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La nonviolenza e' in cammino. 317
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 317
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it>
- Date: Wed, 19 Dec 2001 04:27:26 +0100
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 317 del 18 dicembre 2001 Sommario di questo numero: 1. Luisa Morgantini, si parte il 27 dicembre 2. Giuseppe Fava, i quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa 3. Convenzione permanente di donne contro le guerre: una proposta per l'otto per mille 4. Letture: Martin Luther King, "I have a dream" 5. Letture: Antonietta Potente, Gli amici e le amiche di Dio 6. Riletture: Luigi Ferrajoli, Diritto e ragione 7. Riletture: Italo Mancini, Filosofia della prassi 8. Da tradurre: Didier Eribon, Michel Foucault 9. Da tradurre: Roger Grenier, Albert Camus, soleil et ombre 10. La "Carta" del Movimento Nonviolento 11. Per saperne di piu' 1. INIZIATIVE. LUISA MORGANTINI: SI PARTE IL 27 DICEMBRE [Da Luisa Morgantini, parlamentare europea pacifista, riceviamo e diffondiamo. Per contatti: lmorgantini at europarl.eu.int] Ciao, si parte per le missioni civili in Palestina e Israele il 27 dicembre, resteremo fino al 3 gennaio, non sappiamo ancora esattamente quanti e quante saremo, per ora siamo piu' di cento raccolti dalla piattaforma "Action for peace" (ne fanno parte molte associazioni, ong, sindacati). Come sapete oltre che da me l'iniziativa e' seguita per le Donne in nero da Silvia Macchi (e' lei che si e' subita quasi tutte le riunioni preparatorie e - come lei dice - le mie indicazioni lapidarie), e da Anna Cotone, che per le Donne in nero risponde ad uno dei punti di raccolta per informazioni e iscrizioni alla partenza, altri sono Associazione per la Pace, ICS, Arci Milano. Il 28 dicembre la Coalizione delle Donne per la Pace di cui sono parte le Donne in Nero e altre organizzazioni israeliane e palestinesi, terra' una manifestazione a Gerusalemme per la fine dell'occupazione militare, per la pace, per vivere. Come e' ormai consuetudine, la Coalizione delle Donne per la pace chiede che in ogni citta' del mondo si tengano nello stesso giorno manifestazioni analoghe. A Gerusalemme la manifestazione iniziera' alle ore 10,30 e terminera' alle ore 15. Purtroppo non si andra' in corteo fino al check point di Betlemme ma si attraversera' solo la linea verde di Gerusalemme dell'occupazione del '67. In Italia le nostre saranno modalita' che ciascun gruppo decidera'. La manifestazione sara' di donne e uomini. Le delegazioni piu' numerose presenti in Palestina e Israele saranno di italiani, francesi, belgi, inglesi, vi sono poi in piccoli gruppi spagnoli, tedeschi, olandesi e nord americani. Se riuscite ad organizzare una iniziativa per il 28 dicembre vi prego di inviarmi una e-mail, anche nel caso che lo abbiate gia' comunicato a Gerusalemme, in modo da poter comunicare i nomi delle citta' che avranno iniziative. Martedi' 18 pomeriggio vi sara' un dibattito alla Camera dei Deputati in Italia sulla situazione in Medio -Oriente, sarebbe molto utile fare pressione urgenti sui parlamentari e i rappresentanti del governo perche' si chieda una decisione unilaterale (senza il consenso del governo di Israele visto che non lo dara' mai) per la presenza di forze internazionali di pace in Palestina e Israele. L' Europa e' quasi piu' responsabile degli Stati Uniti, visto che e' consapevole della situazione e non agisce come sarebbe necessario. Il giorno 12 a Strasburgo e' stato assegnato il premio Sakharov a Nurit Peled, israeliana, e Izzat Ghazzawi, palestinese, i loro interventi sono stati riportati integralmente su 'L'unita'" del 13 dicembre. Vedro' di inviarveli. Era stata una giornata straordinaria, parlamentari, uomini e donne, hanno persino pianto. Poi la risoluzione per quanto migliore di qualsiasi altra posizione assunta sul piano internazionale, ha risentito delle solite logiche politiche. Che tragedia! Ma noi, testarde e testardi, resistiamo e ripartiamo per la Palestina e Israele assumendoci le nostre responsabilita', lo stesso fara' chi di voi restera' qui ma sara' con noi. Mandate a dire delle inziative per il 28 dicembre o per altre. Io partiro' il 23 dIcembre, saro' a Natale a Betlemme. Il mio telefono in Palestina e' 00972-54-369917. Un abbraccio, forte forte. 2. TESTI. GIUSEPPE FAVA: I QUATTRO CAVALIERI DELL'APOCALISSE MAFIOSA [Quello che qui si ripubblica ancora una volta e' un indimenticabile articolo del grande giornalista e scrittore catanese Giuseppe Fava, I quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa, pubblicato originariamente nella rivista "I Siciliani", n. 1, nel gennaio 1983. Un anno dopo Giuseppe Fava fu assassinato dalla mafia. E', a nostro avviso, un testo di importanza fondamentale. E per molti motivi. E certo non e' casuale che esso col titolo La ballata dei cavalieri costituisca il capitolo finale e culminante dell'ultimo grande libro di Fava: Mafia. Da Giuliano a Dalla Chiesa, una sorta di vero e proprio testamento politico e morale che Fava lascia al movimento antimafia, e a tutte le donne e gli uomini di volonta' buona] Per parlare dei cavalieri di Catania e capire cosa essi effettivamente siano, protagonisti, comparse o semplicemente innocui e spaventati spettatori della grande tragedia mafiosa che sta facendo vacillare la nazione, bisogna prima avere perfettamente chiara la struttura della mafia negli anni ottanta, nei suoi tre livelli: gli uccisori, i pensatori, i politici. E per meglio intendere tutto bisogna prima capire e identificare le prede della mafia nel nostro tempo. Una breve storia, terribile e però mai annoiante, poiché continuamente vedremo balzare innanzi, come su un' immensa ribalta, tutti i personaggi. Ognuno a recitare se stesso (Pirandello è qui di casa) nel gioco delle parti. Negli anni ottanta le prede della mafia si dividono in due categorie perfettamente separate che trovano punti di contatto soltanto in alcune fatali complicità organizzative. L'una categoria raggruppa tutte le tradizionali vocazioni criminali volte al taglieggiamento dell'economia, i cosiddetti "racket", che controllano quasi tutte le attività economiche di una grande città: i mercati generali; le concessionarie di prodotti industriali, auto, elettrodomestici, televisori; negozi, teatri, alberghi, night; e su ogni attività impongono una taglia, una specie di tassa che l' operatore economico è costretto a pagare se non vuole correre il rischio di vede bruciare la propria azienda, o vedersi sciancato da alcune revolverate. In taluni casi d'essere ucciso. Si tratta di un giro di centinaia o migliaia di miliardi, però frantumati e dispersi in un'infinità di rivoli e canali. Un apparato mafioso che lentamente, inesorabilmente ha risalito la penisola inquinando anche le grandi città del nord, oramai da anni anch'esse violentate da sparatorie, stragi, violenze dalle quali emergono sempre volti e nomi di criminali emigrati dalla Sicilia, da Napoli, dalla Calabria. E' la mafia cosiddetta dei manovali, senza vertici, continuamente sconvolta da una battaglia interna per il predominio in un quartiere o un settore. Basta che un racket tenti di invadere il territorio di un altro, o cerchi di imporre estorsioni in un diverso settore economico, e lo scontro è fatale. Sempre mortale. Dura sei mesi, un anno, una fiamma di odio che insanguina un quartiere, a volte percorre anche il territorio della nazione da una grande città all'altra, Catania, Napoli, Milano, Torino, laddove i rackets in lotta cercano disperatamente alleanze e armi, spesso tra consanguinei, amici, parenti, fratelli. Una caratteristica di questa mafia è infatti la presenza costante della famiglia, cioè del rapporto di parentela fra molti membri dello stesso clan. Un giudice milanese ebbe a dire, forse senza nemmeno voler essere cinico: "Una buona famiglia meridionale all'antica, in cui sono ancora molto forti i sentimenti tradizionali della famiglia, può costruire un racket mafioso di tutto rispetto. E' più temuta!". Questo spiega anche talune agghiaccianti efferatezze dello scontro, vittime legate piedi e collo con un filo elettrico in modo che lo sventurato lentamente si autostrangoli, organi genitali resecati e infilati in bocca, teste mozzate e depositate dinnanzi all'uscio di casa. Una crudeltà che scaturisce dall'odio definitivo di chi ha visto cadere per mano avversa il padre, il figlio, il fratello. Lo scontro non ha possibilità di pace, di armistizio, nemmeno di compromesso e spesso dura mortalmente fino al fatale annientamento del clan avverso, dovunque abbia trovato scampo lo sconfitto o il superstite. La vendetta lo perseguiterà fino nella più profonda cella di carcere. E' la mafia che miete la quasi totalità delle vittime, centinaia, forse migliaia ogni anno in tutte le città della Sicilia e dell'Italia. Quasi tutte le vittime sono anch'esse creature criminali, o loro complici, talvolta anche avvocati, medici, funzionari, insospettabili burocrati o professionisti che in un modo o nell'altro si sono lasciati adescare e sottomettere da un racket mafioso. Al momento in cui quel racket entra in guerra cadono anche le loro teste. E' una malia che sembra animata da una tragica vocazione al suicidio e tuttavia continuamente si rinnova, una specie di fetida tenia oramai intanato nel ventre della nazione, dove si ingrassa, ininterrottamente divora se stesso e ricresce. Sociologicamente sarebbe forse più esatto definirlo gangsterismo ma, come ora vedremo, esso è però, mortalmente, indissolubilmente legato, proprio in un rapporto fra manovalanza e ingegneria, al grande fenomeno mafioso. E qui c'è il salto di qualità, diremmo di cultura criminale, fra le prede mafiose tradizionali di base, mercati, estorsioni, sequestri di persona e le nuove grandi prede che caratterizzano gli anni ottanta ed hanno fatto della mafia una autentica tragedia politica nazionale. Esse sono essenzialmente due: il denaro pubblico e la droga. Il distacco è vertiginoso. E' come se un grande corpo, un grande animale, lo Stato italiano, mai morto e continuamente in agonia, fosse divorato ancora da vivo. In basso c'è un brulicare orrendo di vermi insanguinati, in alto un rapace con il profilo misterioso e terribile dei mostri di Bosch, e gli artigli piantati nel cuore della vittima. Non riesco a trovare un paragone più amabile ed egualmente preciso. La droga anzitutto. Essa costituisce uno degli affari mondiali, come il petrolio o il mercato delle armi. La valutazione globale degli interessi che la droga coinvolge si può fare solo nell'ordine di decine di migliaia di miliardi. La contaminazione del vizio oramai è intercontinentale, dall'Asia all'Africa, all'Europa, alle due Americhe. I guadagni sono incalcolabili. Si calcola che ci siano al mondo circa cento milioni di persone, molte oramai tossicodipendenti, che fanno quotidianamente uso della droga, spendendo ciascuna in media (ma la valutazione forse è troppo esigua) circa diecimila lire al giorno. Sono mille miliardi. Quasi quattrocentomila miliardi l'anno. Una cifra che fa paura. Molto più alta del bilancio di una grande nazione industriale. I guadagni sono anch'essi incalcolabili. Secondo gli studi attuali un quantitativo di cocaina, acquistata alle fonti di produzione per poco più di un milione, dopo la raffinazione può valere sul mercato da due a tre miliardi, secondo la purezza del prodotto. E non basta la semplice e pur stupefacente valutazione economica per capire appieno la imponenza del fenomeno-droga su scala mondiale, un evento quotidiano che minaccia di deformare la società contemporanea. Ogni anno centomila esseri umani, per lo più giovani o addirittura adolescenti e ragazzi, muoiono per causa della droga; almeno nove o dieci milioni diventano irrecuperabili alla vita sociale, sia per la loro definitiva incapacità intellettuale o inettitudine fisica al lavoro, sia per la loro costante pericolosità, cioè la disponibilità a qualsiasi proposta criminale. Milioni di famiglie vengono praticamente distrutte poiché quasi sempre, accanto alla pietosa tragedia del ragazzo drogato, c'è la infelicità di un intero gruppo umano, i genitori, i fratelli, la moglie, per i quali il recupero -spesso impossibile- del congiunto diventa una costante di dolore e disperazione. La droga ha ammorbato oramai anche alcune istituzioni fondamentali della nostra società, la scuola, lo sport, le carceri, gli ospedali, che si stanno trasformando in luogo di autentico contagio. Punti fermi della grande struttura civile collettiva vengono così destabilizzati, ed è tutta la struttura che comincia a vacillare. La stessa lotta quotidiana a livello internazionale contro la droga, esige un prezzo che diventa sempre più insostenibile; migliaia di giornate lavorative perdute, migliaia di uomini, magistrati, studiosi, poliziotti, medici, mobilitati costantemente per arginare l'avanzata della droga; migliaia di miliardi spesi, talvolta sperperati, per tenere in vita ospedali, centri di emergenza, istituti e cliniche di recupero umano e sociale. E su tutto questo oceano, sporco e insanguinato di denaro, che scorre ininterrottamente da un continente all' altro, l'ombra invulnerabile della mafia. Da dieci anni la mafia tiene nel pugno l'immenso affare. Dapprima nelle grandi capitali del mercato, che erano soprattutto Beirut, Il Cairo, Istambul, la grande plaga del Medioriente, Marsiglia, New York, e ora definitivamente anche in Sicilia. L'isola è nel cuore del Mediterraneo e quindi passaggio obbligato per il cinquanta per cento dei traffici dall'area afroasiatica verso le grandi nazioni dell'occidente. Per qualche tempo in Sicilia la mafia si è limitata a controllare questo passaggio, garantendo punti di approdo e reimbarco, sicurezza e rapidità in qualsiasi operazione ed esigendo in cambio una tangente. La Fiat fabbrica automobili e le affida ai concessionari: ebbene la mafia pretende una tangente dai concessionari perché possano svolgere il lavoro senza rischi, ma la mafia non si sogna di sostituirsi alla Fiat per fabbricare automobili. Per anni, incredibilmente, la mafia si comportò allo stesso modo per la droga. Guardava, osservava, valutava, studiava, proteggeva, copriva, incassava la sua tangente, faceva i conti, cercava di capire perfettamente l'ingranaggio. Forse c'era una residua repugnanza morale (siamo in Sicilia dove ogni paradosso psicologico è possibile) verso un affare che era portatore di morte e dolore per un' infinità di esseri umani, soprattutto giovani. Ma anche senza complicità mafiosa la droga avrebbe viaggiato lo stesso per tutta la terra. E alla fine i calcoli furono perfetti e abbaglianti, e l'ultima repugnanza venne vinta. La mafia assunse in proprio il traffico, anche in Sicilia, e lo fece alla sua maniera, eliminando qualsiasi concorrente e aggiudicandosi tutto il ciclo completo di mercato: la ricerca alle fonti di produzione, la creazione di stabilimenti segreti per la raffinazione della droga e la spedizione nelle grandi capitali dell'occidente. In quell'attimo compì un salto di cultura criminale che avrebbe fatto tremare l'Italia. Migliaia, decine di migliaia di miliardi, una montagna, un fiume travolgente, una tempesta, un mare di denaro che arriva da tutte le parti, che si rinnova e cresce continuamente. Via via perfezionandosi negli anni, mettendo radici sempre più profonde, integrando gradualmente e infine totalmente anche camorra napoletana e 'ndrangheta calabrese, coinvolgendo definitivamente una massa di uomini sempre più vasta, la mafia ha creato una struttura criminale che, per le sue proporzioni e per il suo distacco da quella che è la logica comune, appare quasi un congegno di fantascienza. In verità molte componenti di questa struttura si sono determinate quasi per forza di cose, per la concatenazione fatale di un gioco d'interessi, ma c'è voluta indubbiamente una grande capacità di fantasia per intuire questa forza delle cose e questa concatenazione d'interessi e costruirle insieme in un perfetto mosaico. Va detto che la mafia del nostro tempo ha genio. Anche il demonio ha genio. Negarlo sarebbe diminuire il merito di Domineddio. Questa struttura ha tre livelli, indipendenti, talvolta quasi sconosciuti l' uno all'altro, eppure completamente fusi in un identico fenomeno. Cominciamo dal basso. Il livello più propriamente criminale: gli specialisti dell' assassinio. Centinaia di migliaia di miliardi abbiamo detto. Per gestire valori economici così imponenti, legati all'impunità della produzione e del traffico di migliaia di tonnellate di droga è indispensabile un controllo costente e totale del territorio di traffico. Non ci deve essere un ostacolo, un rischio, una trappola. E' necessaria quindi una folla di complicità dovunque, in ogni settore della società, criminali comuni, impiegati del fisco, piccoli armatori marittimi, dipendenti delle linee aeree, funzionari dello stato, probabilmente anche funzionari di polizia, magistrati, ufficiali di finanza, amministratori di enti locali, sindaci, assessori. Tutti costoro stanno al livello che abbiamo detto della manovalanza criminale, ognuno pagato e ricattato per suo conto, all'interno di un gruppo che garantisce il dominio di un piccolo territorio o quartiere della città. Solo alcuni di loro gestiscono la droga, ognuno però con piccoli compiti, avvolti, protetti, nascosti dal clan, ed ogni clan a sua volta con la funzione soltanto di garantire il territorio. Ogni tanto taluno di questi gruppo si scontra con un altro per il predominio su un territorio e allora accade l'ecatombe, trenta, quaranta assassinii finché un gruppo viene sterminato e la supremazia criminale affermata. La strage terrificante fra i clan catanesi dei Santapaola e dei Ferlito, conclusa con l'assassinio di Alfio Ferlito, assieme ai tre carabinieri che lo accompagnavano nel trasferimento dal carcere di Enna a quello di Trapani, rappresenta una delle battaglie più feroci per aggiudicarsi la supremazia in una grande area metropolitana. Gli spettacolari assassinii di Stefano Bontade e Gaetano Inzerillo a Palermo, epilogo spettacolare di una catena di cinquanta omicidi, sono stati un altro momento di questa lotta che ha visto la sanguinosa vittoria del clan dei Greco e dei Marchese. Ma anche i vincenti, i padroni del clan, sono poco più di subappaltatori dell'immenso palinsesto mafioso: governano l'impresa criminale su una zona, conoscono alcune segrete strade della corruzione, sono ammessi in alcune anticamere del potere. La loro autentica forza è la capacità di uccidere, disporre di trenta, quaranta individui che sanno maneggiare tutte le armi più micidiali e all'occorrenza poter contare sulla loro devozione e infallibilità. Capimastri, non di più! Governano la loro parte di cantiere ma non sono mai entrati nella stanza dei progetti. Molto più in alto dei cosiddetti uccisori c'è il livello dei pensatori, con la lontananza, il distacco di autorità che può esserci tra una fanteria alla quale è affidato soltanto il compito di conquistare, uccidere, presidiare, morire, e le stanze imperscrutabili dello Stato maggiore dove si elabora la grande strategia mafiosa. Scopo unico e massimo di questa strategia è la riciclazione del denaro continuamente prodotto dall'operazione droga, cioè la fase ultima e più delicata, quella appunto che esige una autentica capacità tecnica e finanziaria. Si tratta infatti di centinaia e migliaia di miliardi che, per essere immessi nel mercato economico e diventare usufruibili, debbono passare attraverso una serie di operazioni legali che li assorbano e magicamente li riproducano come ricchezza. Ci vuole talento, ci vuole fantasia, competenza tecnica. Non a caso abbiamo parlato di un salto nella cultura mafiosa. Gli strumenti essenziali sono due: le banche e le grandi imprese economiche. Anzitutto le banche: ricevono il denaro, lo fanno proprio, lo celano, lo amministrano, conservano, proteggono, reimpiegano (cento miliardi provenienti dalla droga, alle cui spalle sono decine di persone miseramente morte o uccise, e migliaia di infelicità umane, possono essere impiegati per la costruzione di un grattacielo, un ponte, una diga, un'autostrada). Le banche gestite e controllate dallo stato difficilmente potrebbero (ma non è detto che non possano) poiché c'è sempre il rischio di un funzionario di vertice che indaga, spia, riferisce, protesta, accusa. Le banche private. Talune banche private ovviamente. Non a caso Sindona aveva la vocazione di creare banche, ne aveva l'estro, la fantasia. Il giorno in cui dovesse decidere di raccontare finalmente tutta la verità, molti imperi finanziari vacillerebbero. E in realtà Sindona, invecchiato, gracile, stanco, terrorizzato, preferisce starsene in un tiepido carcere americano. All'aria aperta, in libertà, non avrebbe certamente più di un giorno di vita! Per decifrare perfettamente la tragedia mafiosa sarebbe interessante sapere appunto quante banche e quali banche con il suo vertiginoso talento, per cui riusciva a sconvolgere persino gli alti burocrati della Banca d'Italia, Michele Sindona, piccolo ragioniere di provincia, riuscì in meno di quindici anni a creare in tutta Italia e soprattutto in Sicilia. Banche che fiorivano, si moltiplicavano, esplodevano letteralmente nelle grandi città e nei centri di periferia dove per gestire gli affari economici, i micragnosi affari della piccola borghesia commerciale e agricola sarebbe stata già d' avanzo un'agenzia del Banco di Sicilia. Banche invece che spalancavano di colpo i battenti: «Eccomi qua, io sono la nuova banca! A disposizione!», tutto l'apparato già pronto, direttori, impiegati, casseforti, banchi di metallo, sistemi elettronici, computerizzazione, vetri antiproiettile, uscieri, gorilla con la divisa di sceriffo e la Smith Wesson, epiche cerimonie inaugurali con interventi di parlamentari, sottosegretari, ministri, questori, prefetti, «Taglia il nastro la gentile signora di sua eccellenza», fiori, applausi, banchetto, champagne, capitali già depositati nelle casseforti. Quante di queste banche furono inventate da Sindona, con i capitali di Sindona e che Sindona riceveva da imperscrutabili fonti? Un incauto giudice milanese dette incarico a un famoso commercialista, l'avvocato Ambrosoli, di venire a Palermo per indagare, capire. Era un professionista principe ma molto ingenuo. Praticamente lo condannarono a morte. Prima ancora che potesse venire in Sicilia gli fecero la pelle. Da allora non ha tentato più nessuno. In verità c'era stato un primo lontanissimo botto che avrebbe dovuto far trasalire la nazione e invece parve soprattutto una cosa da ridere: quando un cocciuto magistrato palermitano scoprì che il senatore democristiano Verzotto, per anni segretario regionale del partito e presidente dell'Ente minerario siciliano aveva versato centinaia di milioni di fondi neri e diversi miliardi dello stesso ente minerario presso la filiale di una delle banche di Sindona e ne percepiva clandestinamente gli interessi. Che la vicenda avesse indotto più all'ironia che allo spavento, dipese probabilmente dalla sagoma del protagonista, il nominato senatore Verzotto. Alto, imponente, ridente, capelli grigi, taglio impeccabile del vestito, grande sigaro in bocca, cappotto di pelo di cammello svolazzante sulle spalle, sembrava anche visivamente il personaggio perfetto per una pochade politica più che per una tragedia mafiosa. Invece fin d'allora si sarebbe dovuto intuire da quali altre e ben più profonde oscurità arrivavano i capitali per le banche di Sindona e dei suoi alleati, e come esse servissero soprattutto alla riciclazione di una massa enorme di denaro che non si sarebbe potuta altrimenti impiegare. Lo spiraglio aperto da un giudice coraggioso e tenace avrebbe dovuto spalancare la strada invece esso venne precipitosamente sbarrato. Incredibilmente nemmeno ai vertici della banca di stato, che dovrebbe controllare tutto il movimento del denaro sul territorio nazionale, valutandone origini e destinazione, venne presa alcuna iniziativa sulle banche che stavano proliferando nel sud. Nemmeno il governo del tempo ed i ministri finanziari batterono ciglio. Tutti arretrarono di qualche passo per prendere le distanze, a spintoni e calci venne fatto avanzare il solo tuonitonante Verzotto, il quale infatti rimase solo alla ribalta, perché l'opinione pubblica potesse farci in conclusione una bella risata di scherno. Verzotto veniva dalla scuola di Enrico Mattei, il più sottile cervello politico italiano del dopoguerra, ma non gli rassomigliava in niente; quanto quello era ansimante, frettoloso, sciatto, ruvido ma geniale, tanto Verzotto era invece calmo, opimo, quasi regale, elegante cortese e, probabilmente, anche un po' minchione. Per la magniloquenza del suo tratto era uno di quei personaggi capaci di procurare grandi catastrofi con perfetta noncuranza e senza probabilmente rendersene conto. Tuttavia dal suo esilio di Beirut, dove ebbe l'agilità di scappare una settimana prima dell'ordine di cattura, disse una cosa significativa: «Come potete pensare che io vada a sporcarmi le mani per un semplice affare di poche centinaia di milioni di interessi, quando in una banca si possono manovrare invece interessi per centinaia di miliardi!». Tutti pensarono alla malinconica battuta di uno sconfitto. Del senatore Verzotto si sono perdute le tracce. Anzitutto banche, dunque! Talune banche, naturalmente. Che noi non conosciamo e che però il potere politico e i vertici finanziari dello stato dovrebbero ben conoscere. Ma le banche possono ricevere il denaro nero, sotterrarlo nei propri forzieri, nasconderlo, mimetizzarlo, far perdere le tracce della sua provenienza, cioè reinvestirlo e così purificarlo, ma non possono certo condurre in proprio le operazioni tecniche di investimento. Qualcuno deve farlo. Accanto alle banche ecco dunque le grandi imprese industriali e commerciali che, opportunamente, saggiamente, prudentemente, garbatamente, silenziosamente amabilmente finanziate, possono riuscire ad impiegare quei capitali, trasformandoli in opere di sicuro valore economico. E non è detto che non siano opere di mirabile importanza e perfezione civile: un moderno ospedale, un carcere modello, una città-giardino, un complesso sportivo, persino una nuova chiesa. E qui sul palcoscenico avanzano, quasi a passo di danza, i quattro cavalieri catanesi. Dopo quello che è accaduto, vien facile perfino la citazione: «I quattro cavalieri dell'Apocalisse». L'Italia è uno strano paese in cui si sperimentano bizzarre onorificenze, per le quali cavaliere del lavoro invece di essere un bracciante, anche analfabeta, che per trent'anni si è spaccata la vita in una miniera tedesca pur di riuscire a costruirsi una casa a Palma di Montechiaro, è invece un appaltatore che riesce a trovare fantasia e modo di moltiplicare la sua ricchezza. Tutto questo in un paese dove la gestione e la moltiplicazione della ricchezza, la grande fortuna economica o finanziaria, per struttura stessa della società politica, deve fatalmente passare attraverso un compromesso costante con il potere, con i partiti che sostanzialmente amministrano la nazione, con gli uomini politici o gli altissimi burocrati ai quali i partiti delegano praticamente tale funzione, lo spirito di nuove leggi e decreti, la scelta delle opere pubbliche, l' assegnazione degli appalti. Chi afferma il contrario è candidamente fuori dal mondo oppure è un amabile imbecille. A questo punto della storia dunque avanzano sul palcoscenico i quattro cavalieri di Catania, loro avanti di un passo e dietro una piccola folla di aspiranti cavalieri di ogni provincia del Sud, affabulatori, consiglieri, soci in affari, subappaltatori. Chi sono i quattro cavalieri di Catania? E' una domanda importante ed anche spettacolare poiché i quattro personaggi sembrano disegnati apposta per costituire spettacolo. Profondamente dissimili l'uno dall'altro, nell'aspetto fisico e nel carattere. Costanzo massiccio e sprezzante, Rendo improvvisamente amabile e improvvisamente collerico, Finocchiaro soave, silenzioso e apparentemente timido, Graci piccolino e indefettibilmente gentile con qualsiasi interlocutore, vestono però tutti alla stessa maniera, almeno nelle apparizioni ufficiali, abito grigio o blu anni cinquanta, cravatta, polsini, di quella eleganza senza moda proprio dell'industriale self-made-man. Tutti e quattro hanno imprese, aziende, interessi in tutte le direzioni, industrie, agricoltura, edilizia, costruzioni. Non si sa di loro chi sia il più ricco, a giudicare dalle tasse che paga sarebbe Rendo, ma altri dicono sia invece Costanzo, il più prepotente, l'unico che abbia osato pretendere e ottenere un gigantesco appalto a Palermo; altri ancora indicano Graci, proprietario di una banca che, per capitali, è il terzo istituto della regione. La ricchezza di Finocchiaro non è valutabile. Molti ancora si chiedono: ma chi è questo Finocchiaro. Costanzo costruisce di tutto. Case popolari, palazzi, villaggi turistici (la Perla Jonica, sulla costa di Catania, ha nel suo centro un palazzo dei congressi che non esiste nemmeno a Roma, i partecipanti al congresso nazionale dei magistrati in cui era appunto all'ordine del giorno la lotta contro la mafia, improvvisamente si accorsero di essere riuniti e di lavorare in uno dei templi del potere di Costanzo). Costanzo costruisce anche autostrade, ponti, gallerie, dighe; e possiede anche le industrie necessarie a produrre tutto quello che serve alle costruzioni: travature metalliche, macchine, tondini di ferro, precompressi in cemento, infissi in alluminio, tegole, attrezzature sanitarie. Un impero economico autonomo che non deve chiedere niente a nessuno. Poche aziende in Europa reggono il confronto per completezza di struttura. Ha un buon pacchetto di azioni in una delle più diffuse emittenti televisive private. E' anche presidente e maggiore azionista della Banca popolare. Rendo ha interessi più diversificati, diremmo più moderni, almeno culturalmente la sua azienda sembra un gradino più in alto. Anche lui costruisce case, palazzi, ponti, autostrade, dighe, ma possiede anche aziende agricole modello che guardano con estrema attenzione agli sviluppi del mercato europeo e alle ultime innovazioni tecniche. Ha un suo piccolo fiore all'occhiello, una fondazione culturale che destina fondi alla ricerca scientifica a livello universitario. Quanto meno ha capito che i soldi non possono servire soltanto a produrre altri soldi. La sede della holding è il ritratto stesso dell'azienda, una serie di palazzi di acciaio, alluminio e metallo, l'uno legato all'altro, sulla cima di una collina alle spalle di Catania, una immensa sagoma grigia e azzurra, come tre palazzi della RAI di via Mazzini, incastrati insieme, e circondati da un immenso giardino al quale si accede soltanto per un ingresso sorvegliato da uomini armati. Sembra il passaggio di un confine. Anche Rendo naturalmente ha la sua televisione privata con la quale garbatamente interviene nella informazione della pubblica opinione. Ricordiamoci che Andropov, l'uomo nuovo del Cremlino successore di Breznev, è riuscito ad arrivare al vertice dell' impero sovietico poiché, mentre era a capo dei servizi segreti inventò l' ufficio della disinformazione, specializzato nel confondere la realtà. Si tratta di una scienza ammessa al massimo livello politico. L'impero di Graci non ha sede. Cuore e cervello motore di tutte le iniziative è probabilmente la Banca agricola etnea, di sua proprietà. Per il resto Graci è pressoché invisibile. Amico di Gullotti e di Lauricella, vive gran parte del suo tempo a Roma, dove studia, coordina, dirige. Fra tutti è quello che ha la più vasta copia di interessi, cantieri di costruzione in ogni parte dell'isola e dell'Italia, aziende agricole, villaggi turistici, immense estensioni di terra dappertutto. Negli ultimi tempi la sua predilezione sono i grandi alberghi di fama internazionale: il suo più recente acquisto l'hotel Timeo, sulla collina di Taormina, a ridosso del Teatro Greco, uno degli alberghi più belli del Mediterraneo, arredato in stile inglese primo novecento. Pare abbia acquistato dal duca di Misterbianco (sembra una storia del Gattopardo, raccontata cento anni dopo) il famoso lido dei Ciclopi, il più prezioso giardino equatoriale, ricco di piante esotiche che non hanno eguali in Europa e che per quarant'anni nessuno ha osato sottrarre alla sua destinazione balneare. Di tutti i cavalieri del lavoro Graci, che fino a qualche anno fa era sconosciuto a Catania, e il più riservato, raramente compare in prima persona. Possiede anche lui la maggioranza azionaria di un'emittente privata e di un giornale quotidiano, ma il suo nome non figura nei rispettivi consigli di amministrazione. Narrano anche della sua generosità. Ogni tanto organizza per i suoi amici mitiche partite di caccia in uno dei suoi feudi siciliani! Possiede anche una favolosa cantina di vini pregiati ai quali sono ammessi soltanto gli amici di vertice. Finocchiaro sembra il cavaliere meno forte. L'ultimo arrivato dei quattro al rango di massima potenza. Costruisce soltanto, e quasi sempre solo palazzi. Ha però una sua regola: efficiente, preciso, puntuale, rapido, i suoi appalti sono stati sempre terminati a tempo di record. In meno di due anni ha costruito il nuovo palazzo della Posta ferroviaria, un gigantesco edificio moderno sul lungomare di Catania, accanto alla stazione, e la nuova Pretura, altro massiccio edificio incastrato proprio nel cuore della città, a cento metri dal palazzo di Giustizia. Poiché la Pretura di Catania convoglia quotidianamente gli interessi di migliaia di persone, non appena il nuovo edificio entrerà in funzione, il traffico di tutta quella zona essenziale della vita cittadina, resterà probabilmente paralizzato. Esempio di come possa essere nefanda un'opera pubblica pur perfettamente realizzata. Finocchiaro infine è anche il più lezioso. La sede della sua impresa sorge sulla litoranea fra Catania e i Ciclopi, in uno dei tratti più splendidi della riviera, una grande villa, in verità bellissima, sovrastata e circondata dal verde e da una serie di piscine intercomunicanti, sicché, una levissima massa d'acqua si muove ininterrottamente dalle terrazze ai patii. La gente passa, guarda e s'incanta. Questi, almeno dal punto di vista dello spettacolo, i quattro cavalieri di Catania. Ma chi sono in verità? Perseguiti dalla magistratura con mandati di cattura e ordini di comparizione, alcuni sospettati di gigantesche frodi fiscali e addirittura di associazione a delinquere, assediati dalla guardia di finanza che sta frugando in tutti i loro conti, rifiutati dalla pubblica opinione, soprattutto dai più poveri e sfortunati i quali non riescono mai ad amare le fortune troppo rapide e sprezzanti, ed al momento in cui le vedono crollare hanno un momento di trasalimento di felicità e un grido: «Lo sapevo!», i quattro cavalieri sono nell'occhio del ciclone, in mezzo al quale sta immobile e sanguinoso l'assassinio del prefetto Dalla Chiesa, la più feroce e tragica sfida portata dalla mafia all'intera nazione. Chi sono dunque i quattro cavalieri? Quale il loro ruolo in questo autentico tempo di apocalisse? Già il fatto che questi quattro personaggi si siano riuniti insieme per discutere e decidere il destino futuro dell' imprenditoria e quindi praticamente dell'economia di mezza Sicilia e stiano lì segretamente, due più due quattro, seduti l'uno in faccia all'altro, a valutare, soppesare, scartare, annettere, distribuire, in una sala che è facile immaginare di gelido vetro e metallo, inaccessibile a tutti, nel cuore segreto dell'impero Rendo, con decine di uomini armati dislocati ad ogni ingresso del palazzo; e che al termine del convegno uno di loro, Costanzo, il più plateale, chiaramente tuttavia portavoce di tutti e infatti mai smentito, dichiari spavaldamente al massimo giornale italiano: «Abbiamo deciso di aggiudicarci tutte le operazioni e gli appalti più importanti, quelli per decine o centinaia di miliardi, lasciando agli altri solo i piccoli affari di due o tre miliardi, tanto perché possano campare anche loro!»; e che tutti e quattro siano giudiziariamente accusati di evasioni per decine o forse centinaia di miliardi, tutto denaro pubblico, quindi appartenente anche al maestro elementare, al piccolo artigiano, al contadino, al manovale, all'impiegato di gruppo C, all'emigrante, poveri innumerevoli italiani che sputano sangue per sopravvivere e spesso maledettamente nemmeno ci riescono; e che taluni di loro siano stati amici del bancarottiere Michele Sindona, o del boss Santapaola, ricercato per l' omicidio di Dalla Chiesa, o del clan Ferlito il cui capo venne trucidato insieme a tre poveri carabinieri di scorta: ebbene tutto questo non corrisponde all'immagine, secondo costituzione, di cavalieri della repubblica. Ma non è questo il punto. Il quesito è un altro, ben più duro e drammatico: i quattro cavalieri, o taluno di loro, e chi per loro, stanno in quel massimo e misterioso livello che fa la storia della mafia? A questa domanda si possono dare tre risposte secondo tre diverse prospettive: quello che appare, quello che la gente pensa, e quello che probabilmente è vero. Quello che appare è ciò che abbiamo descritto, cioè di quattro potenti di colpo sospinti nel cuore di una tempesta politica, inquisiti fiscalmente e giudiziariamente per possibili e gravi delitti. Solo il magistrato potrà dire una verità che può essere tutto e il contrario di tutto. Quello che la gente pensa è più brutale, e cioè che i cavalieri di Catania, o taluno di loro, partecipano alla grande impresa mafiosa e furono loro a impartire l'ordine di uccidere Dalla Chiesa, appena il generale osò chiedere allo stato gli strumenti legali per rovistare nei loro imperi economici. Ma quello che pensa la gente (e che anche tutti i grandi giornali, con perigliose acrobazie di linguaggio hanno dovuto riferire) non può avere alcun valore giuridico e nemmeno morale, poiché può nascere da pensieri spesso mediocri, rancori sociali, invidie umane. Non ci sono prove e quindi fino ad oggi non esiste! Infine quello che probabilmente è: cioè di quattro personaggi i quali, con superiore astuzia, temerarietà, saggezza, intraprendenza, hanno saputo perfettamente capire i vuoti e i pieni della struttura sociale italiana del nostro tempo e della classe politica che la governa, ed essere più rapidi e decisi nel trarne i vantaggi. Enrico Mattei era maestro in questa arte. Anche Agnelli deve essere più rapido e deciso dei concorrenti. Il rapporto con la mafia è stato agnostico: noi facciamo i nostri affari, voi fate i vostri! Noi vogliamo costruire strade, palazzi, ponti, dighe, essere proprietari di banche e aziende agricole, ottenere gli appalti delle opere pubbliche. Questo è affar nostro. Voi volete gestire la droga! Affar vostro! E pretendete anche i subappalti per i lavori di scavo e trasporto! Che sia! Però non vogliamo bombe nei nostri cantieri, nemmeno estorsioni, nemmeno che i nostri figli, parenti, fratelli, amici, possano essere rapiti o sequestrati. Se così è, tutto questo non è morale, ma non è nemmeno reato! E purtroppo non è nemmeno una vera risposta in un momento storico terribile in cui la tragedia mafiosa non abbisogna di ipotesi ma di verità definitive, anche se agghiaccianti. Esiste infatti una realtà innegabile: perché la mafia possa amministrare le sue migliaia di miliardi, debbono pur esserci imprese private ed istituti pubblici, uomini d'affari o di politica capaci di garantire l'impiego e la purificazione di quell'ininterrotto fiume di denaro. La nazione ha finalmente il diritto di identificarli! E la Sicilia il diritto di non essere data in olocausto alla incapacità dello stato (o peggio) di identificarli. Esiste oltretutto una realtà che è anche un fatto morale e politico di cui bisogna onestamente parlare. Da decenni, forse da secoli, la società siciliana non ha avuto una imprenditoria capace di esprimere le sue esigenze e metterle al passo con la tecnica e la civiltà.Venivano tutti da nord, prendevano il denaro e il territorio, costruivano e se ne andavano. Spesso costruivano male. Talvolta le loro opere erano autentiche rapine o devastazioni o truffe. Il saccheggio del golfo di Augusta e l'avvelenamento di centomila abitanti di quel territorio con gli scarichi petrolchimici costituirono una di queste grandi imprese. I giganteschi ruderi industriali nel golfo di Termini Imerese, stabilimenti che non hanno mai funzionato e che hanno divorato migliaia di miliardi della regione, rappresentano un'altra impresa. In tutto quello che è stato costruito in Sicilia, i siciliani sono stati al più subappaltatori (se possibile anche mafiosi) o soltanto miserabile manodopera. Erano poveri, ignoranti, disponibili, costavano poco, non si ribellavano mai. I colossi petrolchimici della Rasiom furono costruiti con migliaia di pecorai e braccianti trasformati in manovali. La Sicilia è stata sempre una terra tecnodipendente. Improvvisamente, nell'ultimo ventennio, sono emersi questi cavalieri del lavoro (non soltanto questi quattro), rapaci, temerari, prepotenti, aggressivi, qualcuno anche grossolano e ignorante, però dotati di fantasia, di straordinarie capacità industriali e tecniche, e di talento, precisione, velocità. Hanno realizzato opere pubbliche a tempo di record, hanno creato aziende e tecnici di altissima specializzazione, incorporato in questa grande macchina di lavoro decine di migliaia di altri siciliani, e la loro intraprendenza si spinge oramai su tutto il territorio nazionale, in Europa, in Africa, nel Sud America. La loro concorrenza è spietata. Molte grandi aziende del nord non solo hanno perduto il loro tradizionale feudo meridionale, ma si vedono insidiati nel loro stesso territorio. Bene, la tragedia mafiosa certamente ha offerto la possibilità di una controffensiva su tutto il fronte, una specie di santa inquisizione. Il tentativo di stabilire un rapporto di colonizzazione è chiaro. Allora a questo punto il discorso è già perfetto. Se tutti i cavalieri di Catania e di Sicilia, tutta l'imprenditoria dell'isola fa parte della struttura mafiosa, che la si sradichi e distrugga con tutti i mezzi della giustizia. Se solo alcuni di loro sono dentro la mafia, allora bisogna colpire soltanto loro, implacabilmente, eliminandoli dalla società, e rilasciando così agli altri, ai superstiti, una possibilità politica e morale di continuare l'opera di evoluzione tecnica che per molti versi stava trasformando la Sicilia. Colpire tutti, anche gli innocenti, equivale a non colpire nessuno, lasciando quindi i mafiosi nel loro ruolo; significa egualmente il trionfo della mafia. La mafia che finalmente si identifica con lo stato! Ed è qui che entra in gioco l'ultimo livello della struttura, l' imperscrutabile vertice che finora ha paralizzato la giustizia. Riguardiamola questa struttura. In basso la sterminata folla di manovali che si contendono il sottobosco del potere criminale, tutte le infinite cose dal le quali può nascere ricchezza: i mercati, le concessioni, i subappalti, le estorsioni, una moltitudine confusa e terribile che appesta e insanguina quasi tutte le funzioni della società sottomettendo le province, le città, i quartieri. Più in alto, molto più in alto, i due livelli paralleli, i grandi, insospettabili finanzieri e operatori che gestiscono migliaia di miliardi della droga; le banche che ricevono, nascondono e riciclano quella massa infame e infinita di denaro; le grandi holding siciliane, romane, milanesi, che assorbono quel denaro e lo trasformano in ammirabili operazioni pubbliche e private. Manca l'ultimo livello, il più alto di tutti, senza il quale gli altri non avrebbero possibilità di esistere. Il potere politico! Vi racconto una piccola atroce storia per capire quale possa essere la posizione del potere politico dentro una vicenda mafiosa, una storia vecchia di alcuni anni fa e che oggi non avrebbe senso e che tuttavia in un certo modo interpreta tut'oggi il senso politico della mafia. Nel paese di Camporeale, provincia di Palermo, nel cuore della Sicilia, assediato da tutta la mafia della provincia palermitana c'è un sindaco democristiano, un democristiano onesto, di nome Pasquale Almerico, il quale essendo anche segretario comunale della Dc, rifiutò la tessera di iscrizione al partito ad un patriarca mafioso, chiamato Vanni Sacco ed a tutti i suoi amici, clienti, alleati e complici. Quattrocento persone. Quattrocento tessere. Sarebbe stato un trionfo politico del partito, in una zona fin allora feudo di liberali e monarchici, ma il sindaco Almerico sapeva che quei quattrocento nuovi tesserati si sarebbero impadroniti della maggioranza ed avrebbero saccheggiato il comune. Con un gesto di temeraria dignità rifiutò le tessere. Respinti dal sindaco, i mafiosi ripresentarono allora domanda alla segreteria provinciale della Dc, retta in quel tempo dall'ancora giovanile Giovanni Gioia, il quale impose al sindaco Almerico di accogliere quelle quattrocento richieste di iscrizione, ma il sindaco Almerico, che era medico di paese, un galantuomo che credeva nella Dc come ideale di governo politico, ed era infine anche un uomo con i coglioni, rispose ancora di no. Allora i postulanti gli fecero semplicemente sapere che se non avesse ceduto, lo avrebbero ucciso, e il sindaco Almerico medico galantuomo, sempre convinto che la Dc fosse soprattutto un ideale, rifiutò ancora. La segreteria provinciale si incazzò, sospese dal partito il sindaco Almerico e concesse quelle quattrocento tessere. Il sindaco Pasquale Almerico cominciò a vivere in attesa della morte. Scrisse un memoriale, indirizzato alla segreteria provinciale e nazionale del partito denunciando quello che accadeva e indicando persino i nomi dei suoi probabili assassini. E continuò a vivere nell'attesa della morte. Solo, abbandonato da tutti. Nessuno gli dette retta, lo ritennero un pazzo visionario che voleva solo continuare a comandare da solo la città emarginando forze politiche nuove e moderne. Talvolta lo accompagnavano per strada alcuni amici armati per proteggerlo. Poi anche gli amici scomparvero. Una sera di ottobre mentre Pasquale Almerico usciva dal municipio, si spensero tutte le luci di Camporeale e da tre punti opposti della piazza si cominciò a sparare contro quella povera ombra solitaria. Cinquantadue proiettili di mitra, due scariche di lupara. Il sindaco Pasquale Almerico venne divelto, sfigurato, ucciso e i mafiosi divennero i padroni di Camporeale. Pasquale Almerico, per anni, anche negli ambienti ufficiali del partito venne considerato un pazzo alla memoria. E' una storia oramai lontana e dimenticata, nella quale erano in gioco soltanto quattrocento voti di preferenza: una piccola storia però perfetta come un teorema poiché spiega come può il potere politico gestire la vicenda mafiosa e starci da protagonista. E come ancora oggi negli anni '80, al vertice di ogni livello di mafia stia immobile e inalterabile una parte del potere politico. Il potere politico che è misterioso sempre e mai perfettamente identificabile, spesso nemmeno perseguibile dalla giustizia che ha nelle mani tutti gli strumenti, positivi e negativi della potenza: dovrebbe proteggere ecologicamente un territorio e invece lo abbandona alla morte chimica o alla speculazione selvaggia; già da dieci anni avrebbe dovuto abolire il segreto bancario e non lo ha mai fatto; dovrebbe emarginare gli uomini corrotti, ignoranti, violenti e viceversa li conduce talvolta in parlamento e gli affida uffici ministeriali onnipotenti; dovrebbe garantire la regolarità dei concorsi e invece assedia le commissioni di esame con raccomandazioni e violenze morali; dovrebbe costruire una diga in quella provincia e invece costruisce un villaggio turistico in un'altra; dovrebbe smantellare determinati uffici di procura e invece li abbandona nelle mani di giudici inerti, paurosi, o peggio. Il potere politico che nasconde, protegge, mimetizza, informa, contratta, archivia. Il potere politico che stabilisce la spesa di migliaia di miliardi per opere pubbliche, determina l'ubicazione e consistenza delle opere, ne affida gli appalti. Il presidente della regione Pier Santi Mattarella, anche lui democristiano onesto, venne ucciso perché aveva deciso di spendere onestamente i mille miliardi della legge speciale per il risanamento di Palermo. Quasi certamente fra coloro che assistettero commossi ai funerali, espressero sincere condoglianze, e baciarono la mano alla vedova, c'erano i suoi assassini. Probabilmente gli stessi che avevano seguito dolorosamente i funerali del vice questore Boris Giuliano, del giudice istruttore Cesare Terranova, del procuratore della repubblica Gaetano Costa, del segretario comunista Pio La Torre. Tutti e quattro assassinati poiché stavano già scoprendo i punti di sutura fra politica e mafia. Anche il generale Dalla Chiesa aveva capito. Era uno sbirro nel senso eccellente della parola. Non dimentichiamo che aveva presentato domanda di iscrizione alla P2. La domanda non era stata accettata poiché Gelli aveva fiutato l'infido e cercato di prendere tempo. E lo stesso Dalla Chiesa ebbe poi a giustificarsi affermando di aver compiuto quella oscura mossa personale per scoprire alcune verità politiche all'interno della loggia massonica segreta. Quanto potesse essere sincero lo seppe soltanto lui. Certo era un uomo che da tempo aveva intuito la connessione fra potere politico, ricchezza e violenza. La lunga e atroce lotta contro le BR gli aveva fornito preziosi elementi di prova, ed altri ne aveva acquisiti in centinaia di interrogatori. Si stava disegnando una sua mappa dell'occulto. Quando arrivò a Palermo con la carica di superprefetto, i vertici criminali sapevano perfettamente di avere di fronte l'avversario più duro e cosciente. Rispetto agli altri che erano caduti prima di lui, egli aveva in più un prestigio mitico, ma soprattutto stava per avere in pugno gli strumenti giuridici, le armi decisive per condurre la lotta fino in fondo: quei superpoteri che incredibilmente (un giorno bisognerà pur riscriverla perfettamente questa storia) lo Stato continuava a negargli e che tuttavia alla fine avrebbe dovuto concedergli. Dalla Chiesa commise un solo errore. Di vanità. In fondo egli restava un militare e quindi soprattutto un retore. Gli piaceva trasformare qualsiasi lotta in guerra aperta, con tutte le vanaglorie del combattimento: bandiere, tamburi, proclami, applausi, dimostrazioni di amore popolare. Tutto questo contro un avversario che era sempre sottoterra, un gelido, sinistro groviglio di serpenti che potevano essere dovunque, in ogni momento sotto i suoi piedi, che potevano sedere accanto a lui sul palco di una festa nazionale, stringergli la mano, fargli auguri e congratulazioni. Seguire poi tristemente il suo funerale, come poi certamente accadde. La guerra contro un tale nemico è oscura e senza gloria, e infinitamente più terribile di ogni altra, non si può vincere in una serie infinita di scaramucce, poiché i serpenti restano dovunque, muoiono e si moltiplicano, ma bisogna vincerla in una volta sola, una sola battaglia, preparata con paziente perfezione in ogni dettaglio. Invece il generale Dalla Chiesa faceva discorsi, rilasciava interviste, invocava, accusava, era l'unico personaggio italiano che poteva chiedere ed ottenere i poteri speciali, e quindi anche la facoltà di indagini nelle banche e nei patrimoni privati, e lo fece sapere a tutti: praticamente come se dicesse a tutti, gridasse: "So chi siete, da un momento all'altro vi strapperò la maschera! Fate presto a uccidermi o non avrete tempo!" E come tutti i retori era anche ingenuo. Avrebbe dovuto preparare la battaglia, chiuso in un bunker, protetto da cento carabinieri e da ogni diavoleria elettronica, e invece viaggiava su una macchinetta con la giovane moglie accanto e solo un povero agente di scorta. Proprio questo poveraccio avrebbe dovuto rifiutarsi: "Generale, io così con lei non viaggio!" Ma Dalla Chiesa era un mito! Infatti lo uccisero con una facilità irrisoria, a colpo sicuro, (se è vero quello che finora ha detto la magistratura) con due rozzi killer, proprio manovali della mafia fatti venire da un'altra provincia della Sicilia e addirittura dalla Calabria. Dalla Chiesa morì, ma il suo colpo tremendo l'aveva già vibrato, forse proprio con la sua ingenua retorica, indicando con discorsi e proclami a tutta la nazione, clamorosamente, quello che tanti altri ministri, anche altissimi ufficiali e magistrati, sapevano e però non dicevano, cioè dov' era il groviglio dei serpenti, e quali dunque i mezzi per portarli allo scoperto e schiacciarli. 3. PROPOSTE. CONVENZIONE PERMANENTE DI DONNE CONTRO LE GUERRE: UNA PROPOSTA PER L'OTTO PER MILLE [La terza assemblea nazionale della Convenzione permanente di donne contro le guerre, svoltasi a Lodi il 18 novembre, ha lanciato la proposta di chiedere a favore dell'associazionismo politico femminile una quota dedotta dal gettito fiscale attraverso la dichiarazione dei redditi. Riprendiamo il testo dal sito de "Il paese delle donne", www.womenews.net] In nome del nostro diritto di cittadinanza, dopo che il parlamento, avendo approvato all'unanimita' la raccomandazione delle Nazioni Unite di riservare alle donne una quota di mandati parlamentari, in modo transitorio, fino a che non si sia raggiunto stabilmente un certo riequilibrio della rappresentanza tra i generi, ha annullato le quote; dopo che la proposta di destinare obbligatoriamente una quota del 5% del finanziamento dei partiti alle donne iscritte non e' stata attuata; dopo che la rappresentanza e' sempre piu' ridotta. Siamo contribuenti e la nostra possibilita' di espressione politica e' molto vulnerata da cio' e dalla non considerazione del fatto che le donne hanno ovviamente il diritto di associarsi e anche il diritto di associarsi come meglio credono. Per poter esercitare la cittadinanza nelle sedi rappresentative e svolgere quella attivita' politica autonoma, che ne e' la premessa, noi chiediamo che una quota del gettito fiscale possa essere indirizzata dalle e dai contribuenti all'associazionismo politico delle donne. Oggi questo non incontra soverchie difficolta' dato che il movimento delle donne si riaggrega in una serie di soggetti non numerosa, e cio' consente piu' facilmente di mettere in piedi una sede che raccolga il gettito destinato e lo distribuisca alle associazioni organizzazioni soggetti costituiti, secondo criteri chiaramente definiti o per progetti. Esistono infatti La Marcia mondiale delle donne e la Convenzione permanente di donne contro le guerre, l'Udi, il Cif e altre associazioni riconoscibili per storia insediamento statuti ecc. Il movimento delle donne e' ovviamente disposto a rispondere a tutte le garanzie e trasparenze del caso. Per sua decisione destinera' una quota del finanziamento alle associazioni di donne migranti in tutte le forme (disoccupazione, fuga da vincoli famigliari, persecuzione politica, bisogno, malattia, rifugio ecc.). Si obietta di solito a richieste di questo genere (persino per il finanziamento delle iniziative a favore delle donne maltrattate) che la Repubblica non puo' sostenere istituzioni che non rispettino la parita' tra i sessi: non si vede come possa finanziare attraverso l'otto per mille la Chiesa cattolica che esclude esplicitamente le donne dal sacerdozio, oppure ordini religiosi maschili e femminili ai quali vengono riconosciute esenzioni dalle tasse o altri diritti senza tener conto che sono organismi di un solo genere. Noi della Convenzione permanente di donne contro la guerre apriamo una campagna e chiediamo ad altre/i suggerimenti e accordi. A noi sembra che lo strumento migliore sia una proposta di legge di iniziativa popolare da scrivere e proporre per le firme alla popolazione e da far appoggiare alle parlamentari e ai parlamentari che si impegnino a sostenerla in parlamento. Secondo noi hanno titolo per entrare nel pacchetto di associazioni che concorrono alla fruizione del gettito che si raccogliera', tutte le associazioni di donne costituite da almeno un anno alla data di approvazione della legge; si puo' discutere se ammettere alla distribuzione le donne che fanno parte di associazioni miste che comunque prevedano, sempre alla stessa data, una specifica forma di organizzazione di donne; si escludono le donne che fanno parte dei partiti, alle quali deve andare obbligatoriamente una parte del bilancio del partito. Noi intendiamo agire perche' tale vincolo venga rigorosamente rispettato. 4. LETTURE. MARTIN LUTHER KING: "I HAVE A DREAM" Martin Luther King, "I have a dream", a cura di Clayborne Carson, Mondadori, Milano 2000, 2001, pp. 414, lire 17.000. E' gia' in edizione economica il volume curato da Carson (curatore del progetto editoriale del fondo King) che ordina in forma di autobiografia vari scritti del grande nonviolento. 5. LETTURE. ANTONIETTA POTENTE: GLI AMICI E LE AMICHE DI DIO Antonietta Potente, Gli amici e le amiche di Dio, Icone, Roma 2000, pp. 112, lire 10.000. L'autrice, gia' docente di teologia morale a Roma e Firenze, dal 1994 vive in Colombia un'esperienza comunitaria di condivisione e ricerca con i contadini e gli indios. In questo libro, trascrizione di cinque serate di dialogo, riflette su "Benedetto, Francesco, Domenico e le donne che hanno condiviso la loro ispirazione". Con una prefazione di Francesca Brezzi. 6. RILETTURE. LUIGI FERRAJOLI: DIRITTO E RAGIONE Luigi Ferrajoli, Diritto e ragione, Laterza, Roma-Bari 1989, 1990, pp. 1.058, lire 85.000. Una delle piu' belle opere di teoria ed analisi del diritto penale. Con prefazione di Norberto Bobbio. 7. RILETTURE. ITALO MANCINI: FILOSOFIA DELLA PRASSI Italo Mancini, Filosofia della prassi, Morcelliana, Brescia 1986, 1987, pp. 496. Una delle piu' grandi opere di Italo Mancini, una intensa meditazione di filosofia del diritto, una miniera inesauribile di idee che ci interpellano. 8. DA TRADURRE. DIDIER ERIBON: MICHEL FOUCAULT Didier Eribon, Michel Foucault, Flammarion, Paris 1989, 1991, pp. 418. Una rigorosa biografia del grande pensatore nel contesto della cultura e dell'impegno civile degli intellettuali nella Francia della seconda meta' del Novecento. 9. DA TRADURRE. ROGER GRENIER: ALBERT CAMUS, SOLEIL ET OMBRE Roger Grenier, Albert Camus, soleil et ombre, Gallimard, Paris 1987, 1992, pp. 416. Una bella "biografia intellettuale" del grande scrittore e militante per i diritti umani. 10. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 11. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org ; per contatti, la e-mail è: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: http://www.peacelink.it/users/mir . Per contatti: lucben at libero.it ; angelaebeppe at libero.it ; mir at peacelink.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it . Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 317 del 18 dicembre 2001
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