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Limes, Laden e la memoria corta
- Subject: Limes, Laden e la memoria corta
- From: Gabriele De Veris <deveris at edisons.it> (by way of Carlo Gubitosa <c.gubitosa at peacelink.it>)
- Date: Fri, 28 Sep 2001 05:34:47 +0200
E' interessante notare come certi personaggi dimentichino la storia, ma soprattutto quello che hanno pubblicato.... Vi invio due articoli di LIMES, uno sui paesi arabi (Afghanistan, Bin Laden) e uno sugli USA (si parla di Talebani) in allegato e qui sotto... "un bel tacer non fu mai scritto" -------------------------- LIMES 1994 / 2 - MEDITERRANEO, L¹ARABIA VICINA Da mujahidin ad arditi dell'islam di Alberto NEGRI In Afghanistan hanno combattuto molti volontari islamici che, tornati a casa, hanno sfruttato l¹esperienza militare contro i russi per abbattere i governi musulmani moderati. Il ruolo della Cia e i collegamenti fra i gruppi terroristici fondamentalisti. 1. NON sono passati molti anni da quando democratici e repubblicani erano uniti sui banchi del Congresso americano in un coro appassionato per appoggiare la "giusta guerra" dei mujahidin afghani contro il regime di Najibullah e dei suoi alleati sovietici. Soltanto due anni, poi, sono trascorsi dalla caduta di Kabul, nell¹aprile Œ92, e dalla vittoria della resistenza contro i comunisti. Un¹altra guerra adesso insanguina l¹Afghanistan: il primo ministro fondamentalista Gulbuddin Hekmatyar, in un¹alleanza di convenienza con un ex comunista, il generale uzbeko Rashid Dostum, sta mettendo alle corde il presidente Rabbani mentre le ambasciate a Kabul sono state chiuse, le organizzazioni umanitarie internazionali hanno sbarrato le loro sedi nella capitale e una nuova ondata di profughi si è rovesciata oltre i confini con il Pakistan. La resistenza dei mujahidin ha vinto contro Mosca, l¹Afghanistan come Stato unitario forse è condannato a non esistere per le feroci divisioni etniche e tribali, ma a Washington l¹"operazione Kabul" viene comunque classificata come uno dei più clamorosi successi della politica estera degli Stati Uniti negli anni Ottanta. Resta da spiegare perché l¹America, in stretta partnership con il Pakistan e gli arabi del Golfo, abbia riversato la maggior parte dei suoi aiuti all¹integralista Hekmatyar. Rimane in parte un mistero perché l¹ex direttore della Cia, William Casey, abbia puntato esclusivamente su un leader islamico che poi si è rifiutato di incontrare Reagan, che si è alleato con tutti i leader musulmani più radicali, che ha aiutato il terrorismo islamico in Asia e in Medio Oriente. Non è chiaro perché Hekmatyar e altri capi radicali afghani e di quell¹area continuino a ricevere sostanziosi aiuti dall¹Arabia Saudita, paese che, in feroce concorrenza con l¹Iran degli ayatollah, ha tentato di mettere il proprio "sigillo" finanziario e ideologico su un buon numero di movimenti integralisti in Medio Oriente e Nordafrica. Con esiti per lo meno controversi come si può notare volgendo lo sguardo alle sponde meridionali del Mediterraneo. Risultati discutibili, considerando che la pista afghana è citata con frequenza dalla stampa internazionale tra le matrici del terrorismo e della guerriglia islamica diffusi dall¹Alto Nilo fino alle montagne dell¹Atlante. Nel bilancio Œ93, la Cia è stata costretta a iscrivere 65 milioni di dollari in un capitolo di spesa destinato a coprire gli acquisti sul mercato nero del Medio Oriente di centinaia di missili Stinger americani non utilizzati dai mujahidin durante la guerra contro il regime di Kabul. "Una ricaduta negativa ampiamente sopportabile se giudicata sull¹arco di un conflitto durato oltre dieci anni", si giustificano i servizi di intelligence. "Ma forse gli americani", dice lo specialista del Medio Oriente Olivier Roy, consigliere di Parigi ai tempi del conflitto afghano, "stanno girando il mondo con valigie gonfie di dollari per comprare il silenzio dei loro ex alleati: perché gli Stati Uniti hanno molte cose da nascondere e gli islamici hanno dei dossier su di loro". 2. Conosciuto per la sua intransigenza, come l¹"uomo che dice sempre no", Hekmatyar, dell¹etnia dominante pashtun (Ahmed Shah Masud invece è tagiko), a metà degli anni Settanta differenzia le sue posizioni da quelle dello Jamiat-e-Islami, il raggruppamento di Rabbani, fondando nel Œ77 il partito degli hezbi, l¹ala più estremista nel fronte fondamentalista afghano. Contrario a ogni compromesso con l¹Occidente, salvo quello di ricevere soldi, il suo obiettivo è quello di formare in Afghanistan uno Stato islamico controllato dai pashtun. Il Pakistan, che già ai tempi del presidente Ali Butto, aveva puntato su Hekmatyar, convince Washington a dare fiducia al barbuto quarantenne del Partito di Allah. "Un giorno sono stato ricevuto da Casey", racconta l¹ex agente della Cia Vincent Cannistraro, all¹epoca uno dei supervisori dell¹area afghana, "per porre alcune questioni sulla giustezza delle nostre scelte. Ma Casey e molti altri dell¹Agenzia credevano al 110 per cento quello che gli raccontavano i pakistani: sul campo non esisteva miglior comandante militare di Hekmatyar ed era lui quello in grado di infliggere i colpi più pesanti all¹Armata rossa". A Hekmatyar finisce la fetta più grossa dei finanziamenti americani: si calcola circa il 60 per cento degli 8 miliardi di dollari che, attraverso vari canali, Washington ha erogato durante l¹arco della guerra. La Cia chiude anche gli occhi sui traffici di Hekmatyar e delle tribù ai confini tra Afghanistan e Pakistan: i camion pagati dagli americani non viaggiavano mai vuoti tra Peshawar e le vallate dove combattevano i mujahidin. All¹andata trasportavano armi, e al ritorno in Pakistan pasta di eroina. Secondo una statistica delle organizzazioni internazionali, nel Œ79 in Pakistan quasi non esistevano eroinomani, alla fine della guerra erano diventati due milioni. Ma non è stato il narcotraffico probabilmente l¹effetto più incontrollabile e insidioso della guerra afghana. Youssef Brodanski, direttore del Centro di ricerche del Congresso Usa sul terrorismo, sostiene che agli inizi degli anni Ottanta combattevano in Afghanistan tra i 3 mila e i 3.500 arabi: alla fine del decennio soltanto tra i battaglioni di Hekmatyar ne erano stati arruolati 16 mila. Gli Stati Uniti credevano allora di manipolare gli islamici come uno strumento maneggevole ed efficace per mettere alle corde Mosca. L¹amministrazione americana inoltre aveva delineato un altro obiettivo di questo grand jeu che opponeva Est e Ovest in un¹area che era già stata teatro delle manovre delle potenze inglese e russa alla fine del secolo scorso. Washington infatti si proponeva di incoraggiare un fondamentalismo sunnita e di stampo conservatore, alleato dell¹Occidente, da opporre all¹integralismo sciita degli ayatollah iraniani. Questa visione "strategica" degli americani era condivisa dai sauditi che per anni hanno foraggiato i fondamentalisti afghani sunniti e tutti i movimenti integralisti che si comportassero in modo tale da ottenere i petroldollari dei severi custodi della Mecca. Tutto nella speranza che questi gruppi entrassero nella sfera di influenza occidentale e degli arabi moderati. La "fedeltà" degli integralisti afghani alla causa degli Stati Uniti e dei loro alleati era comunque tutta da provare ancor prima che finisse la guerra contro gli shuravi (così venivano chiamati i russi a Kabul). Nel giugno dell¹87 Hekmatyar stringe un accordo con Teheran. In cambio di un aumento degli aiuti iraniani, Teheran gli chiede di approfittare dei suoi legami in campo occidentale per infiltrare agenti afghani negli Stati Uniti e in Canada, una rete che più tardi servirà anche alla repubblica islamica per operazioni segrete. Non soltanto all¹interno della Cia, come riferisce l¹agente Cannistraro, ma anche pubblicamente vi furono critiche alla politica americana nella regione. Il deputato repubblicano della Florida, BilI McCollum, conosciuto del resto come un sostenitore della causa dei mujahidin, era convinto che Casey puntando su Hekmatyar avesse scelto il cavallo sbagliato. "Già in quel periodo", ha dichiarato qualche tempo fa McCollum, "era chiaro che Hekmatyar aveva dei forti legami con Teheran e con gruppi integralisti eversivi in varie regioni del Medio Oriente. Ma sia la Casa Bianca che il Dipartimento di Stato erano ossessionati dall¹Unione Sovietica". Gli americani durante gli anni Ottanta si servirono di una serie di "stelle" di prima grandezza della galassia integralista per annodare rapporti con i combattenti della guerra santa. Uno di questi eminenti personaggi è il tunisino Rashid Ghannouchi, considerato dal Centro di studi sul terrorismo del Congresso uno dei principali responsabili della rete islamica in Occidente, insieme al sudanese al-Turabi e allo sceicco egiziano Omar Abdul Rahman. La vicenda dei rapporti tra gli Usa e lo sceicco cieco egiziano presenta molti lati oscuri. Secondo una versione della storia, Rahman - indagato e poi arrestato come ispiratore dell¹attentato alle torri del World Trade Center - sarebbe stato presentato ad agenti americani della Cia da Hekmatyar in Pakistan nell¹88. Questo darebbe credito alla tesi secondo cui sarebbe stato un agente della Cia all¹ambasciata americana di Khartoum a rilasciare il visto allo sceicco per entrare negli Usa. Gli americani sostengono invece che a dare via libera a Rahman sia stato un agente irano-sudanese infiltrato nella sede diplomatica Usa. L¹attentato alle Torri Gemelle di New York dimostra quanto può rivelarsi pesante per gli Usa l¹eredità della strategia di Casey in Afghanistan. Gran parte dei protagonisti dell¹affaire sono infatti ex combattenti della guerra santa contro Mosca. Tariq el-Hassan, un sudanese, arrestato l¹estate scorsa, che progettava di far saltare il tunnel delle Nazioni Unite e quello della sede newyorkese dell¹Fbi, per diversi anni aveva gestito in Usa un centro di transito dei volontari per l¹Afghanistan. 3. L¹internazionale afghana del terrorismo islamico ha una delle sue basi riconosciute a Peshawar ai confini settentrionali del Pakistan. In quello che fu uno degli avamposti delle Indie britanniche alle porte dell¹Hindukush si addestrano circa tremila arabi di diverse nazionalità tutti ex mujahidin in Afghanistan: 800 algerini, 600 egiziani, 400 giordani, 400 libici, qualche decina di palestinesi. Ma ci sono anche malesi, cinesi, musulmani americani. Tutti i capi dell¹islamismo radicale sono passati da Peshawar: lo sceicco cieco egiziano Abdul Rahman con i figli, il tunisino Rashid Ghannouchi, Mohammed Shawki Islambuli, fratello di uno degli assassini del presidente egiziano Sadat, predicatore oltranzista e comandante militare. Islambuli (e tanti altri come lui), quando il clima politico in Pakistan volge al brutto, si rifugia nella sua base di Jalalabad, la Samarkhiel Guest House. Per molti mujahidin del Jihad il punto di riferimento obbligato in Afghanistan è Gulbuddin Hekmatyar. Quello che fu il grande beneficiario degli aiuti americani e sauditi durante la guerra contro Mosca è diventato anche il protettore dei "folli di Allah". Il primo ministro afghano, in guerra aperta contro il presidente Rabbani e il comandante Masud, il 14 gennaio di quest¹anno ha fatto sapere che non costringerà all¹esilio gli egiziani e gli altri militanti integralisti arrivati nella valle di Peshawar e in Afghanistan per combattere il regime comunista di Kabul. E ha risposto con un no secco alla richiesta del Cairo che voleva l¹estradizione di cittadini egiziani implicati in attentati. A Peshawar si trovano alcuni dei capi in esilio del Fis, il movimento integralista algerino, e in questa città, una sorta di Cafarnao di frontiera, vengono stampati due giornali diffusi clandestinamente in Algeria. Da Peshawar, nel marzo Œ93, è partito il fax della Jamaat islamiya diretto in Egitto e negli Stati Uniti che minacciava di morte i turisti e gli investitori stranieri che fossero rimasti in Egitto. Alle porte della piana di Peshawar inizia la zona tribale, una terra di nessuno dove di fatto la giurisdizione pakistana non è mai entrata. In questa area le organizzazioni arabe hanno impiantato basi a Sadda, Khalde, Miram Shah. Dopo il passo del Kyber, in Afghanistan, ci sono campi di addestramento per i combattenti della guerra santa finanziati e controllati dallo Hezb-i-Islami di Hekmatyar e da Abdul Rasul Sayyaf dell¹Ittihad. Si ritiene che almeno 20 mila mujahidin arabi siano stati istruiti alle tecniche della guerriglia in no manŒs land. Per salvare la faccia davanti alle capitali occidentali e del Medio Oriente, ogni tanto le autorità pakistane danno il foglio di via a qualche drappello di mujahidin: 230 egiziani sono stati spediti in Sudan, altri 700 combattenti islamici sono stati espulsi verso altre destinazioni. Il mufti di Dusambé (Tagikistan), Qazi Turadzhon Zoda, è stato dichiarato persona non grata e adesso vive a Jalalabad, dove è rifugiato anche Daulat Usman, leader del Partito della rinascita islamica. Frequenti i loro viaggi a Islamabad per incontrare diplomatici iraniani, sauditi e uomini dell¹ intelligence pakistana: si ritiene che ricevano ingenti fondi da Stati del Golfo, Iran e Libia. La guerriglia tagika, basata in Afghanistan e condotta in prevalenza da gruppi radicali islamici, sta applicando metodi che sono la copia carbone di quelli sperimentati dai mujahidin nella lotta contro Mosca. Ma intanto nell¹area di Peshawar hanno il loro nucleo operativo personaggi come Boudjemah Bounoua, che dirige un centro di assistenza ai mujahidin (finanziato, si dice, dal Kuwait), ed è uno degli uomini più ricercati dai servizi algerini. Sempre a Peshawar avrebbe trovato rifugio un altro dirigente del Fis, conosciuto con il nome di battaglia di Abdul Mejid. Sulla presenza di membri del Fis in Pakistan e Afghanistan il condizionale è d¹obbligo. Si spostano infatti di frequente appoggiandosi alla rete dell¹Iiro, l¹International Islamic Relief Organisation, che tra l¹altro fornisce biglietti d¹aereo gratuiti per Peshawar, via Karachi, ai militanti che riescono a uscire clandestinamente dall¹Algeria e raggiungono l¹Europa. L¹Iiro è diretta da un saudita, Yusuf el Hamda, un ex mujahidin afghano che ha aperto 90 uffici dell¹organizzazione in 60 paesi. Principi e uomini d¹affari kuwaitiani e sauditi vengono tuttora indicati tra i principali finanziatori dei gruppi islamici afghani. Tra i nomi ci sono quelli del saudita Yusef Abdellatif Jamil, sceicco yemenita, residente in Arabia Saudita, di Abdel Mejid Zendani e di Osama Ibn Laden, ricco uomo d¹affari saudita che adesso si è spostato in Sudan. Sia Riyadh - che in tredici anni di guerra ha inviato circa 10 miliardi di dollari agli afghani - che Kuwait City ufficialmente hanno ridotto da tempo il loro aiuto alle organizzazioni di stanza a Peshawar. Storia nota, anche alle cronache di costume, è quella di Yusuf Islam, ben più conosciuto come Cat Stevens, l¹ex pop star convertitasi all¹islam nel Œ77, finanziatore e propagandista dell¹organizzazione integralista Muslim Aid con base a Londra in Digswell Street. Dopo aver ricevuto l¹ordine dalle autorità pakistane di levare le tende, Muslim Aid opera adesso dall¹Afghanistan. Fondi sauditi privati e pubblici alimentano sempre le casse della Lega islamica mondiale (Al-Rabita al-Islamiya al-Alamiya). Con sede alla Mecca e diretta da un afghano, Abdullah Javid, ha filiali anche in Tagikistan e in Bosnia. Grande influenza sul fondamentalismo islamico ha poi la Jamaat e Islami, partito pakistano diretto da Qazi Hussein Ahmed. Questa organizzazione è direttamente sostenuta dai servizi segreti pakistani e tra le sue attività c¹è il finanziamento e l¹addestramento dei combattenti in Afghanistan, Tagikistan e Kashmir. La sede della Jamaat, una grande villa coloniale a Islamabad, è considerata un laboratorio del radicalismo islamico internazionale. A Peshawar, un giorno dell¹ottobre 1988, arriva un signore corpulento, con la barba bianca e gli occhi nascosti da spesse lenti da sole: è lo sceicco egiziano Omar Abdul Rahman, cieco, sofferente di diabete, venuto a visitare, accompagnato da due figli, i battaglioni della guerra santa. Per due anni lo sceicco vive a Peshawar con rapide puntate nei campi di addestramento di 1.200 mujahidin a Sada, in un angolo di mondo, come ha lasciato scritto il Lawrence, "talmente sperduto che ben pochi l¹hanno mai sentito nominare". Nei suoi giri per i campi dei guerriglieri Rahman è accompagnato dal luogotenente palestinese Abdullah Azam. Con i suoi sermoni Rahman infiamma i mujahidin e lancia la guerra santa non soltanto contro i kuffar, gli infedeli, ma anche contro gli islamici e i capi di Stato arabi miscredenti e avversari degli integralisti. I guerriglieri di Rahman sono quelli che poi si infiltreranno a centinaia in Algeria, nella valle dell¹Alto Nilo, in Egitto e in Sudan. Non solo. Dalle file dei combattenti dello sceicco cieco escono anche, secondo le autorità americane, i nuclei dei terroristi islamici. Ma questo Washington lo dirà soltanto dopo che Rahman verrà arrestato, nel luglio Œ93, al centro islamico di Brooklyn con l¹accusa di aver ispirato l¹attentato al World Trade Center. Alle sue spalle lo sceicco ha una lunga storia come capo religioso e oppositore strenuo dei regimi egiziani. Il 28 settembre del Œ70 balza agli onori della cronaca quando dall¹alto della moschea di Fayyum lancia un fatwa, una sentenza che proibisce ai "veri islamici" di pregare davanti alla bara del rais appena morto, Jamal Abdel Nasser. Rahman è gettato in carcere ma viene salvato dalla galera soltanto dalla nuova politica inaugurata dal presidente Anwar Sadat, che si appoggia ai Fratelli musulmani per contrastare la sinistra nasseriana. Nel Œ74 lo sceicco diventa mufti e comincia a emanare una lunga serie di fatwa, tra cui quello della condanna a morte a Sadat per il suo viaggio a Gerusalemme. Grande predicatore, visionario, estremista, Rahman viene indicato come il Khomeini egiziano. Le autorità del Cairo lo imprigionano più volte tra l¹81 e l¹86 e alla fine lascia l¹Egitto per il Pakistan ma con in tasca una carta verde per gli Stati Uniti, rilasciata, secondo la stampa egiziana, proprio da agenti della Cia. Quando i mujahidin ridiscendono vittoriosi i sentieri della guerriglia sui picchi dell¹Hindukush prendono strade diverse. Lo sceicco Rahman continuerà negli Usa la propaganda per il Jihad, questa volta contro I ŒOccidente e i regimi arabi "corrotti", altri resteranno in "servizio attivo" in Medio Oriente. Tra questi ultimi il miliardario saudita Osama Ibn Laden, indicato come uno degli "importatori" di mujahidin dall¹Afghanistan in Medio Oriente e nel Maghreb. In una recente intervista al quotidiano libanese Al-Safir, viene accusato da Abdul Mansur, capo del partito yemenita del Congresso, di essere la mente e l¹istigatore dell¹ondata di violenze e omicidi politici in Yemen tra il Œ93 e gli inizi del Œ94. In Yemen ci sono stati numerosi arresti e qualche condanna a morte di membri del Jihad islamico ritenuti responsabili di attentati mortali: molti di loro avrebbero ammesso collegamenti con Laden, di essere stati addestrati o di aver combattuto in Afghanistan. Quando sarà riscritta la storia della resistenza afghana - afferma sull¹Independent del 6 dicembre Œ93 Robert Fisk introducendo un¹intervista a Laden - bisognerà assegnare un ruolo di primo piano a questo uomo d¹affari, sia per il suo contributo alla guerriglia che per la parte avuta nelle recenti vicende del fondamentalismo islamico. Laden arriva in Afghanistan alla fine del Œ79 e dopo pochi mesi è già in grado di far affluire in Afghanistan migliaia di combattenti arabi, egiziani, algerini, libanesi, tunisini, kuwaitiani, turchi. Laden, fatto piuttosto insolito per un businessman, combatte in prima linea, faccia a faccia contro gli uomini dell¹Armata rossa. "Ho visto un russo che mi puntava un fucile a meno di trenta metri", racconta, ma soprattutto rifornisce i mujahidin di armi ed equipaggiamenti. Titolare di una grande impresa di costruzioni, con le attrezzature importate in Afghanistan via Peshawar fa scavare lunghi tunnel nella montagna di Zazi, nella provincia di Bakhtiar, dove i guerriglieri insediano ospedali sotterranei e depositi di armi al riparo dalle incursioni dell¹aviazione sovietica. Diretti da Laden, centinaia di mujahidin bucano la roccia con i martelli pneumatici, aggrediscono la montagna come forsennati a colpi di piccone, sbadilano tonnellate di terra e di pietre. E alla fine, a forza di braccia, confezionano la grande beffa ai danni dell¹Armata rossa e dei soldati del regime di Kabul: decine di tunnel, cuniculi, bunker che nascondono alla vista dei nemici l¹esercito della guerra santa. Adesso la società di Laden sta costruendo una strada di 800 kilometri in Sudan, la sua nuova patria, per collegare Khartoum a Port Sudan. Il suo braccio destro è l¹ingegnere saudita Mohammed Saad e tra i dipendenti della società ci sono centinaia di reduci dall¹Afghanistan. Quanti guerriglieri ha aiutato a espatriare naturalmente Laden non lo dice ma, secondo i servizi occidentali e degli Stati del Maghreb, in Sudan vengono addestrati per il Jihad guerriglieri e terroristi che poi passano in Egitto, Algeria e Tunisia. Magro, allampanato, con una gran barba e una lunga galabeja che arriva ai piedi, Laden nelle poche fotografie in circolazione appare più simile lui stesso a un mujahidin che al prototipo dell¹uomo d¹affari arabo. Il suo nome è stato fatto anche tra i combattenti bosniaci di Travnik come uno dei finanziatori delle milizie musulmane. Il modello della guerra santa in Afghanistan costituisce il punto di riferimento di buona parte dei gruppi armati islamici combattenti nel Maghreb. In alcuni casi c¹è una discendenza "diretta" tra l¹esperienza maturata dai capi nelle file di mujahidin e la costituzione di cellule armate. Ma il termine "afghano" è usato anche soltanto per indicare dei gruppi armati che si sono resi protagonisti di azioni terroristiche o di guerriglia sanguinose. In ogni caso la vittoria islamica contro l¹Armata rossa alimenta il mito del mujahidin, un mito che possiede una straordinaria forza di penetrazione e diventa il simbolo di un riscatto totale tra i battaglioni infiniti di poveri e diseredati delle società arabe. Morire con il kalashnikov in mano per il Jihad, per ristabilire la purezza dell¹islam contro tutti e tutto, può a molti giovani arabi apparire una sorte migliore di un presente senza speranze. All¹inizio di quest¹anno sul settimanale libanese Al-Wasatè comparsa un¹intervista, forse l¹unica e sicuramente mai realizzata, a Sayf Allah Jaafar, considerato il capo dei Gruppi islamici armati (Gia),la formazione, fondata nel giugno del Œ91, che ha rivendicato decine di attentati mortali in Algeria. Alla domanda se il Gia si ispira ai metodi dei mujahidin, Sayf Allah risponde testualmente: "Molti musulmani nel mondo si sono ispirati a loro. Noi dobbiamo tantissimo ai mujahidin afghani, questo è innegabile". Jaafar, 30 anni, soprannominato ovviamente l¹Afghano, ha militato tra l¹84 e l¹85 nei gruppi più radicali della guerriglia contro Mosca. Al suo ritorno in Algeria ha sposato la figlia di Masouri Meliani, uno dei capi del Fronte islamico di salvezza (Fis), che è stato arrestato, condannato a morte e impiccato. Jaafar è stato ucciso il 26 febbraio scorso dalle forze speciali antiterrorismo durante un rastrellamento sulle alture di Algeri. La sua morte ha scatenato un ondata di attentati dei gruppi islamici armati. Veterano dell¹Afghanistan è pure Kamareddin Kharban, anche lui membro del Fis, ufficiale dell¹esercito algerino, Kharban nell¹83 butta la divisa alle ortiche e parte per Peshawar dove in breve diventa, con l¹appoggio dei servizi pakistani, uno dei capi della legione araba che combatte con i mujahidin. Kharban torna in Algeria nell¹87 e organizza delle cellule clandestine modellate sull¹esperienza della guerriglia afghana. Il suo ritorno in patria avviene poco dopo l¹uccisione, il 13 gennaio Œ87, di Mustafà Bouyali, ex maquisard, reduce dell¹Afghanistan, che tra l¹81 e l¹85 aveva costituito un¹organizzazione di 16 cellule per la lotta armata. La presenza di Kharban è stata segnalata anche in Bosnia, dove avrebbe costituito una rete di combattenti per appoggiare i musulmani bosniaci. LIMES 1996/4 L¹America e noi L¹Europa a stelle e strisce di Stefano CINGOLANI Gli Stati Uniti non rinunciano a una forte presenza in Europa. Nel nostro continente va la metà degli investimenti americani all¹estero, da cui dipendono 14 milioni di posti di lavoro. Il ŒTerzo Impero¹ e il progetto di Unione atlantica. Dopo anni di incertezza e confusione, gli Stati Uniti hanno riconosciuto che il loro legame con l¹Europa, lungi dall¹essersi esaurito dopo la guerra fredda, è diventato più importante. E più conflittuale. Il primo allarme è suonato in Bosnia. L¹amministrazione Bush prima si era opposta alla divisione dell¹ex Jugoslavia, poi aveva definito la crisi una faccenda interna europea. Clinton aveva ereditato un dossier che non conosceva e del quale non si preoccupava. Ma gli eventi lo hanno costretto a trasformare i Balcani nel principale test case della nuova politica estera americana. Il secondo fanalino rosso si è acceso con le trattative del Gatt, durante le quali i contrasti commerciali hanno assunto la portata di conflitti per la supremazia economica e tecnologica non più solo in Asia, ma anche in Europa. Le tensioni si sono fatte ancora più acute dopo l¹approvazione delle leggi Helms-Burton e D¹Amato che prevedono sanzioni contro le imprese (anche non americane) in affari con i ³cattivissimi² del mondo: Cuba e gli Stati accusati di sostenere il terrorismo (Iran, Iraq e Libia, mentre la Siria per ragioni di politica estera americana è stata lasciata da parte). L¹arma della ³guerra economica² viene usata per dirimere un conflitto di interessi tra Europa e Usa. E lo scontro è così aspro che Clinton viene lasciato solo quando lancia l¹operazione Desert Strike contro l¹Iraq. Che cosa accade? Un fossato si sta aprendo tra le due rive dell¹Atlantico, ben più grande e pericoloso di quello che divide il Pacifico? O siamo di fronte a liti in famiglia sia pure più aspre del normale? Una cosa è certa: l¹America oggi sa bene che non può abbandonare l¹Europa. La riscoperta dell¹Europa La virata verso il Vecchio Continente matura lentamente ed esce a poco a poco dalle nebbie del dopo guerra fredda, ma a cominciare dal 1994 diviene sempre più chiara. Subito dopo la caduta del Muro di Berlino, l¹Europa sembrava chiusa in tre cerchi scarsamente comunicanti l¹uno con l¹altro: a occidente la Comunità europea intenta a fare i conti con inflazione e disavanzo pubblico per rispettare i criteri di Maastricht e gettare le fondamenta dell¹Unione economica e monetaria; al centro i paesi dell¹ex Patto di Varsavia che si incamminavano verso l¹economia di mercato e la democrazia, muovendosi in una terra di nessuno, un sostanziale vacuum strategico (militare e in parte anche economico); ad oriente un¹Unione Sovietica che si disgregava rapidamente e una Russia sconvolta dalla implosione del comunismo. Il 1992 segna uno spartiacque: 1) entra in crisi il Sistema monetario europeo, con l¹uscita della sterlina e della lira, così quel che doveva essere un processo di unificazione lento, ma senza soluzione di continuità, rischia di introdurre nuove fratture separando un nocciolo duro franco-tedesco dai paesi del Sud (Italia, Spagna e Portogallo) e del Nord (Gran Bretagna, Svezia, Danimarca); 2) scoppia la guerra in Bosnia e l¹Europa si dimostra incapace di agire manifestando una crisi politica e di identità che si aggiunge a quella economico-valutaria; 3) la Russia liquida il comunismo e l¹Unione Sovietica. La caduta di Gorbacev è la conseguenza inevitabile del fallimento della transizione graduale; 4) arriva alla Casa Bianca un presidente democratico che punta tutte le sue carte sull¹economia e sulla soluzione dei problemi interni, confortato dal dotto rapporto di un think tank influente soprattutto tra i democratici (il Carnegie Endowment for International Peace di Washington) secondo il quale la sicurezza economica è diventata più importante di quella militare. ³Il rinnovamento interno dell¹America è la vera priorità della nazione², è scritto nel documento. Sullo scacchiere internazionale, è meglio ³imparare a risolvere più problemi possibili attraverso l¹Onu e, in economia, attraverso la cooperazione con Giappone e Germania². Per un paio d¹anni l¹amministrazione Clinton seguirà questo benign neglect verso gli affari esteri, ³concentrandosi come un laser² (parole del giovane portavoce di Clinton, George Stephanopoulos) sull¹economia americana. Ma la Cnn e i sondaggi Gallup imporranno un cambiamento sostanziale. Sul piano strategico il vero punto di svolta è la sofferta decisione di intervenire in Bosnia in seguito alla delusione verso gli europei, incapaci di sviluppare una coerente ed energica politica nei Balcani. Non è un caso che sempre in questo periodo, il 5 maggio 1994, Clinton vari la Direttiva 25 e abbandoni il multilateralismo e l¹appoggio all¹Onu. Nel delineare i princìpi che guidano l¹intervento all¹estero, si specifica che Marine e Gi non saranno mai più posti sotto il comando straniero. Certo, brucia il fallimento in Somalia. Ma più in generale viene fatta cadere l¹idea di delegare la sicurezza alle Nazioni Unite, alla Comunità europea o a qualsiasi istituzione multinazionale. ³Se non è più il momento dell¹Europa, ne consegue che torna il tempo dell¹America², scrive Simon Serfaty direttore degli studi europei al Center for Strategic and International Studies(113). Richard Holbrooke ha spiegato in più occasioni il nuovo orientamento. Alla fine della guerra fredda - osserva il più celebre negoziatore americano - si è manifestata negli Usa una tentazione al ritiro dall¹Europa. Abbiamo resistito per una ragione molto semplice: il nostro interesse economico. Il contesto delle nostre relazioni è venuto via via cambiando, ma perdura un basilare interesse a restare in Europa: un continente libero dal dominio di una qualche potenza o dalla combinazione di potenze a noi ostili; partner prosperi aperti alle nostre idee, ai nostri beni, ai nostri investimenti; una comunità che condivide gli stessi valori e che si estende il più possibile attraverso l¹intero continente non più lacerato da conflitti che drenano risorse dagli Stati Uniti e dal resto del mondo. Gli Usa sono una potenza del Pacifico, ma non una potenza asiatica. Sono invece definitivamente una potenza europea. Gli americani non sono rimasti cinquant¹anni in Europa per anticomunismo - riconosce Holbrooke - ma per garantire l¹equilibrio della regione. E questa esigenza resta intatta, più che mai(114) . Certo, quando tra l¹estate e l¹autunno ¹95 si compie la svolta bosniaca, Clinton non è in grado di inserire il neointerventismo americano in uno schema teorico nel quale sia reso chiaro l¹interesse nazionale. E stenta a trovare il consenso del Congresso dove prevale un sentimento isolazionista. Ma chi comanda in Europa (tra Usa, Russia, Germania, Francia, Gran Bretagna), torna ad essere determinante anche per decidere chi comanda in Asia (tra Usa, Russia e Cina). La trasformazione della Nato in strumento di sicurezza attiva anche fuori dei propri confini diventa una partita determinante. L¹America non può più fare marcia indietro e si trova, anzi, a dover risolvere un¹equazione a più incognite, le cui variabili fondamentali restano, ancora una volta, la Germania e la Russia. Strobe Talbott, ex giornalista, ex corrispondente da Mosca e slavofilo, aveva convinto l¹amministrazione non solo che Elcin era il minore dei mali, ma che rappresentava il veicolo della conversione occidentale di un immenso paese che mai nella sua storia aveva conosciuto la democrazia. La scommessa di Talbott-Clinton è giunta al punto di favorire in ogni modo (non solo con il denaro, ma anche con l¹intelligence) la vittoria di Elcin pur sapendo che ormai non era più in grado di governare la Russia. Nel frattempo, però, si è fatto strada un approccio più realistico, rappresentato da Henry Kissinger e da quei repubblicani che ancora hanno voglia di pensare alla politica estera (ad esempio l¹influente senatore dell¹Arizona John McCain, eroe del Vietnam e ascoltato anche alla Casa Bianca). La Russia non è assimilabile sic et simpliciter all¹occidente, quindi nei suoi confronti occorre un atteggiamento diverso: non impicciarsi nelle vicende politiche interne, ma porle dei paletti, delle discriminanti esterne molto chiare. Una sorta di neocontenimento ad occidente con l¹allargamento rapido della Nato verso est in modo da bloccare sul nascere quella vocazione imperiale naturale nella potenza eurasiatica(115). A rafforzare questa impostazione è la lettura che proprio Kissinger dà della solenne firma dell¹accordo russo-cinese: per il modo in cui è stato presentato, ancor più che per i suoi contenuti, va oltre una normalizzazione dei rapporti dopo trent¹anni di tensioni e conflitti di frontiera. La reintegrazione dell¹Eurasia è la priorità assoluta della Russia. Quindi egemonia nella Cis. Poi ripresa di influenza in Europa centrale. Infine una politica che cerchi di recuperare il ruolo di grande potenza. In cooperazione o in alternativa con gli Usa? In Bosnia, Mosca ha mostrato che può essere cooperativa, se i suoi interessi e legami storici non vengono minacciati. Con Desert Strike ha sperimentato il gioco competitivo. La Germania resta l¹alleato fondamentale degli Usa, come ritiene una componente forte dell¹amministrazione (rappresentata da Holbrooke e da Peter Tarnoff, entrambi provenienti dal Council on Foreign Relations, uno dei think tanks più influenti sui democratici, nel quale è confluito il fior fiore dei diplomatici allievi di Cyrus Vance). Tuttavia nulla è scontato nel gioco strategico della geopolitica europea dopo la guerra fredda. Lo si è visto nel caso della Bosnia quando è emerso, soprattutto nella prima fase, il conflitto tra la Germania filocroata e gli altri paesi i quali continuano a pensare alla Serbia come garante di un delicato equilibrio balcanico. Uno studio della Rand preparato per l¹ufficio del segretario alla Difesa spiega come la Germania stia espandendo la sua influenza verso est, in quel ventre molle rappresentato dall¹Europa centrale che resta attualmente ³un sistema anarchico dal punto di vista della sicurezza². Ciò avviene nel momento in cui la Russia si prepara a riasserire i propri interessi ad ovest recuperando una tradizione che va dal XVIII secolo fino al 1917. Diventa fondamentale, così, prevenire l¹eterno conflitto che nell¹epoca moderna ha sempre sconvolto l¹Europa(116). È a questo punto che in America matura la decisione più importante, in termini strategici, del dopo guerra fredda: l¹allargamento della Nato, superando il veto della Russia. Nella concezione americana deve andare di pari passo con l¹allargamento dell¹Unione europea. Il braccio economico e il braccio armato è essenziale che si espandano in tandem. Dalla prossima primavera la porta sarà aperta a tre dei quattro paesi che fanno parte del gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica ceca, Ungheria; resterebbe fuori la Slovacchia). ³L¹estensione delle garanzie previste dall¹articolo V della Nato non è un esercizio sulla carta², scrive il conservatore Jonathan Clarke del Cato Institute. ³Infatti impegnano gli Usa a difendere questi paesi contro ogni attacco esterno, portando il perimetro della difesa occidentale più vicino a Mosca e al calderone etnico dell¹Europa centrorientale²(117). Il segretario di Stato Warren Christopher ha lanciato la proposta di una Carta, un documento formale che sancisca la cooperazione con la Russia. Mosca ha replicato che l¹intesa deve precedere ogni mutamento della Nato. Nessuno può escludere che gli incerti equilibri al Cremlino impongano all¹Occidente una prudente frenata. La politica estera Usa non è abituata all¹idea di un geopolitical management e non ha esperienza nel gestire problemi complessi in tempo di pace e nel portare un ordine geopolitico nel Centro-Europa. Insomma, l¹America del Duemila, potenza dominante come la Francia del Seicento, avrà bisogno di un cardinale Richelieu. Il paradigma perduto Gli Usa, tuttavia, sono ancora alla ricerca dell¹identità perduta. Clinton si definisce il presidente della transizione, e si vanta di aver capito che la Grande trasformazione (dal sistema chiuso all¹economia globale, dall¹industria alla società dell¹informazione) si accompagna alla ridefinizione di tutti gli equilibri mondiali e che i due livelli (economico-sociale e internazionale) non marciano su binari paralleli, ma si intrecciano in continuazione. Gli manca, però, uno schema forte nel quale incastonare le sue intuizioni. Si sono susseguite teorie diverse nel tentativo di scovare che cosa sostituire al paradigma del contenimento che ha fatto da bussola per quasi mezzo secolo. Nel 1991 il giornalista e politologo Charles Krauthammer lancia l¹idea che al bipolarismo della guerra fredda e al multipolarismo un po¹ utopistico dei liberal, sia subentrato un ³momento unipolare². ³L¹unipolarità², scrive, ³è l¹immagine che più colpisce del mondo attuale. Ci vorrà una generazione o due perché sorga un¹altra potenza uguale agli Stati Uniti. Anche la nozione che la forza economica si traduca in influenza geopolitica è un altro mito rapidamente infranto²(118). Dopo i facili entusiasmi della guerra del Golfo Persico, questo solipsismo ha prodotto l¹ingenua immagine del global cop, il poliziotto globale incapace di affrontare le microminacce del caotico mondo post-guerra fredda. Prende corpo così l¹idea che l¹America sia una superpotenza non solo solitaria, ma senza una causa alla quale applicare il suo immenso potenziale (come sostiene Leslie Gelb, presidente del Council on Foreign Relations). Una situazione terribile, che la espone al pericolo di agire trascinata dagli eventi, di inseguire i fatti (magari quelli amplificati dai mezzi di comunicazione) e non capirli. Questa idea dello ³sceriffo riluttante² si scontra con la costante idealistica della politica estera americana che rende gli Usa incapaci di esercitare il puro gioco del balance of power. La ³Missione Liberale² meglio rappresenta la tradizione che va da Wilson a Roosevelt e se ne sente l¹eco nei documenti più alati dell¹amministrazione. Ma ogni velleità di fare dei diritti umani la pietra angolare della politica estera (alla Jimmy Carter) viene frustrata dalla realtà. Clinton fa un tentativo con la Cina, poi rinuncia e le rinnova la clausola di partner commerciale privilegiato. Con la Russia e la guerra in Cecenia non ci prova neppure. In Afghanistan appoggia i talebani, veri e propri ultrà islamici che impongono la sharia. La promozione della libertà e della democrazia, dunque, resta un punto di riferimento ideale, ma deve fare i conti con la geopolitica e la geoeconomia. Con l¹esplodere del terrorismo sul territorio americano diventa sempre più popolare la dottrina dello ³scontro delle civiltà², tra Occidente da un lato e una perversa alleanza di islamismo e confucianesimo dall¹altro. Tre anni fa l¹aveva lanciata Samuel Huntington, ex consigliere di Jimmy Carter e ora professore ad Harvard(119) ed era stato sommerso di critiche. Sfidando i luoghi comuni, aveva descritto un liberalismo occidentale in difficoltà per la mancanza di una sfida ideologica coerente e per l¹espansione culturale, sociale, economica di paesi in cui religione e autoritarismo creano una miscela esplosiva. Il confronto con l¹islam e il confucianesimo non è solo ideale, ma anche politico e militare. La propagazione dei valori occidentali presentati come universali, provoca una reazione comune e un conflitto che colloca ³l¹Occidente contro tutti gli altri², insiste il politologo americano. La linea di frontiera tracciata dalla spada dell¹islam passa per il Mediterraneo, per i Balcani, taglia il Mar Nero, attraversa il Caucaso per spingersi fin nel cuore dell¹Asia. Il fianco Sud dell¹Europa diventa di nuovo esposto e vulnerabile. Un confronto fra le esportazioni europee e americane All¹idealismo wilsoniano e al pessimismo spengleriano di Huntington si contrappone la cinica geopolitica di Henry Kissinger. Il suo libro Diplomacy ha riacceso antiche divisioni, ma ha anche fornito alimento a chi si ostina a cercare una strategia internazionale. ³L¹America è un¹isola fuori delle rive della larga massa di terra dell¹Eurasia le cui risorse e la cui popolazione eccedono di gran lunga quelle americane², scrive Kissinger. ³Il dominio di una singola potenza in ciascuna delle due principali sfere, l¹Europa e l¹Asia, resta una buona definizione del pericolo strategico per l¹America, guerra fredda o non guerra fredda²(120). In Europa ³non è interesse di nessun paese che la Germania e la Russia si fissino l¹uno con l¹altro o come partner principali o come avversari principali. (...) Senza l¹America, Gran Bretagna e Francia non possono sostenere l¹equilibrio politico nell¹Europa occidentale; la Germania sarebbe tentata dal nazionalismo e la Russia perderebbe un interlocutore globale. Senza l¹Europa, l¹America sarebbe risospinta, psicologicamente e geograficamente, verso la sua dimensione di isola fuori delle coste dell¹Eurasia²(121). La nuova logica dei blocchi A partire dalla metà degli anni Settanta, come risposta alla crisi petrolifera, l¹Occidente aveva riorganizzato i propri rapporti interni su una sorta di triangolo: gli Stati Uniti, il Giappone e la Germania; tutti insieme, attraverso il coordinamento delle politiche monetarie ed economiche avrebbero dovuto mettere i paesi industrializzati al riparo da sussulti distruttivi. Questo ³governo mondiale² incardinato nel G7 (che in realtà è sempre stato un G3 allargato per motivi diplomatici) ha funzionato finché non ha fatto irruzione la nuova rivoluzione tecnologica che ha reso interdipendente l¹³economia di carta², creando nuove fratture nell¹³economia reale². I modelli di capitalismo (asiatico, renano, anglosassone) sono entrati in competizione tra loro. Il ³mercato globale² non ha esportato pace e libertà. L¹esclusione di intere aree geografiche, popolazioni, gruppi sociali, ha innescato nuove tensioni. Le priorità domestiche hanno preso il sopravvento su quelle internazionali. Tanto che interessi economici e sicurezza nazionale sono diventati interdipendenti. È proprio questo il maggior cambiamento introdotto da quella che alcuni - con una certa enfasi - hanno chiamato la ³Dottrina Clinton²: la sicurezza degli Stati Uniti dipende strettamente dal proprio sviluppo economico, la stessa pace del mondo è collegata al benessere, allo sviluppo e alla leadership economica degli States. La politica estera, quindi, si dà il compito di rilanciare e difendere il primato nella crescita, nella tecnologia, nei settori leader della nuova rivoluzione industriale e di combattere per far cadere le barriere alla circolazione delle merci americane. La libertà dei commerci resta un principio e un obiettivo, purché il tasso di crescita del reddito, della produzione e dell¹occupazione negli Stati Uniti aumentino sempre. Gli Usa, così, si confrontano a muso duro con il Giappone, consolidano la propria posizione di kingmaker in Asia e si ricollocano in un¹Europa che rappresenta pur sempre il principale mercato straniero. Il 50% degli investimenti esteri delle imprese americane è nell¹Europa occidentale e viceversa; da essi dipendono 14 milioni di posti di lavoro americani. Dal 1990 ad oggi gli investimenti diretti in Europa sono raddoppiati arrivando a 364 miliardi di dollari, mentre nell¹area del Pacifico, pur aumentando nello stesso periodo, superano di poco i cento. ³Le compagnie americane hanno fatto dell¹Europa la zona principale che esse possono sfruttare²(122). A differenza degli anni Cinquanta e Sessanta questa nuova ³americanizzazione dell¹Europa² tende a cambiare le regole del mercato assimilandolo a quello degli Usa. Elettronica, telecomunicazioni, biotecnologie, farmaceutica: in questi campi il primato è assicurato. La ³nuova sfida americana² avviene in una geografia economica che si articola in ³aree di libero scambio² intercomunicanti. ³La Dottrina Clinton rinchiude gli Usa nel cuore di ciascuno dei blocchi commerciali che stanno strutturando l¹economia mondiale²(123). L¹America del Nafta, l¹Asia del Patto del Pacifico, l¹Europa dell¹Ue sono in concorrenza. Ma al loro interno gli Stati Uniti vogliono avere un ruolo determinante. Un gioco duro in cui l¹America sviluppa una politica aggressiva e l¹amministrazione si attrezza con una vera e propria ³economic war room² (l¹Advocacy Center) che aiuta il made in Usa a vincere appalti all¹estero quando sono coinvolti governi stranieri(124). Quando Clinton ha deciso di firmare la legge Helms-Burton sull¹embargo a Cuba e quella di Al D¹Amato contro le imprese che commerciano con i paesi accusati di sostenere il terrorismo, non ha soltanto ceduto a esigenze elettorali. Sapeva bene che si sarebbe spinto fin oltre la soglia di un conflitto con i paesi europei, ma negli Stati Uniti oggi il mondo degli affari e il governo hanno scelto di battersi a muso duro anche contro gli alleati storici per difendere i propri interessi economici. Hanno abbracciato un ³liberismo al tabasco² che colpisce in modo forte l¹Unione europea. Quale Europa? La riscoperta del Vecchio Continente si accompagna, dunque, alla potente spinta a spezzare quella che una volta veniva chiamata ³fortezza Europa² le cui difese ormai stanno vacillando. Giù le mura del protezionismo e giù anche quella pretesa di fare da sola che si è rivelata del tutto velleitaria. L'Eurasia vista dall'Atlantico Perché restare in Europa? - si chiede Simon Serfaty(125). Come deterrente contro il revisionismo geopolitico della Russia; per garantire la sicurezza dei paesi dell¹ex Patto di Varsavia, non perché siano direttamente minacciati ma perché ci sono rischi di instabilità esportati o manipolati dai loro vicini; per consolidare la fiducia della Germania e degli altri Stati europei in una struttura occidentale più affidabile e meno controversa delle precedenti; come difesa contro piccoli conflitti dentro e fuori l¹Europa dove c¹è una convergenza degli interessi occidentali; per rispondere alle sfide comuni (terrorismo, ambiente, proliferazione delle armi di distruzione di massa). E, ultimo, ma non per importanza, perché resta il più grande mercato del made in Usa. Ma la domanda di oggi è: in quale Europa? Serfaty offre anche qui alcune formulette sintetiche: un¹Europa flessibile e competitiva; democratica e compatibile con i valori sociali e le politiche americani; resistente alle pressioni protezionistiche dell¹Unione europea o di suoi singoli membri; aperta a legami economici con i suoi vicini all¹Est a cominciare dall¹Europa centrale; capace di assumere una larga quota di difesa autonoma. Sandy Vershbow, consigliere speciale del presidente per la politica europea all¹interno del National Security Council, in una conversazione con l¹autore nel luglio scorso, ha spiegato che l¹obiettivo strategico resta l¹aggancio stretto della Russia all¹Europa, di una Russia destinata a tornare potenza globale. Per gli Usa, quindi, ha priorità l¹apertura ai paesi dell¹Europa centrale. Maastricht è una questione interna purché non diventi un ostacolo all¹espansione. La noncuranza di un tempo verso la moneta unica ha lasciato il posto a una nuova attenzione alle conseguenze dell¹euro sul dollaro e sullo yen. Ma gli americani continuano a denunciare i troppi impedimenti al libero scambio e a chiedere uno sforzo congiunto in due settori strategici: l¹Europa centrale e il Medio Oriente. Il primo banco di prova sarà promuovere l¹integrazione pacifica dei Balcani. La comunità atlantica La geopolitica europea alle soglie del Duemila presenta una terra di nessuno troppo ampia, fonte principale di caos politico, di insicurezza militare e di incertezza economica. A ovest l¹allargamento della Nato porta tre dei ³quattro di Visegrad² sotto l¹ombrello occidentale. A nord-est Mosca ³riprende² la Bielorussia. Mentre i paesi baltici stringono un legame con la Svezia ottenendo il viatico degli Usa (lo ha dato esplicitamente il segretario alla Difesa William Perry al vertice di Copenhagen il 23 settembre ¹96). Al centro, però, restano senza copertura paesi grandi come la Romania, la Bulgaria e l¹Ucraina. La prima bussa alla porta dell¹Unione europea, ma si apre agli Stati Uniti con intese militari ed economiche (la Citycorp è diventata la banca più importante del paese). La seconda è fortemente tentata dal richiamo slavo-ortodosso che la spinge da un lato verso la Grecia e dall¹altro verso la Grande Madre Russia. Il polmone ucraino, con il suo potenziale nucleare, resta nella linea d¹ombra a rischio continuo di conflitto con Mosca. Mentre da sud incombe il gran caos balcanico, a sud-est una Turchia islamizzata e meno affidabile fa da snodo con i tumulti del Caucaso. È uno dei punti di maggior tensione. Le immense risorse petrolifere danno al Mar Caspio un¹importanza strategica pari al Golfo Persico e sulla lunga mezzaluna che va dall¹Armenia all¹Himalaya, si estendono le mire egemoniche della Russia, dell¹Iran, della Cina. Ma si scaricano anche le tensioni non risolte con l¹Iraq e le nuove ambizioni della Turchia. Come creare un¹impalcatura di sicurezza che sia meno precaria e dotata di senso strategico? Michael Lind, brillante politologo, conservatore deluso, vede sorgere ³un Terzo Impero americano con una frontiera balcanica²(126). Il primo venne creato subito dopo la guerra con la Spagna del 1898 quando gli Usa presero le Filippine, Cuba, Portorico e buona parte dei Caraibi. Il secondo dal 1945 al 1989 e si estendeva dall¹Europa centrale all¹area del Pacifico. Il Terzo Impero ha avviato i suoi passi con la guerra del Golfo Persico che ha garantito il controllo della risorsa petrolio e un ruolo predominante nel Medio Oriente. Poi l¹intervento in Bosnia. Infine l¹allargamento della Nato. A differenza dei primi due, il Terzo Impero ³non può essere giustificato come mezzo per diffondere la democrazia e l¹autodeterminazione². Non solo: ³La sfida di consolidare una nuova sfera d¹influenza Europa-Medio Oriente ritirandosi progressivamente dall¹Asia richiederà che gli Stati Uniti sviluppino istituzioni e alleanze tipo Nato per gestire i vari protettorati che si sono venuti via via costituendo a partire dal 1990. I protettorati debbono essere protetti². In realtà, nessuno a Washington ha elaborato una così radicale visione del futuro geopolitico. Tuttavia, nel tentativo di chiudere il primo mandato presidenziale con una patina strategica, viene data grande importanza al discorso che il segretario di Stato Warren Christopher ha pronunciato il 6 settembre ¹96 a Stoccarda, nel quale lancia l¹idea di ³una nuova comunità atlantica per il Duemila² che sorgerà come la Fenice dalle ceneri della guerra fredda. Di che si tratta? Nel ¹95 gli Usa hanno lanciato l¹idea di un ³Nafta per l¹Europa². La Transatlantic Free Trade Area, come premessa per una nuova alleanza che completi la Nato sul versante economico e la trasformi in un organismo globale. A parte i settori di cooperazione economica, al vertice di Madrid erano stati individuati i campi di collaborazione politica: la ricostruzione della Bosnia, il consolidamento di un¹area di pace, sicurezza ed espansione economica nel Medio Oriente, lo sviluppo dei paesi del Centro ed Est-Europa. Al Nafta atlantico, dunque, si deve per forza di cose accompagnare una sorta di Nato-bis. Ma la nuova impalcatura è persino più ambiziosa. Charles Kupchan del Council on Foreign Relations la spiega così: ³La soluzione ai problemi dell¹Occidente è un¹Unione atlantica che dovrebbe assumere sotto di sé entrambe le organizzazioni, la Nato e l¹Unione europea. Quest¹ultima dovrebbe abbandonare le sue ambizioni federali e concentrarsi sull¹estensione del suo mercato unico all¹Europa centrale ad est e al Nordamerica ad ovest. La Nato diventerebbe il braccio difensivo, ma adottando degli impegni meno stringenti militarmente e lasciando spazio alla diplomazia preventiva, al peace-keeping e al peace-enforcing. In questo modo diverrebbe meno difficile anche l¹apertura ai paesi dell¹Europa centrale²(127). Un capitolo dello stesso saggio è intitolato significativamente ³Bye bye Maastricht². Christopher non può osare tanto. Ma è evidente la contraddizione tra allargamento dell¹Ue e rafforzamento del suo ³nocciolo duro². Il reticolo istituzionale vecchio e nuovo nel quale gli Stati Uniti vogliono stringere l¹Europa (questa Grande Europa dall¹Atlantico agli Urali ricorda più la ³casa comune² di Gorbacev che non quella gollista), rappresenta l¹unica alternativa - secondo lo studio della Rand - a un confronto aperto. Ma il rischio è di annacquare la Nato in una sorta di ³lasca struttura paneuropea² senza unghie e con scarsa capacità operativa. Esattamente quello che vuole la Russia. Lo strumento, quindi, è lungi dall¹essere chiaramente individuato. Tuttavia non esiste una vera alternativa a un legame organico con gli Usa. I pericoli di disintegrazione europea diverrebbero peggiori e i conflitti egemonici interni verrebbero esasperati. Il sogno dei federalisti si offusca e gli spettri della storia tornano a visitare le cancellerie d¹Europa. -- Gabriele De Veris "We all want to change the world But when you talk about destruction Don't you know that you count me out Don't you know it's gonna be alright"
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