contenute. E' vero che Mosca e' relativamente debole, che non e' piu' potenza globale. Ma e' anche vero che nell'area in questione - il suo "cortile di casa" - Mosca e' ancora molto forte, temibile, in grado d'influenzare molte situazioni. Ad esempio la tenuta di regimi come quello di Tashkent e quello di Ashkhabad puo' essere messa rapidamente a repentaglio se la Russia scoprisse di essere stata ingannata o colpita nei propri interessi. A Mosca non c'e' piu' Eltsin, manutengolo degli interessi occidentali. Putin, convinto assertore del capitalismo in Russia, e' anche un altrettanto convinto fautore degli interessi nazionali russi. E, se non fosse sufficientemente convinto, dovrebbe fare i conti con quei settori dell'establishment russo che premono perche' essi vengano difesi. Sotto questa prospettiva occorre esaminare anche gli altri due temi che sono stati al centro dell'incontro di novembre nel ranch del Texas. Su entrambi non c'e' stato accordo. Su uno si e' registrata una modesta convergenza, sull'altro si e' registrata una completa divergenza. Si tratta, rispettivamente, dell'allargamento a est della Nato, e del trattato Abm del 1972. Colin Powell - ma Donald Rumsfeld e' di altro avviso - e' disposto a concedere molto a una Russia che conceda molto. Per esempio anche un avvicinamento della Russia alla Nato, che le consenta di entrare in un organismo congiunto, da inventare ad hoc, in cui alla Russia sia perfino concesso qualche diritto in materia di decisioni collettive. Putin ha mostrato di essere interessato a una tale eventualita', riservandosi di decidere quando le cose si faranno piu' chiare e, soprattutto, quando a Washington si sara' deciso cosa s'intende regalare alla Russia. Niente di piu'. Del resto Putin sa perfettamente che l'allargamento verso est dei confini della Nato sara' deciso indipendentemente dalla Russia e, quindi, sa che il proprio spazio di manovra e' segnato dai rapporti di forza concreti, che sono a suo svantaggio. Per questo non strilla, non si agita, non da' in escandescenze (come amava fare Eltsin) quando lo si chiude in angolo: aspetta il momento in cui potra' far valere la sua forza. D'altro canto la vicenda afghana, cioe' l'inizio della guerra infinita, sembra dire che Washington non ha piu' molto bisogno della Nato. Ha deciso di fare da sola, al piu' con l'aiuto dell'Inghilterra. Pensa di potere e di dovere farcela da sola, senza impacci, senza remore. La Nato avra', sempre di piu', un valore politico diplomatico. In quel tipo di Nato la Russia potrebbe anche essere ammessa. Entrarvi, per Putin, equivarrebbe a una soddisfazione simbolica. Anche questo ha capito. * L'unica cosa, non da poco, che Putin ha ottenuto in Europa, e' stata una tregua dell'offensiva americana contro la Bielorussia di Lukashenko. Washington aveva - ed ha - come obiettivo di rovesciare il presidente bielorusso. Ma dovra' ora dilazionare questo obiettivo per non creare altri problemi con Mosca. Minsk puo' aspettare. Il "modello Belgrado", della sovversione finanziata dall'esterno, delle minacce-promesse in cambio del rovesciamento del leader nazionale di turno, usato con successo contro Milosevic, per ora non si ripetera'. La completa divergenza c'e' stata soltanto in materia di "scudo stellare". Qui Bush non poteva concedere nulla. La filosofia "unilaterale" di Cheney, Rumsfeld, Rice non ammette deroghe, con o senza il terrorismo internazionale. L'America e' l'unica superpotenza rimasta. Come tale non si sente piu' tenuta a negoziare con chicchessia. Al massimo, quando lo riterra' opportuno, potra' comunicare agli altri le sue decisioni sovrane. A questo si deve solo aggiungere che lo "scudo stellare" (cioe' la militarizzazione dello spazio) diventa ora essenziale per il dominio globale del pianeta. E che i 100 miliardi di dollari necessari per realizzarlo saranno anche un utile strumento "keynesiano" per rimettere in moto la disastrata new economy. * Come ha scritto il Financial Times pochi giorni dopo la tragedia delle Twin Towers, "tutti ormai dobbiamo essere di nuovo keynesiani". Anche a questo proposito Vladimir Putin non ha alzato la voce quando da Washington gli e' stato comunicato, con i regolamentari sei mesi di anticipo, che gli Stati Uniti si apprestavano a uscire dal trattato. Ha fatto rispondere dal suo ministro della difesa, laconicamente, che la Russia comincera' a installare sui suoi missili Topol non piu' una, ma dieci testate nucleari. La Duma ha annunciato che la messa in esecuzione degl'impegni del trattato Start-2 sara' sospesa e, nel frattempo, la Russia ha varato il sommergibile nucleare Ghepard: una nuova generazione capace di gareggiare con il meglio della tecnologia americana. Detto in termini piu' concisi, e' cominciata una nuova corsa al riarmo mondiale. Perche' e' del tutto evidente che la Cina sta accelerando il proprio sviluppo tecnologico-militare, poiche' sa di essere stata gia' eletta a nemico principale quando l'attuale "clash of civilizations" contro il mondo islamico sara' terminato. Dov'e' la "Grande Alleanza" contro il terrorismo internazionale, che fu sbandierata all'inizio della guerra, per giustificare la sua "inevitabilita'" e la sua "legittimita'"? Semplicemente non c'e' mai stata. 3. RIFLESSIONE. LIDIA MENAPACE: GESTIONE NONVIOLENTA DEL CONFLITTO: CULTURA, FORME, ISTITUZIONI (PARTE SECONDA) [Questo intervento di Lidia Menapace, di qualche anno fa, abbiamo ripreso dal sito della scuola di pace del Comune di Senigallia (www.comune.senigallia.an.it/scuoladipace_web). Lidia Menapace, una delle nostre maestre piu' grandi, e' nata a Novara nel 1924, partecipa alla Resistenza, è poi impegnata nel movimento cattolico, pubblica amministratrice, docente universitaria, fondatrice del "Manifesto" e partecipe di varie rilevanti esperienze politiche e culturali della sinistra critica. E' tra le voci più significative della cultura delle donne e dei movimenti di solidarieta' e di liberazione. La maggior parte degli scritti e degli interventi di Lidia Menapace è dispersa in quotidiani e riviste, atti di convegni, volumi di autori vari; tra i suoi libri cfr. (a cura di), Per un movimento politico di liberazione della donna, Bertani, Verona 1973; La Democrazia Cristiana, Mazzotta, Milano 1974; Economia politica della differenza sessuale, Felina, Roma 1987; (a cura di, ed in collaborazione con Chiara Ingrao), Né indifesa né in divisa, Sinistra indipendente, Roma 1988; Il papa chiede perdono: le donne glielo accorderanno?, Il dito e la luna, Milano 2000. La prima parte di questo intervento abbiamo pubblicato ieri, il seguito pubblicheremo prossimamente] 4. Nominare i conflitti. Il conflitto sindacale Allora, come si risolve la questione della gestione nonviolenta del conflitto? Dobbiamo almeno proporci alcune procedure mentali, e poi ciascuno cerchera' di applicarle la' dove vive. Quando si parla di una "azione di movimento", la metodologia e' questa: io mi convinco di alcune cose e poi cerchero' di applicarle, esprimerle e farle conoscerle la' dove ho le mie relazioni sociali, dove parlo con altre persone: nella scuola, nella mia famiglia, nella professione, nel mio partito, nel sindacato. La prima cosa da fare e' prendere l'abitudine di nominare sempre tutti i conflitti, e di non avere paura dell'esistenza del conflitto. Il conflitto c'e', e coprirlo e' sbagliato. Anche aver paura, vergogna, timore o senso di colpa del conflitto e' sbagliato. Anche di fronte a tutti i malesseri, riconoscere che ci sono e' ragionevole. Uno che dicesse che non c'e' disoccupazione, non e' un benefattore dell'umanita', ma un cretino, perche' la disoccupazione c'e'. Quando uno dice che la disoccupazione c'e', non intende dire che e' una buona cosa, dice semplicemente che c'e'. Allora il conflitto c'e', e ne esistono diverse forme. Esistono ad esempio dei conflitti di interesse fra varie classi o ceti sociali, e questo c'e'. Ed e' inutile dire che non esiste, oppure che dipende dal fatto che gli uni hanno l'odio di classe e gli altri la prepotenza dei padroni, spiegazioni moralistiche senza fondamento, che comunque non aggiungono niente al fatto che il conflitto c'e'. Questo conflitto esiste ed e' un conflitto di interessi. Il problema e' un altro. Dobbiamo lasciare che si esprima selvaggiamente e vinca il migliore? Tutta la storia del movimento sindacale ed operaio dimostra che e' stata scelta un'altra strada: nominare i conflitti e cercare di trovare delle procedure per governarli. Il fine del sindacato, infatti, non e' la distruzione fisica dell'avversario, ma la sua riduzione a piu' moderate richieste. Questo viene fatto attraverso una serie di comportamenti e scelte di mezzi. La lotta sindacale per definizione e' la riduzione nonviolenta di un conflitto che poteva essere sanguinoso, e che talora lo fu. Questo conflitto viene tenuto sotto controllo, ma non nel senso che si dice che hanno ragione gli operai o hanno ragione i padroni, o nel senso che non e' vero che il conflitto esiste e basterebbe essere buoni. Questi interessi sono realmente in conflitto fra di loro, e allora ci si organizza e si stabiliscono le regole di gestione del conflitto e anche le forme di lotta. Tra le grandi organizzazioni sociali nell'eta' moderna il sindacato e' quella che ha scoperto e praticato forme di lotta nonviolenta. "Forma di lotta nonviolenta" non vuol dire forma di lotta mite, o col sorriso sulle labbra, ma piuttosto forma di lotta che esclude la distruzione fisica dell'avversario, che sono dunque grandi manifestazioni, scioperi, picchetti, etc. Questi strumenti cercano di compattare una forza e presentarla in modo tale che poi si possa aprire la trattativa avendo manifestato la propria forza. Questa e' una gestione nonviolenta del conflitto, e io voglio cominciare proprio da questa, perche' molto spesso si crede che la gestione nonviolenta del conflitto sia la non gestione del conflitto: si sta li' e si prendono le sberle in faccia. Questa non e' gestione nonviolenta del conflitto. La gestione nonviolenta del conflitto e' anche forte, determinata, che vuol raggiungere degli obiettivi, e che solo esclude la distruzione fisica dell'avversario, esclude dunque che il conflitto diventi cruento. Ma il conflitto rimane tale e puo' esprimersi anche con forza: lo sciopero, il picchetto, la grande manifestazione non sono cose che non abbiano dentro di se' elementi minacciosi. C'e' un conflitto di interessi!? Bene, io faccio mancare la mia forza lavoro e tu sei danneggiato. L'esempio precedente significa che la gestione nonviolenta del conflitto comporta anche danni. Ad esempio quando a proposito della difesa popolare nonviolenta si dice che il sabotaggio e' ammesso, si legittimano anche atti di forza come la distruzione di un ponte per fermare l'invasione del nemico. Quando si parla di gestione nonviolenta del conflitto bisogna intendere una cosa energica. Questa osservazione e' importante, perche' altrimenti si ha sempre l'idea che l'azione nonviolenta sia una resa piu' o meno sorridente ed eticamente nobile. Non e' questo. L'azione nonviolenta e' azione, e quindi comporta metodologie, organizzazione, espressione della forza e uso di mezzi. L'unica cosa che si esclude e' la volonta' di distruzione dell'avversario, e questo distingue teoricamente in maniera netta la gestione nonviolenta del conflitto dalla guerra, che invece e' fondata sull'idea che il conflitto si puo' eliminare distruggendo uno dei due contendenti. Questa e' la dialettica amico-nemico, per cui la mia vita e' la tua morte, e non per cui la mia vita e' la possibilita' di tenere a freno la tua prepotenza obbligandoti a pagare qualche prezzo. Questa e' la gestione nonviolenta del conflitto. La prima e' la guerra, o gestione violenta dei conflitti, che significa non solo uso delle armi e versamento di sangue, ma significa soprattutto l'idea che il conflitto si possa risolvere solo cancellando uno dei due contendenti. La dialettica amico-nemico e' fondata sull'idea che se io campo tu devi morire. La guerra si basa sull'idea che il conflitto si risolve riducendolo, e d'altra parte per ridurre il conflitto si hanno quelli che dalla guerra del Golfo in poi si chiamano effetti collaterali. La morte dei nemici si chiama, infatti, "effetto collaterale". Durante la guerra gli americani dicevano ad esempio: "abbiamo avuto 400 morti, e poi abbiamo avuto alcuni effetti collaterali", e cioe' sono morti qualche decina di migliaia di iracheni. Si tratta degli effetti collaterali di un'operazione chirurgica. Una delle invenzioni piu' clamorosamente geniali della guerra del Golfo e' l'uso dei simboli linguistici, che, non a caso, sono stati studiati nei dipartimenti di linguistica delle universita' americane su commissione del Pentagono, perche' oramai - lo dico con vergogna - i generali sono diventati intelligenti. Hanno cosi' tanti soldi che possono comprare quasi tutte le universita'. Il complesso industriale-militare-scientifico e' l'aggregato di potere piu' strepitoso ed enorme che ci sia al mondo. E i militari sono i migliori committenti che qualsiasi scienziato o produttore possa immaginarsi, perche' chiedono solo una tecnologia che si usa una volta e poi scoppia e non serve piu'. Quindi tutti gli studi che si fanno sul riciclaggio, sulla conservazione dei materiali, sull'utilizzo delle macchine sono una rogna non da poco per chi produce. Al contrario i militari chiedono una cosa che scoppia, e che poi se ne fa un'altra. Sono tecnologie molto elementari, queste. Comunque i militari sono ottimi committenti, hanno soldi a non finire e quasi nessun controllo. E' sufficiente pensare che la gestione dei 20.000 miliardi all'anno messi da parte nelle finanziarie per il nuovo modello di difesa sono dati, a prescindere completamente dalla situazione economica generale, senza resocontazione. C'e' da sperare che siano utilizzati per amanti, ville, caviale, champagne, che almeno non fanno danni, perche' se sono stati usati davvero per armi allora c'e' da aver paura. * 5. Il conflitto fra i generi. Azione nonviolenta Abbiamo forse incominciato ad approssimarci all'idea di cosa sia la gestione nonviolenta del conflitto. Primo e' la sua nominazione: si riconosce che c'e' un conflitto, lo si chiama per nome e cognome. Ad esempio puo' essere un conflitto di interessi fra le classi, i ceti, le professioni, un conflitto economico che riguarda l'accesso alle risorse, il loro utilizzo e la loro trasformazione in merci, e quanto viene appropriato da chi mette il suo lavoro e da chi rischia il suo capitale, classicamente, sia pure oggi in modo piu' sofisticato e piu' complesso. Si possono evocare anche altri conflitti. Ad esempio esiste un conflitto di interessi fra genere maschile e genere femminile, che non e' la stessa cosa che dire che esistono conflitti fra il singolo uomo e la singola donna. Esistono anche questi, ma possono anche non esistere, visto che ci sono coppie felici all'interno delle quali non esistono conflitti. Ci sono partiti o sindacati dove le donne sono felicissime di come sono trattate, rappresentate, messe in lista o nelle candidature, fatte riuscire nei posti piu' strepitosamente importanti, e va benissimo. Ma lasciando stare queste isole felici, esiste tuttavia un conflitto di interessi fra i due generi. Questo conflitto di interessi e' storico e dipende dal fatto che le vicende della storia hanno portato al fatto che uno dei due generi sia dominante, nel senso che, per esempio, nominando se stesso pretende di nominare l'intera specie umana. Avrete sentito parlare fino alla noia dei valori dell'uomo. Magari una donna dice 7000 volte: dobbiamo difendere i valori dell'uomo. Ma che se li difendano gli uomini i loro valori. Io vorrei difendere i valori delle donne, ad esempio. Perche' non posso dirlo? Si risponde: quando si dice uomo, si intende anche donna, tanto siamo uguali. Allora io dico: siccome siamo uguali, io dico donna, e intendo anche uomo. E si capisce subito che non e' uguale, perche' se io dico di difendere i valori della donna, nessuno capisce che sto parlando anche dei valori dell'uomo. Questo significa che uno dei due generi e' riuscito, essendo dominante, a imporre che la sua denominazione valga come neutro universale. Si tratta di un'operazione di una genialita' strepitosa, che maschera il conflitto. Quando affermo che il genere maschile e' il genere dominante intendo offendere gli uomini, perche' considero "dominio" una parola oscena. Qualunque democratico che lotta contro il dominio delle multinazionali, non puo' essere contento di essere considerato lui stesso dominatore, altrimenti c'e' una contraddizione insanabile: "Lottare contro il dominio delle multinazionali e' utile, ed io eserciterei un dominio sull'altro genere? Dovrei vergognarmi". Comunque c'e' questo dominio storicamente consolidato, che si manifesta negli usi linguistici e soprattutto nella ripartizione del potere pubblico e sociale, e nel fatto che il genere femminile viene ammesso non contemporaneamente all'esercizio dei diritti: valga per tutti l'esercizio del voto come forma della cittadinanza. Generalmente si chiama suffragio universale quello di tutti gli uomini, che e' l'espressione piu' tipica di questo gioco mentale per cui tutto il genere maschile e' uguale alla specie umana. Le donne prima devono chiedere di poter votare, di poter andare all'universita', di poter esercitare tutte le professioni. Nella storia del femminismo si ricordano una serie di episodi curiosi, come quello di una laureata in giurisprudenza che fece domanda per partecipare a un concorso nella magistratura quando ancora le donne non erano ammesse, e la domanda fu respinta perche' "mancante del requisito del sesso". Nel senso che la tipa era sessuata, ma non era del sesso giusto, essendo una donna. A questo punto si chiede che questo requisito venga almeno considerato per com'e' in natura nelle sue due forme. Tutto questo riduce questo conflitto gradatamente, per lo piu' attraverso delle lotte nonviolente. Queste lotte nonviolente non sono dolci, perche' generalmente dal suffragismo in poi l'espressione della rabbia delle donne per essere escluse dal godimento dei diritti politici e civili non si esprime in termini gentili: se mi ami concedimi il diritto di voto. Si esprime in forme molto dure: vergognatevi di tenerci fuori dal potere, cedete, mollate il potere della rappresentanza, riconoscete questo diritto. Dal movimento del suffragismo in poi anche questo movimento di rivendicazione dei diritti politici e civili mette all'ordine del giorno nella storia il conflitto fra i generi, conflitto che era a lungo rimasto sedato, nascosto, gestito in forma di dominio da una parte e di pressione anche non consapevole dall'altra. Quando questo conflitto diventa consapevole, esso assume fin dalle suffragiste inglesi, e questa e' la cosa interessante, forme e metodi di espressione nonviolenti. Le suffragiste inglesi invadono il parlamento e gettano volantini sulla testa dei deputati che stavano discutendo dei "bastardi", cosi' si chiamavano i figli illegittimi nella legislazione inglese. In questo volantino c'era scritto: forse ci sono dei genitori illegittimi, certamente non ci sono dei figli bastardi, quindi evitate questa definizione, i figli sono tutti legittimi, forse i genitori quando li concepirono potevano non essere legati in matrimonio secondo le norme stabilite dal codice, ma questo non implica alcun giudizio sul frutto del concepimento. Oppure le suffragiste si legavano alle colonne davanti al parlamento e si sedevano per terra, cosa scandalosissima ai loro tempi, ed anche molto complicata con gli abiti che portavano, e i poliziotti e spesso anche i militari a cavallo inglesi non avevano il coraggio di calpestarle e quindi si fermavano. Queste forme di lotta come il volantinaggio, il legarsi ai simboli delle istituzioni e il sit-in sono stati inventati dal movimento suffragista e sono poi diventati patrimonio del movimento politico delle donne. Gandhi ha studiato le forme di lotta del suffragismo inglese e ha ricavato molte delle sue teorizzazioni sull'azione nonviolenta da li'. Anzi ha elaborato una specie di osservazione sulle varie fasi a partire da quella in cui un movimento rompe gli equilibri culturali, cioe' nomina un conflitto, lo fa diventare visibile nella storia: i movimenti che rompono l'equilibrio in un primo momento vengono ignorati, perche' si spera in questo modo che il movimento si esaurisca da se'. Questa e' una forma di guerra, perche' ignorare vuol dire cancellare l'esistenza, e' come dire: io campo se tu non ci sei. Dunque prima vengono ignorati, seppelliti nel silenzio. Poi sono colpiti dal ridicolo. Infatti, non a caso le suffragiste furono chiamate in questo modo, dette generalmente zitelle insoddisfatte, che se avessero trovato qualche marito avrebbero smesso di chiedere il diritto di voto. E generalmente le barzellette sulle suffragiste si sprecano. Oggi ci sono quelle sulle femministe, tutte lesbiche, tutte maledonne, tutte nemiche degli uomini, tutte castratrici. Dopo il ridicolo c'e' la repressione: le suffragiste vennero anche messe in galera per vilipendio della nazione, per offesa alla morale pubblica e cosi' via. Infine, quando si superano questi tre livelli si entra nella storia. Pare che sia cosi', secondo Gandhi. Quindi bisogna aspettarsi il silenzio, l'irrisione, la repressione, e se si tiene duro, si diventa un movimento che pratica la sua azione politica nonviolenta in modo ormai ammesso. Voglio ricordare che invece negli Stati Uniti il movimento suffragista incomincio' subito a praticare delle alleanze significative e comincio' ad esercitare una cosa che non c'era nel movimento inglese, ma che e' presente nel movimento sindacale, e cioe' la disobbedienza civile e il non rispetto, tranquillo e nonviolento, delle leggi esistenti. Siccome il codice matrimoniale americano era fondato sulla subordinazione della donna all'uomo, della moglie al marito, le suffragiste americane generalmente si sposavano facendo una dichiarazione di non rispetto del codice, e qualche volta veniva loro percio' rifiutato il matrimonio. Generalmente i due erano d'accordo, e dunque si realizzava una gestione del conflitto fra i generi in cui uno era un disertore, rompendo la solidarieta' del suo branco. Dunque, fa parte dell'azione nonviolenta anche il non riconoscimento tranquillo delle leggi esistenti, la disobbedienza civile alle leggi. Le suffragiste americane fecero anche disobbedienze piu' significative di questa, che pure era importante in una societa' puritana: generalmente le suffragiste americane ospitavano gli schiavi neri che scappavano dal sud. C'e' una storia comune d'alleanza: un movimento di gestione nonviolenta dei conflitti spesso sente l'esigenza di un'alleanza con le situazioni piu' marginali e difficili della societa'. Moltissimi schiavi neri che scappavano dagli stati del sud imparavano il nome di una donna che li ospitava nella loro casa e che indicava loro un altro nome, fino a che non arrivavano al nord. Anche questa era un'azione illegale, perche' le suffragiste ospitavano persone scappate da una condizione di legale schiavitu' nello stato in cui erano. Allora, nell'azione nonviolenta, nella gestione nonviolenta dei conflitti, incominciamo a introdurre un nuovo elemento rispetto alle metodologie che abbiamo visto nel movimento sindacale e in quello suffragista: si puo' anche mettere in discussione la legalita' esistente, si puo' anche disubbidire alle leggi, non sottraendosi alle sanzioni che eventualmente colpiscono. Se infatti qualcuna di queste donne veniva scoperta, era naturalmente processata. Questo comporta un altro aspetto della gestione nonviolenta dei conflitti, che richiede un grande coraggio civile. Di nuovo, se prima avevo detto che l'azione non violenta e' azione, non e' passivita', cosi' pure l'azione nonviolenta e' anche grande coraggio civile, esposizione, assunzione di responsabilita', fino alla rinuncia temporanea della propria liberta' assoggettandosi ad un processo, con l'intenzione di dimostrare che c'e' una legge ingiusta che va modificata. L'intendimento e' ottenere un futuro riconoscimento giuridico alla giustezza della propria azione. E' lo stesso tipo di testimonianza che viene richiesta all'obiezione di coscienza al servizio militare. Inizialmente l'obiezione di coscienza e' il rifiuto di obbedire ad una legge dello stato, ed in se' e' illegittima. Eppure questa disobbedienza e' cosi' forte, parla cosi' tanto che prima o poi modifica la legge. E quindi l'obiezione di coscienza diventa legale. Su un altro terreno si puo' dire che la lunga omerta' intorno all'aborto, tollerato benche' fosse un reato, e' stata rotta dall'azione nonviolenta delle donne che hanno detto: vogliamo che questo problema venga preso in considerazione, come un problema di cui pubblicamente si parla, e quindi violiamo la legge, addirittura facciamo dichiarazione di averla violata. Sapete quante di noi hanno firmato false dichiarazioni di aver abortito per suscitare il dibattito, in modo da poter poi ottenere una modifica della legge. La gestione nonviolenta del conflitto sposta in avanti il conflitto. Mi interessa molto che si capisca e spero che sia utile trasmettere questa idea specialmente alle giovani generazioni, che la gestione nonviolenta dei conflitti e' una cosa che richiede grande determinazione, grande capacita' organizzativa, grande solidarieta'. La gestione nonviolenta del conflitto non e' cosa da pappemolli, non e' una cosa semplicemente passiva, puramente esigenziale. E' una vera politica, tanto e' vero che si propone di ottenere una modificazione degli assetti giuridici. (CONTINUA) 4. ESPERIENZE. PRESENTAZIONE DELLA LEGA OBIETTORI DI COSCIENZA [Dal sito della Lega obiettori di coscienza (in sigla: LOC) riprendiamo questa scheda di autopresentazione, di qualche anno fa, e che su alcuni punti richiederebbe di essere aggiornata alla luce delle novita' legislative - e non solo - degli ultimi anni] La LOC (Lega Obiettori di Coscienza) nasce nel 1973 (dopo l'approvazione della Legge 772 del 15.12.1972); dapprima federata al Partito Radicale, assume dal 1979 la piu' totale autonomia politica e di iniziativa. La LOC. e' l'associazione degli obiettori di coscienza al servizio militare e di coloro che si riconoscono nei valori della pace, della solidarieta', della nonviolenza, e che, con la propria affermazione, intendono contribuire al superamento del modello e dell'organizzazione militare. Aderiscono alla LOC i singoli, anche cittadini non italiani, che ne facciano richiesta, oltre ad associazioni, coordinamenti e collettivi di carattere locale e sedi locali di associazioni nazionali, i quali, accettando lo Statuto e la Carta Programmatica, richiedano di federarsi alla LOC, fornendo i dati tecnici e la situazione organizzativa. La LOC caratterizza in modo peculiare il proprio agire politico in ottemperanza alle seguenti linee fondamentali, nelle quali si riconoscono i diversi gruppi federati, pur restando autonomi nella pratica politica: - la nonviolenza e la valorizzazione delle differenze culturali, ideologiche, etniche, sessuali e religiose, come strumento di lotta politica e punti di partenza imprescindibili per l'elaborazione delle iniziative della LOC; - il rifiuto della logica che porta alla risoluzione violenta dei conflitti, all'organizzazione di modelli di difesa basati sugli eserciti professionali o meno, alla ricerca scientifica a scopi militari, al commercio di armi e materiale bellico; - la comprensione delle strette interconnessioni tra i problemi inerenti la pace, la salvaguardia dell'ambiente e lo sviluppo dei popoli, indispensabile primo passo per poter eliminare le forti discriminazioni economico-sociali e per promuovere il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti, presupposti fondamentali per la realizzazione integrale dei diritti umani. L'impegno della LOC si attua concretamente in una serie di obiettivi: - attenzione scrupolosa alla gestione tecnica e politica, da parte del Ministero della Difesa e dell'Ufficio Nazionale per il Servizio Civile, dell'obiezione e degli obiettori di coscienza, della cui rappresentanza politica la LOC si fa carico per favorire il rispetto dei diritti e dei doveri degli obiettori; - istituzione di un canale privilegiato di contatto con i parlamentari piu' sensibili alle tematiche dell'obiezione di coscienza e del servizio civile, per coagulare le forze politiche disponibili intorno all'elaborazione di iniziative che portino a nuove leggi sulla Difesa Popolare Nonviolenta, la riconversione dell'industria bellica, il disarmo (da perseguire sia con atti unilaterali, sia con accordi tra gli Stati, basati sui principi della trasparenza e della cooperazione internazionale); - promozione e sostegno delle realta' federate che avviano collaborazioni con gli Enti Locali sui temi della pace, del disarmo, della difesa sociale e della Difesa Popolare Nonviolenta; - attenzione particolare ai mezzi di comunicazione di massa, approntando tutti gli strumenti che si riterranno necessari per divenire interlocutori autorevoli dell'opinione pubblica sulle tematiche dell'obiezione di coscienza e della pace; - svolgimento di un ruolo informativo e divulgativo, direttamente a livello nazionale e sostenendo le realta' federate a livello locale, particolarmente rivolto agli iscritti alle liste di leva, con carattere di integrazione ed eventualmente di collaborazione con l'attivita' informativa della Pubblica Amministrazione sui temi dell'obiezione di coscienza e del servizio civile; - promozione e sostegno di attivita' e manifestazioni a carattere nonviolento, che, a livello nazionale ed internazionale, operano a favore della pace e del disarmo; - tutela, anche legale, degli obiettori di coscienza; - istituzione di percorsi formativi che dotino gli obiettori di coscienza interessati degli strumenti per approfondire il proprio ruolo di cittadini in servizio civile a difesa della collettivita'; - istituzione di seminari di studio sui temi della pace, del disarmo, della riconversione dell'industria bellica, della riforma della legge sull'obiezione di coscienza; - elaborazione, insieme alle realta' gia' impegnate sul campo della Difesa Popolare Nonviolenta, di strumenti idonei alla progettazione di risposte concrete di fronte a conflitti nazionali o internazionali, con particolare attenzione a quelli causati dallo squilibrio Nord-Sud, affinche', alle pur necessarie rimostranze sulla illiceita' di risoluzioni violente dei conflitti, si tenti di prefigurare delle proposte alternative. La LOC inoltre si e' impegnata in questi anni a fornire strumenti informativi e suggerimenti agli obiettori in servizio affinche' denuncino le numerose violazioni di legge e irregolarita' messe in atto da enti di servizio civile. E' impegnata in campagne nazionali contro il Nuovo Modello di Difesa e l'esercito professionale, producendo in proprio e in collaborazione con altre realta' pacifiste materiali informativi in proposito. Ha promosso - dal 1982 - la Campagna di obiezione alle spese militari insieme ad altre associazioni dell'area pacifista e nonviolenta. Fa parte del comitato di redazione della rivista "Guerre e Pace", mensile di informazione internazionale alternativa (www.mercatiesplosivi.com/guerrepace) e su "Azione Nonviolenta", mensile del Movimento Nonviolento, pubblica ogni mese pagine autogestite (www.nonviolenti.org). Opera infine a livello locale con centri sociali, rete antirazzista, movimenti autoorganizzati, etc. Presidente dell'associazione e' Giancarla Codrignani. La sede nazionale e' attualmente: Lega obiettori di coscienza,, via Pichi 1, 20143 Milano, tel. 028378817 e 0258101226, fax 0258101220, e-mail: locosm at tin.it 5. RILETTURE. ALDO CAPITINI: SCRITTI SULLA NONVIOLENZA Aldo Capitini, Scritti sulla nonviolenza, Protagon, Perugia 1992, pp. 480. Nel primo volume delle opere scelte (un'edizione rimasta purtroppo interrotta) la raccolta dei principali scritti capitinani dedicati specificamente alla nonviolenza. 6. RILETTURE. JOHAN GALTUNG: GANDHI OGGI Johan Galtung, Gandhi oggi, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1987, pp. 184. Il prestigioso peace researcher analizza e propone la riflessione e l'azione di Gandhi come riferimento e risorsa per costruire oggi un'alternativa politica nonviolenta. Con una introduzione di Giuliano Pontara. 7. RILETTURE. BRIAN MARTIN: LA PIRAMIDE ROVESCIATA Brian Martin, La piramide rovesciata, La Meridiana, Molfetta (BA) 1990, pp. 308. Lo studioso nonviolento australiano propone in quest'opera un interessante ragionamento complessivo ed articolato per un'analisi e una strategia adeguate al fine di sradicare la guerra. 8. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 9. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org ; per contatti, la e-mail è: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: http://www.peacelink.it/users/mir . Per contatti: lucben at libero.it ; angelaebeppe at libero.it ; mir at peacelink.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it . Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 330 del 2 gennaio 2002
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