voglio fare il custode del tricolore



Voglio fare il custode del tricolore
lanfranco caminiti

Caro presidente Ciampi,
ho letto con vivo interesse la proposta di Alleanza nazionale di
istituire la figura del "custode del tricolore". Erano solo poche righe
di una breve notizia di cronaca, da cui trasudava un patriottismo alle
stelle ma corredato di poche indicazioni concrete. Per ora, come lei
saprà, avendo con vigore partecipato all'abbrivio di questo rinnovato
spirito di patria, le proposte si sovraccavallano eccitate: c'è chi vuol
distribuire bandierine agli alunni, chi vuol piantarle su tutte le pizze
margherite che vengono sfornate, chi sugli elmetti di ogni milite e,
perché no, sui manganelli tonfa delle forze dell'ordine adibite alle
manifestazioni di piazza, e chi propone nuovi cocktail autarchici
guarniti da ombrellini a tricolore. Non è ancora chiaro, dunque, se
questa figura sarà unica, centrale, qualcosa da affiancare - in
turnazione lavorativa, per quello che la flessibilità oggi può
permettere - ai soldati che vigilano sul sacro fuoco all'Altare della
Patria o se invece sarà una figura federale, decentrata, che stia in
ogni comune d'Italia o addirittura ovunque sventoli una bandiera. In
quest'ultimo caso, lei converrà, si allieverebbe anche un problema di
disoccupazione. Ci potranno essere custodi del tricolore appesi ai
balconi dei palazzi istituzionali o da issare su tutti i pennoni che lo
necessitano, corpi italici sventolanti nelle caserme e nelle scuole,
nelle case e negli uffici, sulle gru di tutti i cantieri edili, purché
vengano ben imbracati e non caschino giù, come si mormora spesso accada
a incauti muratori. Si potrebbe addirittura ipotizzare un alzabandiera
quotidiano da svolgere ovunque un italiano si trovi, magari  in
comitiva, alla stessa ora, tutti come un sol uom. Immagini che tripudio.
Insomma, tricolori a iosa, e custodi del tricolore a strafottere. E
probabilmente, lei, che è così attento alle questioni del lavoro
italiano, riassumendo i caratteri del governatore di banca che è stato,
propenderà per questa soluzione. Nella mancanza di riferimenti
istituzionali certi e nell'attesa della pubblicazione sulla "Gazzetta
ufficiale" scrivo dunque a lei. In ogni caso, io credo, vi saranno dei
concorsi, per vagliare e valutare i meriti e le attitudini degli
aspiranti che, un po' per il patriottico entusiasmo che attraversa il
nostro suol e un po' per tirare a campare, presumo saranno numerosi.
Come ogni concorso che si rispetti, si può prevedere fin d'ora che esso
sarà per esami e titoli.
Io voglio fare il custode del tricolore. Anch'io un po' perché travolto
da insolita passione e un po' - le confesso - per mettere ordine in una
vita lavorativa scombinata per cui a cinquant'anni, con l'agognata fine
del posto fisso che ha fiaccato per decenni l'indomito e laborioso
carattere italico, rimango però per mesi inoperoso e con una vecchiaia
che incombe, dove mi ritroverò senza uno straccio di pensione. E quindi,
prevenendo le indagini dei carabinieri che setacceranno il mio albero
genealogico per attestarne purezza e limpidità per l'alto compito, ho
pensato fare cosa utile a loro - e avvantaggiarmi rispetto gli altri
innumeri concorrenti - nel presentare da me i miei titoli (agli esami,
già lo so, sarà dura: perché, vede, io la guerra riesco pure a capirla,
ma la retorica guerrafondaia, quella, mi si mette di strozzo). Dovrò
parlarle della mia famiglia e dell'amor di patria che vi alligna.
Mio padre - che è mancato da qualche anno -  ha combattuto in Africa. Ci
era andato sacrificando un po' le sue ambizioni e preso da un ruolo di
responsabilità verso i fratelli più piccoli, dopo la morte del padre. Il
soldo non era chissachè ma a quei tempi garantiva - insieme ai mille
mestieri di mia nonna e all'abitudine di tirar la cinghia propria di chi
è nato povero - un minimo di sicurezza: dei fratelli, lui riuscì a farne
studiare più d'uno e ne era molto orgoglioso. Per questo, partì per
l'Affrica, come si diceva allora. Lì, a un certo punto, fu catturato
dagli inglesi e si fece quattro anni di campo di prigionia in Kenya mi
pare o Etiopia, che non era cosa tenera. Ne aveva riportato mucchi di
foto e ostinate abitudini, come quella - che faceva disperare mia madre
che c'è diventata stitica - di chiudersi in bagno al mattino prestissimo
e lavarsi per ore accuratamente con poca acqua: c'erano foto di lui in
Africa che si radeva o faceva le abluzioni con un catino, contornato da
uomini e bambini neri che ridevano a tutti denti: io penso fosse un
aggrapparsi alle minuzie per non lasciarsi andare, un dare esempio
d'ordine alla truppa e una sfida alla brutalità degli inglesi. Ne aveva
anche riportato un grande amore per quel continente e le sue genti, un
rispetto verso la loro mitezza e verso il loro coraggio: mi raccontava
episodi di guerra in cui soldati ascari balzavano dalle trincee sfidando
le pallottole che dopo riti magici sapevano deviare dai loro corpi:
trovavano fosse una viltà sparare da lontano contro i nemici e chissà
cosa penserebbero dei grandi strateghi americani che ormai le guerre le
fanno solo bombardando perché si cacano sotto allo scontro diretto
(presidente, ammetterà che questi americani sono strani: parlano di
"crescita zero", "tolleranza zero", "Ground zero", e per questa guerra
di "morti zero": qualcuno dovrebbe spiegargli che dicendo così finiscono
con il rinfocolare certi sciocchi sciovinismi arabi, che si papariano
sempre di avere inventato la matematica, di essere andati oltre lo zero,
da 1 a 9). Ne aveva anche riportato un grande amore verso la loro
bellezza: mi diceva di non aver mai visto donne e uomini più belli. E a
guardar le foto c'era da credergli. Ne riportò anche una radicata
convinzione che le guerre, d'occupazione, di conquista, d'aggressione o
che, fossero un male terribile, per chi le subiva e per chi le faceva.
Non era mai stato fascista se non come buona parte dei connazionali ma
aveva molto creduto nell'esercito: e credo che qualcosa gli si ruppe
dentro quando seppe di come il generale Graziani aveva usato i gas in
Africa, ci hanno fatto pure un film, non so se lei lo ha visto in una
saletta privata del Quirinale, perché in Italia non ha mai trovato
distribuzione, e glielo consiglio, anche a sua moglie che sembra tanto
una persona perbene, e magari si capiscono meglio certe parole perché
non è che noi italiani siamo stati sempre "brava gente": potremmo
chiedere scusa per certe "imprese" - sa, l'Abissinia, la Libia 1 e la
Libia 2, insomma tutto quell'ambaradan lì -, che sarebbe pure un bel
gesto e ci faremmo una gran figura a dare l'esempio ai francesi, agli
inglesi e pure ai belgi, che di porcate ne han fatto un po' dappertutto,
e questo non toglierebbe una virgola alla lotta al terrorismo, anzi;
ormai anche il papa chiede scusa, che pure loro, via, di cose da farsi
perdonare ne hanno, eccome. Si può immaginare quanto profonda fosse la
delusione di mio padre al ritorno in patria, quando si sentì abbandonato
al suo destino. Non so se per questa delusione o per qualche suo
maturato cambiar di rotta, fece il maestro per tutta la vita, con
passione e rigore. Ogni tanto, come capita a tutti quelli che
invecchiano, lo acchiappava la nostalgia della sua giovinezza e
dell'Affrica - cosa che io non capivo proprio bene e riducevo solo a un
lungo periodo di prigionia. Negli ultimi tempi si era un po' sbattuto
per rintracciare vecchi compagni d'avventura, commilitoni o che avessero
comunque condiviso quell'esperienza. Non per amor di patria, ché la
patria gli dava 248.000 (duecentoquarantottomila) lire - una tantum -
una volta l'anno, per la sua "impresa coloniale". Ma per sé, per
rispetto di sé. Adesso, sul mio comodino ho la sua foto in divisa
coloniale, tutta bianca, con una bella bandolera che gli attraversa il
petto. E' proprio un bel giovane e d'altronde mia madre non ha fatto
altro che rimproverarmelo tutta la vita di non essere mai stato bello
come lui.
Lo zio Filippo invece aveva fatto quella Grande di guerra, e bastava
chiedergliene e stargli vicino qualche minuto per capire quanto grande
fosse stata quella guerra. Lo zio Filippo non apparteneva al mio sangue
ma a quello di mia moglie, eppure l'ho sempre sentito come fosse mio,
sarà perché è vero che poi uno le parentele se le sceglie. Era un
contadino lo zio Filippo, e aveva tutte le mani storte dall'artrite e
dalla fatica dei campi; ma era dritto come un fuso, anche da vecchio,
con la sua testa bianca sempre viva, gli occhi che ti scrutavano
vincendo la cataratta, i suoi baffi ingialliti di mezzi toscani, la sua
catena d'orologio che gli attraversava il panciotto, un uomo fiero. Era
stato un coraggioso in guerra lo zio Filippo, un ardito, aveva avuto
delle medaglie, e nella sua cameretta - un letto, un comodino e una
lampadina da venticinque watt appesa con un filo elettrico nudo nudo al
soffitto - c'era inchiodato non ricordo che attestato. C'è chi ha
scritto che il coraggio non è una virtù morale perché si può essere
coraggiosi per caso, e forse ha ragione, ma lui lo era d'animo, perché
si era battuto non solo nelle trincee ma nelle campagne, dopo, per i
diritti dei contadini: e non doveva essere stata una lotta meno dura e
cruenta, neanche quando dovette fare i conti con i latifondisti,
fascisti e mafiosi. Era stato a Caporetto ma non ne parlava volentieri,
solo a stargli vicino "capivi", con quel suo agitare le mani e smuovere
la testa, quale dramma fosse stato, e la spagnola dopo, quella la
raccontava, che si moriva come mosche. C'andavamo in campagna da lui
quando era tempo dei fichi neri che gli venivano belli grossi o quando a
san Martino si spillava il vino dalle botti e si mangiavano le castagne
ed era una festa grande e lui si metteva seduto come un patriarca e
guardava tutti quei bambini che correvano e gridavano e i figli e le
loro mogli e i nipoti e le loro mogli, e io gli chiedevo della guerra e
lui muoveva quelle mani tutte storte e quella sua testa bianca. Ora la
campagna è abbandonata o quasi, c'è rimasto solo Mitri che ci rimane
perché non ha mai fatto altro nella vita e quest'estate ci siamo andati
e ci siamo seduti sotto gli ulivi come dandoci importanza, ma le cose
ormai sono scivolate via, come forse è giusto che sia. Era stato un
socialista lo zio Filippo, questo s'era portato dietro dalla guerra, un
socialista proprio di quelli che hanno fatto il novecento e reso un po'
più degno questo paese di raccontare la sua storia.
Per questo non correva buon sangue con mio suocero, don Pietro, che
invece la guerra - la seconda - l'aveva vissuta con baldanza e aveva
fatto l'Albania e aveva spezzato le reni alla Grecia e teneva l'elmetto
da soldato nell'ingresso della sua casa e andava tutti gli anni a
Redipuglia, al Sacrario dei caduti, quando ancora ce la faceva,
organizzando il pullman con i suoi vecchietti, e poi, quando gli venne
troppo faticoso partire, facevano la cerimonia al cippo dei caduti nella
piazzetta del paese, lui in testa portando non so che stendardo e la
banda - cinque elementi cinque - dietro. C'è in tutte le piazzette dei
paesi d'Italia il cippo dei caduti per la patria e io quasi ovunque me
li sono letti quei cippi, con quei lunghi elenchi di nomi e di vite
giovani che ti stringe il cuore per come sono abbandonati, bisognerebbe
portarci gli alunni delle scuole elementari a leggerli quei nomi scritti
nel bronzo, uno per uno, e farglieli lustrare col sidol e imparare a
memoria, come le tabelline, per odiare le guerre. Erano proprio due
caratteracci lo zio Filippo e don Pietro, e con quei testoni di
contadini che si ritrovavano finì che non si parlarono per anni. Però,
negli ultimi tempi a don Pietro, che era democristiano ma buon
cattolico, a furia di guardare la tivvù gli aveva preso non so che
preoccupazione per il mondo, che era diventato troppo violento e
traversato dalle guerre, e s'era messo a spedire i soldini della sua
pensione a tutti i moduli di conto corrente che trovava in "Famiglia
cristiana" o nei giornaletti di chiesa che gli arrivavano a casa: e vai
con le Ancelle riparatrici del cuore dai sette pugnali della Vergine
Maria che stanno a Timor est o con i Fraticelli poveri della porziuncola
dell'Orto del Gestsemani che stanno a Gerusalemme - c'era pure andato a
Gerusalemme a pregare per la pace -, che tutte le figlie non sapevano
come fare a nascondergli le riviste, preoccupate che restasse senza un
soldo, così ci si mise d'accordo con il postino che le consegnassero
prima a loro, che gliele filtravano, cioè gli staccavano via i moduli
dei conti correnti da riempire. Epperò lui ci andava lo stesso alla
posta, così finì che gliela sequestrarono la pensione, neanche tutta
però, e quel poco che restava lui continuava a spedirla, alle Sorelle
immacolate di Calcutta o all'Ordine beato di Giakarta. Una volta anche
ad Amnesty international. Era convinto di quel che faceva e io me ne
accorgevo perché l'elmetto che stava nell'ingresso s'era tutto
impolverato con le ragnatele pure, così lo misi in cantina e lui non mi
disse nulla, non so se perché non se n'era neppure accorto o perché non
gliene fregava più niente. All'orazione funebre - sono delegato, e per
me è un onore non da poco,  a quasi tutti i discorsi di matrimonio o di
funerale, da tutta la famiglia, grande tanto da riempire una chiesa,
perché ormai siamo ai bisnipoti che sono già coi pantaloni lunghi -
dissi qualche parola su questo combattente, da cui mi aveva diviso quasi
tutto nella vita, benché avesse tanto affetto per me, e su quel suo
piccolo fare per la pace degli ultimi anni, risibile forse ma
determinato come il resto dei suoi giorni. Avevamo scambiato qualche
parola sulla guerra in Kosovo - lui conosceva l'Albania - ed era triste
per quanto succedeva, non lo capiva, non riusciva a inquadrarlo neppure
nei sui valori di combattente, se mai gliene fossero rimasti. In chiesa
parlai di quella assurda guerra e di come questo ardore militare fosse
veleno delle nostre vite. Mi sembrò un buon saluto per don Pietro.
Sembrò anche al prete che officiava e che volle abbracciarmi, mettendomi
in imbarazzo.
Caro presidente Ciampi, questi sono i miei titoli acquisiti - i miei
propri sono davvero poca cosa e forse è meglio sorvolare - senza meriti
diretti ma solo perché ne porto memoria: le indagini dei carabinieri non
potranno che confermare. Se è proprio necessario posso risalire anche
più indietro nel tempo, ho pure un trisavolo che combatté con Murat e
che quel vigliacco del re di Napoli rinchiuse alla Favignana dove ci
morì - ci dev'essere un qualche tarlo strano nel nostro sangue che ci
porta tutti in galera. Io spero tornino buoni questi titoli per il
concorso a custode del tricolore, che vorrei proprio fare: glielo devo,
a mio padre, allo zio Filippo, a mio suocero e anche al trisavolo. Agli
esami mi arrangerò, che in questo noi italiani siamo bravi. Sa, io non
credo di avere avuto la fortuna di conoscere uomini particolari o
straordinari: sono storie qualunque e forse se ciascuno chiede al
proprio nonno o al proprio zio o al vicino della porta a fianco che è
tanto anziano salterebbero mille storie come quelle che ho appena
raccontato, proprio come si fa quando le maestre assegnano il compito
per casa e bisogna fare le interviste. Se può, se i suoi compiti
istituzionali glielo consentono, lo dica lei alla Moratti di invitarli
tutti nelle scuole, a parlare coi bambini, questi nostri vecchi che
hanno fatto le guerre; e che metta come testo obbligatorio da commentare
un libro come le "centomila gavette di ghiaccio" di Mario Rigoni Sterne
sergente della campagna di Russia, che  l'ho letto che ero alto un
palmo, dalla biblioteca di papà, oppure faccia vedere un film come
"Mediterraneo" che c'ha dato tanto lustro nel mondo e c'abbiamo pure
vinto l'Oscar. Gli italiani non amano le guerre e pure si trovano sempre
governati da tronfi imbecilli che ce li spingono alle guerre, per i
territori irredenti, per le colonie, per l'impero, per sedersi al tavolo
dei grandi, per l'occidente, per chissà quale cazzo. E sarà per questo
che poi noi quelle guerre finiamo sempre per farle male e concluderle
peggio, mentre invece ci riescono bene quelle in casa, quando si tratta
di cacciare via austriaci e borboni, pontifici e tedeschi, barbari e
lanzichenecchi - al gioco del calcio, è noto, noi eccelliamo nel
contropiede. A volte ci riescono bene pure quelle contro i barbari e
lanzichenecchi che produciamo in proprio. A volte li mandiamo via o li
buttiamo giù. Perché, in fondo al cuore, a questa benedetta Italia ci
teniamo, sa?

Roma, 11 novembre 2001