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La nonviolenza e' in cammino. 238
- Subject: La nonviolenza e' in cammino. 238
- From: "Centro di ricerca per la pace" <nbawac at tin.it> (by way of Alessandro Marescotti <a.marescotti at peacelink.it>)
- Date: Mon, 24 Sep 2001 18:13:12 +0200
LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 238 del 24 settembre 2001 Sommario di questo numero: 1. Peppe Sini, lettera aperta al Presidente della Repubblica 2. Severino Vardacampi, dalla marcia Perugia-Assisi di un anno fa a quella del prossimo 14 ottobre 3. Enrico Euli: la guerra mondiale al terrorismo, un'analisi 4. Michele Dressadore, polizia e nonviolenza 5. Eva Cantarella, la conclusione de "L'ambiguo malanno" 6. La scomparsa di Isaac Stern 7. Lunedi 24 settembre al liceo scientifico di Orte inizia il corso di educazione alla pace 8. Letture: Mike Featherstone (a cura di), Cultura globale 9. Letture: Mohammad Khatami, Religione, liberta' e democrazia 10. Letture: Giuliana Sgrena (a cura di), La schiavitu' del velo 11. Per studiare la globalizzazione: da Carl Rogers a Lino Ronda 12. La "Carta" del Movimento Nonviolento 13. Per saperne di piu' 1. UN APPELLO. PEPPE SINI: LETTERA APERTA AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA Al Presidente della Repubblica al Presidente del Senato della Repubblica al Presidente della Camera dei Deputati al Presidente del Consiglio dei Ministri * Egregi signori, con la presente vorremmo sottoporre alla vostra attenzione quanto segue: 1. il diritto internazionale non contempla il diritto di uno stato di scatenare una guerra contro un altro stato o piu' stati adducendo a pretesto il fatto che sul suo o loro territorio si trovino gruppi criminali. Secondo tale ragionamento essendoci in Italia organizzazioni mafiose qualunque stato potrebbe aggredire il nostro paese. 2. La Costituzione della Repubblica Italiana non consente al nostro paese di partecipare a una guerra di aggressione. La partecipazione o il sostegno italiano a una guerra di aggressione e' quindi impossibile, ed un governo che tale partecipazione o sostegno disponesse si collocherebbe fuori della legalita', ed un Presidente della Repubblica che tale partecipazione o sostegno avallasse commetterebbe il delitto di alto tradimento. 3. Scatenando una guerra condotta attraverso uccisioni di massa (ed ogni guerra contemporanea costitutivamente e' cosi') si riprodurrebbe l'azione dei terroristi e si favoreggerebbe e proseguirebbe il loro disegno criminale e disumano. Chi promuovesse o prendesse parte a una tale guerra si farebbe complice e seguace dei terroristi, si farebbe terrorista a sua volta. 4. Pertanto siamo a richiedervi di rispettare la legge fondamentale del nostro ordinamento, cui avete giurato fedelta', e di esprimere l'opposizione assoluta del nostro paese ad ogni eventuale azione di guerra. * Nella sciagurata ipotesi che una guerra venisse scatenata, che il governo italiano decidesse la partecipazione ad essa del nostro paese, che il Parlamento italiano non la respingesse, e che il Presidente della Repubblica Italiana non la impedisse, a fronte di questa condotta illegale e criminale, ed effettualmente golpista, il cui esito sarebbe di contribuire a provocare stragi e la violazione della legalita' nel suo fondamento costituzionale, ebbene, fin d'ora vi dichiariamo che: a) ci opporremo alla guerra e ci impegneremo sia per salvare delle vite umane innocenti in pericolo, sia in difesa della Costituzione della Repubblica Italiana, dello stato di diritto, della legalita' e della democrazia; b) chiameremo l'intero popolo italiano ad opporsi alla guerra illegale e criminale; c) agiremo contro la guerra, contro il terrorismo, ed in favore della legalita' e dei diritti umani, unicamente secondo modalita' rigorosamente nonviolente, del tutto opposte ad ogni forma di violenza fisica, psicologica ed anche solo verbale; col massimo impegno intellettuale e morale per ricondurre tutti alla ragione e al rispetto del diritto e della legalita', col massimo impegno concreto per contrastare operativamente la guerra e per ottenere il ripristino della legalita' costituzionale. * Ed in particolare agiremo: I. Con l'azione diretta nonviolenta: per opporci alla guerra ed ai suoi apparati, cercando di mettere le strutture militari e tutte le attivita' connesse alle armi (produzione, commercio, uso) in condizioni di non poter agire, e quindi in condizioni di non nuocere all'incolumita' e alla vita di esseri umani; II. Con la disobbedienza civile di massa: chiamando tutti i cittadini, ed in primo luogo tutti i pubblici dipendenti e gli operatori di servizi di pubblica utilita', a noncollaborare con la guerra, ad opporsi alla violazione della legalita', a negare il consenso a una decisione golpista e stragista; III. Con lo sciopero generale: per bloccare l'economia, la macchina amministrativa e il paese, e costringere quel governo, quel Parlamento e quel Presidente della Repubblica che avessero violato la legalita' costituzionale a prendere atto dell'opposizione popolare ad una decisione illegale e criminale, a recedere dalla loro decisione. * Tanto vi annunciamo fin d'ora, come e' proprio della tradizione delle lotte nonviolente, affinche' voi fin d'ora sappiate quale sia la nostra opinione, la nostra determinazione, la nostra azione nel caso che la guerra venisse scatenata e che l'Italia vi prendesse parte. Sperando che la guerra non scoppi, sperando che siate cosi' ragionevoli da non volervi precipitare l'Italia, sperando che sappiate condividere la nostra volonta' di rispettare e difendere la Costituzione della Repubblica Italiana, lo stato di diritto, la legalita', la democrazia, il diritto di ogni essere umano alla vita, distintamente vi salutiamo, augurandovi una cosciente riflessione e un buon lavoro nell'interesse del paese e dell'umanita', per la pace e per la legalita', contro ogni forma di terrorismo e di criminalita', contro ogni violazione dei diritti umani. 2. RIFLESSIONE. SEVERINO VARDACAMPI: DALLA MARCIA PERUGIA-ASSISI DI UN ANNO FA A QUELLA DEL PROSSIMO 14 OTTOBRE [Severino Vardacampi e' impegnato nel "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo] Il 24 settembre del 2000 si svolse la marcia Perugia-Assisi specifica per la nonviolenza. Ed e' passato un anno. Sara' opportuno chiedersi se e come e in quale misura quella tensione morale e quegli impegni operativi allora solennemente affermati dalle migliaia di partecipanti siano stati successivamente tradotti in pratica. La nostra impressione e' che non molto si sia fatto da parte nostra, e che gli eventi di segno contrario ancora una volta siano stati prevalenti. Ma contemporaneamente ci sembra che quella proposta, l'affermazione della centralita' della nonviolenza e dell'autonomia teorica e pratica della nonviolenza rispetto ad ogni subalternita' e ad ogni ibrida alleanza, mai come oggi si riveli necessaria e urgente. * La nonviolenza in cammino Dopo la Perugia-Assisi per la nonviolenza dello scorso anno ci sono stati eventi positivi in cui veramente la nonviolenza si e' mostrata in cammino: l'assemblea nazionale della rete di Lilliput (pur con i suoi limiti e le sue ambiguita'), la marcia nonviolenta a Bukavu promossa dai "Beati i costruttori di pace", alcune esperienze ed alcuni risultati rilevanti come i progressi fatti nell'affermazione dei diritti dei lavoratori della Del Monte in Kenya (la lotta nonviolenta sostenuta direttamente anche da padre Zanotelli). * Eventi negativi e funesti Ma ci sono stati anche eventi negativi e fin catastrofici: la subalternita' e collusione con la violenza del cosiddetto movimento antiglobalizzazione che da Praga a Genova ha commesso errori colossali, a Praga accettando una sorta di scellerato "patto tripartito" del movimento che prevedeva e di fatto accettava e copriva la presenza dei cosiddetti "blu" violenti; a Genova accettando che per mesi alcuni irresponsabili facessero proclami di guerra e cianciassero follemente di "invasione della zona rossa" senza rendersi conto delle conseguenze di queste proclamazioni nel creare il contesto che ha poi prodotto le tremende violenze delle giornate di luglio; non solo: si e' permesso un uso orwelliano del linguaggio tale per cui si e' falsificato il significato di parole fondamentali, spacciando per nonviolenza il contrario della nonviolenza, spacciando per disobbedienza civile il contrario della disobbedienza civile, in una babelica confusione delle lingue che ha fatto da preludio ed eziologia allo scatenamento dell'irrazionalita' e delle violenze. Lo diciamo una volta di piu': nulla giustifica le violenze commesse dagli sciagurati black bloc e nulla giustifica le violenze feroci e gratuite commesse da alcuni appartenenti alle forze dell'ordine, ed e' necessario che i responsabili di tutti i crimini siano sottoposti a procedimento penale e puniti col massimo rigore, senza zone d'ombra o coperture per nessuno. Ma non possiamo esimerci dal rilevare che l'esser stati, da parte della leadership del Genoa Social Forum, corrivi ai reiterati proclami minacciosi invece di isolare ed allontanare chi faceva uso di un linguaggio guerrigliero ed esortava di fatto a far si' che delle teste venissero rotte, costituisce una grave responsabilita' sul piano morale; e sarebbe necessario che chi ha avuto responsabilita' organizzative, di conduzione e di rappresentanza di quella esperienza facesse una severa, onesta autocritica. * La tragedia dell'11 settembre e le sue possibili conseguenze apocalittiche Ma tutto cio' e' stato sormontato da violenze ancora piu' grandi: pervasive, abominevoli. E' dallo scorso anno che a seguito della sciagurata provocazione del criminale di guerra Sharon in Medio Oriente e' tornata una violenza cruentissima, e tragicamente quello stesso Sharon sul sangue altrui ha costruito rinnovate sue fortune politiche ed oggi e' al governo dello stato di Israele, il cui popolo e' caro al nostro cuore cosi' come il popolo palestinese, ma il cui governo e' oggi nelle mani di una leadership brutale e terroristica, cosi' come nei territori e' cresciuta l'influenza dei gruppi terroristici assassini che strumentalizzando la religione e facendo leva sulla disperazione hanno a loro volta provocato stragi di innocenti a non finire. Ed in questa spirale troppi esseri umani hanno perso la vita. In molti paesi del mondo proseguono tragedie che per essere prolungate non giungono neppure piu' all'attenzione dei mass-media: dal Congo dei massacri, all'Afghanistan che nega la qualita' di persona alle donne; dai Balcani alla Cecenia; dall'embargo stragista che colpisce il popolo iracheno gia' vittima della dittatura di Sddam Hussein alla repressione del popolo kurdo (non solo in Turchia); dalle tante guerre dimenticate al terrorismo anche nel cuore dell'Europa occidentale; dalla fame nel mondo provocata da una iniqua ripartizione delle risorse ai pericoli per la stessa biosfera. Poi l'11 settembre e' accaduto l'inimmaginabile: un atto terroristico cosi' orribile e sconvolgente, cosi' sanguinario e cosi' emblematico, che e' fortissimo il rischio che possa scatenare una guerra mondiale. Dinanzi a tutti questi fatti e' ancor piu' necessario cambiare rotta ed accogliere la proposta formulata dall'appello dei Premi Nobel per la Pace affinche' persone, popoli, culture, stati, si scelga tutti la strada della nonviolenza, poiche' solo la nonviolenza puo' salvare l'umanita' dalla catastrofe. * Verso il 14 ottobre Tra poche settimane c'e' una nuova marcia Perugia-Assisi, preceduta dall'assemblea dell'Onu dei popoli che e' una straordinaria esperienza di confronto internazionale tra istituzioni, movimenti, intellettuali, associazioni, culture, popoli. La marcia di quest'anno e' organizzata dalla Tavola della Pace, il network pacifista che riunisce pressoche' tutte le istituzioni e le associazioni che in Italia si impegnano per la pace, ed ha per portavoce una figura laica ed istituzionale del prestigio di Flavio Lotti e una figura religiosa della statura di padre Nicola Giandomenico del Sacro Convento di Assisi. Occorre che l'assemblea dell'Onu dei popoli dell'11-13 ottobre prima, e la marcia Perugia-Assisi del 14 ottobre poi, siano un grande momento di incontro, di pace, di speranza. Occorre una grande, persuasa, limpida partecipazione. Occorre che non vi siano provocazioni o follie da parte di nessuno. Occorre che tutti si sentano interpellati dalla marcia. * Limiti e contraddizioni Ed insieme tuttavia occorre fare luce su limiti e le contraddizioni. Rispetto alla marcia dello scorso anno che si ricollegava direttamente alla prima marcia promossa da Aldo Capitini quarant'anni or sono, e che affermava la decisivita' della nonviolenza, quella del prossimo 14 ottobre ha un programma molto piu' logorroico e molto meno caratterizzato, col rischio che vi possano essere si' molte piu' adesioni, ma che siano parziali, meno impegnative, meno nitide. Occorreva essere piu' sintetici e piu' decisi: la nonviolenza, questa e' la grande idea, la cruciale proposta che la marcia ideata da Aldo Capitini deve affermare. Ci pare che occorra ancora uno sforzo di chiarificazione e di illimpidimento. Affermare la nonviolenza non solo nella dimensione della morale personale, ma nella dimensione della morale sociale, dell''economia, della politica, dell'interculturalita', del diritto e del diritto internazionale: questo oggi occorre. * Un movimento ambiguo sulla violenza puo' essere contro la guerra, ma non per la pace: si e' movimento per la pace solo se si fa la scelta della nonviolenza Ed occorre anche fare i conti col nostro stesso passato: il movimento pacifista italiano deve interrogarsi sulle sue insufficienze morali e politiche, sugli errori commessi due anni fa, sulla collusione di una sua parte con il governo che fece la guerra dei Balcani violando la Costituzione, e sulla collusione di un'altra sua parte con i crimini di Milosevic e di Arkan, o con i crimini dell'Uck, o con i crimini di chi comunque predica e pratica la violenza, l'omicidio, il terrorismo e la guerra. Occorre dirlo chiaro: ci sono nel movimento pacifista delle zone di opacita' gravi ed inquietanti su cui occorre riflettere, per fare luce, per rompere ogni ambiguita', per separarsi dai facitori di male e dagli apologeti del male. Un movimento ambiguo sulla violenza puo' essere un movimento contro la guerra, ma non puo' essere un movimento per la pace. Un movimento per la pace deve essere coerente e rigoroso sul piano intellettuale e morale: la pace si costruisce solo con la pace e la giustizia, con il diritto e la solidarieta'; si e' movimento per la pace, e non solo contro la guerra, solo se si fa la scelta limpida e persuasa della nonviolenza. * Possa la marcia fare ancora una volta il miracolo Possa la marcia, come gia' avvenne in passato, ad esempio alla svolta tra gli anni '70 e gli anni '80, superare con la forza appassionata di una grande partecipazione corale gli stessi limiti del programma di convocazione ed essere segno di infinita apertura, di colloquio corale. Possa la marcia essere ancora una volta atto della presenza aperta, nonviolenza in cammino. Possa la la marcia fare ancora una volta il miracolo che ci commosse e appassiono' quando tanti anni or sono, e la nostra barba ancora non era imbiancata, sulle strade tra Perugia ed Assisi sentimmo la voce, e vorrei scrivere lo spirito (il soffio, pneuma, e il ragionamento, logos), di Aldo Capitini che ci mostrava che la nonviolenza e' il varco attuale della storia, per uscire da quella che il filosofo di Treviri chiamava la preistoria dell'umanita' ed entrare nel regno della liberta', dell'uguaglianza, della fraternita', in cui l'uomo un aiuto sia all'uomo, non piu' lupo, non piu' carnefice. 3. RIFLESSIONE. ENRICO EULI: LA GUERRA MONDIALE AL TERRORISMO: UN'ANALISI [Enrico Euli e' formatore alla nonviolenza; per contatti: casadialex at tiscalinet.it. Questo testo e' la sintesi della relazione tenuta a Cagliari il 21 settembre 2001, all'interno del ciclo di formazione sulla "Gestione positiva dei conflitti", copromosso dal CISP e dall'"Associazione Terra - Casa di Alex"] "Vogliamo aprire le ferite, pulirle, versare del balsamo e, se possibile, guarirle" (Desmond Tutu, alla Conferenza di Durban, qualche giorno fa). Nella sventura, se avessimo voluto cercare con la lanterna un esempio di gestione negativa e violenta dei conflitti, non avremmo mai potuto sperare in un caso cosi' didatticamente perfetto. In esso si concentrano pressoche' tutti gli elementi utili per individuare esattamente quel che sarebbe importante non fare alla luce non solo della teoria e pratica nonviolenta, ma di qualunque ricerca su questi temi condotta nell'ambito delle scienze sociali (comprese le ricerche portate avanti dalle istituzioni militari e di polizia). * 1. Percezione/rimozione Una gestione negativa e distruttiva del conflitto nasce da atteggiamenti caratterizzati da bassa percezione e alta rimozione; frasi tipo "il conflitto? non lo vedo, non c'e'... e se anche c'e', non vedo proprio come mi coinvolga... e se anche mi coinvolge, non vedo come io ne sia responsabile in qualche modo... e se anche c'entrassi qualcosa, non spetta certo a me risolverlo...etc. etc..". Tutto questo campionario in successione rappresenta il succo quotidiano della nostra modalita' di avvicinarci (o meglio, allontanarci) dai conflitti. La situazione di quiete che deriva da questo atteggiamento la chiamiamo "pace". Gli effetti di questa "pace" sono evidenti e immediati: - chi vede il conflitto e si sente coinvolto (magari perche' ne soffre) sente una rabbia crescente per questa sottovalutazione, perde fiducia nella controparte, estremizza i suoi comportamenti. Niente ci fa arrabbiare piu' di trovare un supertranquillo quando siamo allarmati per qualcosa che ci tocca (e dovrebbe toccare anche lui). - questa rabbia cresce quando, dopo aver trascurato il problema se ad essere toccati erano altri, la controparte gli da' invece un valore estremo se e' lei a sentirsi parte lesa. Alcuni esempi: quanto vale la vita di un americano o di un occidentale rispetto alla vita di un arabo o di un nero? Nel conflitto algerino sono gia' morte 100.000 persone eppure nessun uomo politico e' andato in parlamento a proclamare "siamo tutti algerini!"; i lavoratori del WTC sono state vittime innocenti, mentre le popolazioni serbe o irakene sono state bombardate e sottoposte ad embargo perche' evidentemente complici e colpevoli con i loro regimi; gli islamici sono terroristi, gli israeliani che ammazzano e distruggono i campi profughi "reagiscono agli attacchi di Hamas". Sarebbe buona regola, se proprio si deve far finta di non vedere, essere perlomeno ciechi e sordi nella stessa misura verso tutti, almeno si preserverebbe una forma di equidistanza, per quanto negativa. Ma cosi' non e': una gestione violenta dei conflitti e' caratterizzata da una assoluta discrezionalita'. Essa non e' casuale, anzi potremmo dire che rappresenta il suggello del suo stesso, nefasto, potere. * 2. Delirio/equilibrio Niente e' piu' radicato e diffuso nell'umanita' che la rimozione della morte. Alcune culture dalle antiche matrici hanno elaborato questa dimensione in forme evolute e complesse, attraverso la cultura, le religioni, i rituali sociali. E' il caso dell'Oriente, del Mediterraneo, dell'Islam. I paesi anglosassoni hanno intrapreso, in via prioritaria, un'altra strada: quella che, radicata in un pensiero magico, affida alla scienza, alla tecnologia, all'invenzione di soluzioni pragmatiche, l'elaborazione del dolore e della morte. Il male viene affrontato esorcisticamente esibendo una contropotenza-onnipotenza che lo combatte senza tregua attraverso protesi, farmaci, radar, scudi spaziali, depositi d'oro, manipolazioni genetiche e missili nucleari. Cosi' si costruisce il mito della sicurezza e della invulnerabilita'. E, naturalmente, anche Dio sta dalla nostra parte. Siamo davanti ad un vero e proprio delirio mitomaniaco. Il delirio tende a rafforzarsi ovviamente in situazioni di crisi d'angoscia interna: se nonostante tutto questo ben di dio accumulato per sentirmi inattaccabile mi sento in difficolta' ed in squilibrio e un gruppo di terroristi con dieci temperini e quattro aerei della mia flotta riesce ad attaccare e distruggere i due simboli fondamentali del mio sistema di sicurezza e di potere, ridicolizzandolo e umiliandolo, e' evidente che ho davanti a me due strade possibili: - la prima sarebbe quella di ripensare in profondita' alle premesse e ai modelli che regolano i miei fallimentari sistemi di rassicurazione, provando a chiedere aiuto e cooperazione per fare un salto di cultura e di civilta' insieme agli altri; - la seconda, quella che stanno intraprendendo i governi occidentali e gli integralisti islamici, e' di rafforzare, irrigidire e moltiplicare esponenzialmente le procedure e gli effetti del modello stesso, procedendo ulteriormente nel delirio, che assume caratteristiche tipicamente paranoidi. La costruzione di fittizie comunita' d'appartenenza, non regolate da emozioni e vissuti condivisi e quotidiani (che anzi tendono a perdersi e ad essere soppressi), ma da proclami di guerra ed appelli a solidarieta' obbligate e con le lettere maiuscole (o con Noi o coi Terroristi, la Civilta' contro la Barbarie, la Guerra santa contro gli Infedeli, il Bene contro il Male, Dio opposto a Satana... e via discorrendo). Ma ancora una volta gli esseri umani in questione peccano in coerenza e rivelano forti dosi di discrezionalita' nell'applicazione di un modello che vorrebbero venderci come totalizzante e in se' perfetto: - i ruoli di buoni e cattivi si scambiano non solo tra le parti, ma anche nella valutazione che di volta in volta ognuno da' dei suoi alleati di un tempo, ora divenuti nemici implacabili, e viceversa; - la contaminazione, l'interdipendenza tra le culture (di cui si auspica, nel delirio, la separazione assoluta) riappare nella contrapposizione tra uno sceicco tecnocratico e miliardario e uno sceriffo votato alla creativa parodia di un'impresa mistico-religiosa (Giustizia Infinita); - la confusione emerge anche dalle forme assunte nei riti di ricomposizione della comunita' colpita: quando ancora non si accettava la realta' della morte e si continuava disperatamente, contro ogni logica, ad affiggere le foto degli "scomparsi", migliaia di americani si sono ritrovati a cantare insieme, in una mescolanza davvero inedita, "We shall overcome", "Blowin' in the wind", "God bless America" e "Glory glory alleluia". Come si possano mettere insieme canzoni militariste e pacifiste, antinazionaliste e statolatriche, razziste ed antirazziste, e sentirsi uniti in questo, solo il delirio lo puo' spiegare. E il fatto che sia logicamente inspiegabile, non lo rende meno efficace. * 3. Competizione/mediazione Il delirio mitomaniaco-paranoide va a strutturarsi operativamente nella guerra, cioe' nell'approccio piu' premeditato e distruttivo che l'umanita' conosca all'interno del pur vasto panorama delle gestioni negative e violente dei conflitti. Piu' in astratto (ma piu' concretamente per noi, rispetto alla nostra vita quotidiana) possiamo dire che il delirio si organizza all'interno dei modelli supercompetitivi (vincere/perdere, aggredire/subire, violenza/passivita', up/down) tipici delle nostre societa' e della attuale forma assunta dalla globalizzazione. La procedura automatica prevede un processo che alterna scontri simmetrici a fasi di apparente tregua complementare, che coprono le ragioni profonde del conflitto e producono, a medio termine, una escalation della violenza diretta e/o strutturale. Come tutti gli automatismi radicati nelle nostre premesse e' difficile che, a gioco iniziato, possano fare capolino delle alternative credibili. La guerra e' preparata e attesa, anche in questi giorni, come se fosse ineluttabile. Ad umiliazione subita si risponde con l'umiliazione agita, in un circolo infinito e perverso, che rafforza gia' da solo il sistema di guerra. Altre strade sarebbero possibili in alternativa alla guerra (il boicottaggio, l'isolamento politico, la mediazione, l'interposizione non armata, l'aiuto umanitario) e sono conosciute; ma esse possono eventualmente essere utilizzate solo dentro la cornice della guerra, dentro e dopo di essa. Questa e' la grande, ipocrita illusione: che le pratiche di mediazione siano compatibili con quelle che mirano ad accrescere la competizione e la violenza tra le parti. L'esperienza psicosociale ci induce, ovviamente, alla convinzione inversa: le possibilita' della mediazione e della cooperazione si riducono proporzionalmente al procedere delle opzioni belligeranti. Di fatto, risultano incompatibili e tra loro essenzialmente concorrenziali. Ma anche qui permangono gli stessi elementi di discrezionalita', insieme incongrua ed efficace, gia' visti agli altri livelli: - le vittime stesse fanno i giudici nella loro causa, i servizi segreti e le forze dell'ordine conducono le ispezioni e individuano le prove ed i colpevoli di reati commessi contro di loro, i governi scelgono i mediatori tra i loro alleati e sudditi, quando non si propongano come negoziatori sedicenti neutrali; - ogni parte in guerra, cosi' come accadeva nella corsa agli armamenti USA-URSS, intrattiene rapporti segreti col nemico di turno, gioca su vari tavoli anche all'insaputa di altri nel proprio stato od organismo, coopera ad incrementare lo sviluppo della produzione bellica e dello stato di guerra da una parte e dall'altra, utilizza l'escalation per colpire i nemici eterni ed interni; - culture scientifiche e tecnologiche, sempre attente alle statistiche e alle verifiche funzionali, non valutano l'efficacia della violenza secondo gli stessi parametri: non considerano il fatto che la pena di morte non ha mai funzionato come deterrente per gli omicidi, e che la guerra non ha mai migliorato la situazione dei popoli che si proclama di difendere ne' ha mai punito o travolto i dittatori che si vorrebbero apparentemente sconfiggere. Ne' valutano il fallimento di qualunque politica di militarizzazione del conflitto rivolto a gruppi terroristici di matrice etnica o religiosa all'interno di singoli stati nazionali (vedi il caso dell'Irlanda, dei Paesi baschi, della Corsica, della Cecenia, della stessa Palestina). * Oltre la guerra In una situazione simile, dopo quel che e' appena successo, l'intervento militare unilaterale da parte statunitense non trova e non trovera' a breve alcuna resistenza in ambiti governativi ed istituzionali, civili, politici e militari. Ne' i popoli e i movimenti appaiono realisticamente in grado di opporsi a questo atto di violenza programmata in modo tale da impedirlo. Credo che sia utile porsi in questa prospettiva proprio per evitare un eccesso di frustrazione e di impotenza. La lotta e' attualmente impari. Questo non significa naturalmente che si debba stare inattivi, anzi. E' fondamentale testimoniare, protestare, dissociarsi, fare pressioni, obiettare, riflettere, comunicare. Credo che si debba tener conto, a medio termine, di alcuni motivi di speranza: - la tenuta dei vertici, sia islamici che cristiani, rispetto alla tentazione di coprire la guerra con motivazioni religiose; al momento, la posizione nonviolenta assoluta regge, la guerra non viene giustificata, e' rifiutato lo spirito di crociata. Permane una difficolta', per entrambe le parti religiose, a persuadere gran parte dei propri seguaci e questa difficolta' tendera' a crescere quando inizieranno le operazioni belliche. Va, quindi, valorizzata e incoraggiata, davanti a qualunque accadimento; - la presenza di un movimento ampio e variegato, diffuso in tutto il mondo e adeguatamente interconnesso, come e' quello detto "di Seattle e Porto Alegre". E' evidente come quel che sta accadendo sia anche un tentativo di ammutolirlo e di neutralizzarlo, spostando il conflitto su un campo ad esso sfavorevole. Ma credo che sia ben piu' forte e radicato di quanto possa apparire nella attuale situazione, segnata inevitabilmente da un relativo disorientamento; - la complessita' della globalizzazione, l'inestricabilita' dei legami e degli intrecci, l'inerziale esigenza di liberta' nella comunicazione e negli scambi appaiono ormai dei processi irreversibili, contro i quali il sistema di guerra dovra' fare i conti; l'interdipendenza planetaria, i vincoli ambientali e sociali, le istanze di relazione economiche e culturali non potranno perdere totalmente e definitivamente il loro significato e il loro peso. Per quanto la guerra abbia gia' dimostrato in altre epoche tutta la sua capacita' di trascurare e violentare qualunque altro agente e attore in gioco, e' possibile credere che la globalizzazione rappresenti, anche per il modello bellico, una situazione nuova e in gran parte imprevedibile. * E intanto, che fare? Da un punto di vita formativo, credo sarebbe importante ed urgente che ciascuno di noi provi ad iniziare degli esercizi-training con se stesso e con gli altri. Proposte semplici, ma gia' difficili, soprattutto di questi tempi. Provo, schematicamente, ad illustrarne alcuni: - esercizi di eterocentrazione: davanti alla tv o ai giornali che ci toccano da guardare o da leggere (e chissa' cosa ci aspetta) mi sto ponendo domande del tipo: e se fossi un afghano, un arabo, un palestinese, cosa penserei di queste parole, di questi atti? - esercizi di avvicinamento e integrazione comunitaria quotidiana: se si vive in citta' o in quartieri multietnici provare a stare di piu' insieme, guardare insieme e commentare le notizie che arrivano dal mondo, scambiarsi idee, manifestare insieme contro la guerra; - esercizi di smarcamento: sviluppare la nostra capacita' di pensare con la nostra testa, di dare solidarieta' senza entrare in recinti o trappole, di sentirsi parte dell'umanita' intera e non di singoli gruppi umani contro altri; ricordarsi di Empedocle che chiamava Amore l'incontro dei dissimili e Odio quello dei simili; - esercizi di nonviolenza assoluta: manifestare il rifiuto della violenza, da qualunque parte provenga, la nostra ferma e totale obiezione, la nostra diserzione da obblighi di distruzione e di morte. "Non in mio nome", ripetono ossessivamente i Living Theatre durante i loro spettacoli contro la pena di morte. Credo che sarebbe forte e coraggioso ripetere questo mantra in tutte le occasioni in cui vediamo insorgere il sostegno alla violenza e alla guerra, nei luoghi pubblici e privati, a scuola, nei luoghi di lavoro, per strada... Piccole cose, forse, rispetto all'enormita' di quel che sta avvenendo. Ma proviamoci. 4. RIFLESSIONE. MICHELE DRESSADORE: POLIZIA E NONVIOLENZA [Michele Dressadore e' segretario regionale del Veneto del Sindacato Autonomo di Polizia (SAP). Gli siamo assai grati per questo intervento che costituisce un utilissimo contributo alla riflessione promossa sulla proposta di formazione e addestramento delle forze dell'ordine alla conoscenza e all'uso dei valori, delle tecniche e delle strategie della nonviolenza] Faccio il poliziotto ed ho inoltre un ruolo di rappresentanza dei miei colleghi. Gli ideali di pace, e quindi anche di nonviolenza, sono indiscutibilmente anche per me un riferimento di assoluto ed imprescindibile valore, in ogni caso da affermare e proteggere. In conseguenza di cio' non confondo la mia professione con una funzione che attiene a pessimi valori di segno contrario. Tutti sappiamo pero' che alle Forze dell'Ordine e' demandata la realizzazione dell'esercizio della forza che lo Stato democratico include fra gli elementi che ne hanno costituito la nascita, la legittimazione e ne proteggono la sovranita'. Funzione delicatissima perche' mira, sul fronte interno, ad imporre la legalita' anche con la coercizione, mezzo a cui non si puo' rinunciare quantunque non debba essere il solo a cui si ricorre. Credo che le societa' umane organizzate potranno finalmente rinunciarvi allorquando si individuera' un altro modo efficace per garantire il rispetto delle regole e nel contempo la violenza non sara' piu' percepita come strumento di confronto. Ho ribadito delle cose scontate, forse banali. Credo pero' che un po' banale finisca per diventare anche il progetto di legge che viene sostenuto da questa rivista e dico cio' senza intendimenti offensivi ne' per i proponenti ne' per le idee che l'iniziativa sorregge. Lo dico perche' nella formazione del personale della Polizia di Stato il concetto di atto di forza ha casa solo come ultima ratio, perche' nel programma di aggiornamento permanente e' compreso un approfondimento della "tutela dei diritti umani", e lo dico soprattutto perche' (mi scuso in anticipo per la franchezza che uso) il contesto temporale in cui l'iniziativa viene riproposta e sorretta da molte adesioni ne illumina grandemente il peso in funzione dello scontro partitico e ne adombra il significato ultimo. Mi ritrovo percio' a provare la stessa sensazione che nel pre-durante-dopo Genova ho provato spesso, quella di sentirmi, quale poliziotto, decisamente strumentalizzato (termine molto brutto, ma non ne trovo altri): penso che possiamo tutti convenire che alla tentazione di cavalcare l'onda strattonando le divise hanno ceduto quasi tutti i politici, gli editorialisti ed i commentatori! Certo e' che molti fra coloro che propongono o sostengono questo progetto di legge appartengono ad un preciso schieramento politico, il medesimo che ha governato fino alla scorsa primavera, per intenderci. Cio' mi induce al sospetto che questi importanti esponenti non conoscano il giudizio degli operatori di polizia sulle scelte operate dal passato Esecutivo nella politica della Sicurezza e delle Forze dell'Ordine. Ebbene, la verita' e' che chi fra di noi ha un personale orientamento elettorale contrario, essendone detrattore, ovviamente ne critica l'atteggiamento attendista o elusivo tenuto sui temi specifici, mentre, cosa decisamente piu' rimarchevole, molti fra quelli che sono invece ideologicamente in sintonia si sentono traditi. Dalla scarsissima attenzione e soprattutto dalla smaccata preferenza accordata agli organismi di natura militare, per esempio. Incredibilmente durante la passata legislatura si e' infatti aumentato il peso delle stellette anche in settori tradizionalmente ad appannaggio degli organismi civili, come la Pubblica Sicurezza appunto, e solo all'ultimo si e' scongiurato il rischio di sganciarli completamente dal coordinamento delle autorita' politiche e tecniche: ottengono continue estensioni delle competenze incredibilmente anche col placet di chi ha sempre avversato le logiche militariste! Non parlo degli aumenti contrattuali avuti, per lo piu' miserrimi e diventati dignitosi solo alla vigilia delle elezioni (!), in ossequio ad una scelta comprensibile forse nella strategia politica, ma non altrettanto approvabile sul piano etico. Posso garantire poi che vi e' stato un periodo di buio, quasi medioevale, sul versante dell'aggiornamento di strutture, mezzi e attrezzature: penuria di tutto, dalla carta da fotocopie alle stesse divise da indossare. Tragicomica la nota vicenda delle nuove auto allestite da Volante inviate in Albania, mentre in Italia si usavano ancora catorci appesantiti da 200 mila Km di percorrenza. Mi rifaccio a queste osservazioni per spiegare come lo sbigottimento e la disillusione partano e finiscano proprio attorno all'importantissimo obbiettivo di una elevazione professionale dell'apparato di sicurezza come mezzo di democratizzazione dello stesso. E' la giusta idea inseguita a partire dagli anni '80 da larga parte della politica e condivisa da tutta la nostra categoria, ma a cui le ultime maggioranze di governo hanno inferto, direi a tradimento, un colpo mortale. Per cui vedere oggi quest'area politica sulle posizioni di chi lamenta una scarsa democraticita' delle divise appare ai nostri occhi di minor credibilita' e, pur non dubitando della buona fede ideologica, non possiamo che prendere atto del rilievo evidentemente assunto dalla convenienza politica al di la' dell'idea. Non credo poi di apparire troppo malizioso se faccio notare che dopo i disordini e le "botte" di Napoli ben pochi hanno palesato attenzioni cosi' concrete per la cultura della nonviolenza nelle polizie. Un po' piu' di malizia la confesso invece in relazione al mio sospetto che poca preoccupazione destino in quel settore i risultati di consenso all'interno della nostra categoria in confronto a quella che nutrono per i riscontri in altre fasce, meno moderate, della societa' civile. Ma e' solo una mia opinione, peraltro ne' originale ne' particolarmente articolata. Resta il fatto che alla corsa a proporre critiche e revisioni per la Polizia (vi sono altre iniziative di legge fra cui una per rendere obbligatorio un segno sulla divisa che permetta in ogni momento l'identificazione) non corrisponde nessunissima azione orientata a contrastare meglio l'ormai diffusissimo travisamento dei manifestanti o a trovare una seria opposizione alla violenza che permea molte delle attivita' dei "nuovi protagonisti delle piazze". Eppure tutti sanno che alle loro manifestazioni questi ci vanno "sequestrando" i treni, minacciando esplicitamente vandalismi e invadendo i centri abitati coperti di bardature. Ma spesso si accetta i loro filosofici riferimenti alla disobbedienza civile, anzi le loro mistificazioni di idee e teorie la cui nobilta' e validita' non merita quelle offensive storpiature. Per ultimo propongo un'altra riflessione. Ritengo che la Polizia di Stato ed le altre Forze dell'Ordine siano ormai uno specchio fedele della societa' italiana, uno spaccato, un campione delle sue qualita' e dei suoi difetti: il rischio che si avviino, anche sul campo dell'uso della violenza, su strade diverse e lontane da quelle percorse dal resto del Paese e' probabilmente un falso problema. Prova ne sia che la quotidianita' del nostro lavoro e' fatta si' anche di errori (in relazione a quello di cui stiamo parlando si tratterebbe di abusi), ma non nella dimensione "fenomeno", quanto invece in quella di singole azioni sbagliate, gravi, talvolta purtroppo gravissime e sempre censurabili. Singole macchie, non uno sporco diffuso. Se i fatti recentemente accaduti hanno lanciato un allarme sull'uso della violenza e' bene interrogarsi sul ruolo che questa puo' assumere nel dibattito sociale: sul fatto che non tutti la escludano a priori quale sistema di affermazione delle proprie istanze, sulla pericolosita' degli atteggiamenti ambigui, sui meccanismi che inducono alla convinzione di esserne legittimati al ricorso, magari anche solo un pochetto... La cura e' decisamente opportuna quindi sulla societa' nel suo complesso non su di una sola parte. Poi rimane il grosso problema di riuscire a governare la violenza nel momento in cui, a qualsiasi titolo, viene introdotta in una situazione, un confronto o una qualsiasi relazione, e soprattutto quando sono invocati presupposti difficili come "la non accettazione moralmente giustificata", o "l'obbligo ad impedire qualcosa che e' ritenuto inaccettabile". Comunque quando la forzatura di una regola non e' senza conseguenze. Concludo ribadendo il mio intento affatto polemico e nella speranza di aver portato un contributo, seppur critico, alla discussione dei temi che sostenete. Ma confermo che le ragioni dell'affermazione delle logiche della nonviolenza si possono solo condividere e che ho sincera stima per l'opera competente ed appassionata del Centro di ricerca per la pace e del Dr. Sini. Piu' sereno sarei probabilmente stato se non provassi in questo momento il gia' confessato disagio di sentirmi strumentalizzato. 5. RIFLESSIONE. EVA CANTARELLA: LA CONCLUSIONE DE "L'AMBIGUO MALANNO" [Il testo seguente e' il capitolo conclusivo del libro di Eva Cantarella, L'ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell'antichita' greca e romana, Editori Riuniti, Roma 1983, pp. 203-205. Eva Cantarella, illustre docente universitaria di diritto romano e di diritto greco, ha pubblicato molte opere sulla cultura e la giurisprudenza antica] Il quadro della condizione femminile che abbiamo tentato di ricostruire, tracciandone quantomeno i contorni e le linee piu' significative, puo' forse sembrare pessimistico, soprattutto se confrontato con tante altre ricostruzioni che, dando per scontate le discriminazioni, tacendole o minimizzandole, si preoccupano invece di mettere in evidenza il ruolo della donna nella vita familiare, esaltandone l'importanza e la dignita'. Una simile impostazione, a nostro avviso, e' inaccettabile e mistificante. Con riferimento alla storia greca, parlare di riconoscimento sociale del ruolo "femminile" e di un potere delle donne, sia pur occulto e mediato, e' del tutto arbitrario. La funzione delle donne, in Grecia, era esclusivamente quella di riprodurre cittadini, se libere, e forza-lavoro servile, se schiave. Il compito, considerato ben piu' rilevante, di formare le nuove generazioni (data l'inadeguatezza delle donne, prive di ogni istruzione ed escluse dal mondo maschile) era affidato agli uomini. E poiche' veniva svolta secondo un'ideologia che considerava le donne inferiori, la paideia greca riproduceva una misoginia che escludeva il sesso femminile non solo dalla partecipazione alla vita sociale e politica, ma anche dal mondo della ragione, e di conseguenza da quello dell'amore, che essendo comunicazione di esperienza trovava nel rapporto tra uomini la sua espressione piu' alta. Con l'adempimento della sua funzione biologica, insomma, la donna greca aveva realizzato la sua unica forma di partecipazione (mediata) alla vita della polis. E se, sotto questo profilo, la condizione delle donne romane era certamente migliore, altre e diverse ragioni rendono altrettanto inammissibile l'esaltazione del loro ruolo familiare. A Roma, a differenza che in Grecia, la funzione delle donne non era limitata al momento puramente "naturale" del parto: il compito femminile era piu' complesso, e certamente piu' rilevante nell'organizzazione della collettivita' e nella percezione sociale. Delegate ad educare i figli per farne dei "cittadini", e legate a questi da un rapporto molto forte, le donne romane svolgevano un compito culturale di primaria importanza, il cui adempimento richiedeva da un canto che esse fossero in qualche modo partecipi della vita maschile (donde la loro maggior liberta', peraltro finalizzata primariamente a questo scopo) e dall'altro comportava il riconoscimento di una dignita' mai tributata alla donna greca. Ma proprio per la sua importanza il compito di moglie e madre, che riempiva la loro vita, impediva alle donne romane di uscire dai confini di un ruolo rigorosamente codificato, e determinava inflessibilmente e inesorabilmente le linee della loro esistenza, portandole a proiettare ogni aspettativa di realizzazione nell'adempimento di un dovere che, sentito come imprescindibile, diveniva lo strumento del loro annullamento come individui. Questo, il primo insegnamento che ci viene dalla storia delle donne greche e romane. Ma un altro aspetto di questa storia e' molto istruttivo: essa mostra infatti come il cammino verso la emancipazione sia tutt'altro che irreversibile. In concomitanza con una serie di fatti politici, economici e culturali particolarmente favorevoli, le donne che vissero nel periodo della massima espansione di Roma ottennero il riconoscimento formale di una quasi totale parita'. Anche se ostacolate da un'ideologia che rifiutava la nuova immagine femminile che andava configurandosi e interpretava quindi ogni liberta' come licenza e dissolutezza, alcune donne (quelle socialmente privilegiate) realizzarono anche nei fatti un nuovo modello di vita. Ma con la crisi dell'Impero (che non a caso coincise col riemergere di una misoginia al cui recupero contribui' in modo tutt'altro che indifferente la predicazione dei Padri della Chiesa), il terreno guadagnato venne perduto, e le donne vennero sospinte di nuovo nei confini di un mondo "femminile", caratterizzato come sempre dalla subalternita'. Ed eccoci al terzo insegnamento che ci viene dalla storia della condizione femminile nell'antichita': questa storia, infatti, consente di individuare il momento in cui una prassi gia' plurisecolare di sfruttamento venne razionalizzata, e presentata per la prima volta come necessaria, inevitabile ed eterna. Fu durante i secoli della polis greca, come abbiamo visto, che venne codificata l'affermazione della "diversita'" delle donne, identificate da Aristotele con la materia, in opposizione agli uomini, forma e spirito, le donne furono classificate come "inferiori" a causa della loro "naturale" diversita'. Ed e' stata la diversita', appunto, ben oltre i confini della storia greca, il fondamento teorico che ha giustificato ogni discriminazione: e' stato appellandosi alla "diversita'" che i teorici dell'inferiorita' femminile di ogni tempo si sono opposti all'ingresso delle donne nel mondo dell'intelletto e della ragione. Intesa dai greci come bipolarita' determinata a priori e codificata con pretesa di valore universale, come opposizione tra una natura maschile, unica ed eterna, e una natura femminile, altrettanto unica ed eterna, la "diversita'", lungi da indurre a riflettere sulla necessita' di rispettare le diversita' individuali, maschili o femminili che fossero, e' stata per secoli e rischia di continuare ad essere la giustificazione di ogni esclusione. Per queste ragioni in queste pagine (pur prestando attenzione e cercando di cogliere, quando era dato rintracciarli, i possibili momenti di apertura, i riconoscimenti e le conquiste) si e' ritenuto giusto mettere in evidenza i numerosi aspetti di una storia fatta in primo luogo di incapacita' e di discriminazioni. In nome della loro "diversita'" intere generazioni di donne sconosciute hanno attraversato senza nome la storia greca e romana: e non solo perche', nel senso piu' stretto, il loro nome individuale non doveva neppure essere pronunziato. Annullate come individui, a causa della loro appartenenza sessuale, queste donne, che hanno riprodotto citta' e imperi, sono state cancellate dalla storia. 6. MAESTRI. LA SCOMPARSA DI ISAAC STERN Quanta felicita' ci ha dato il suo violino, quanto coraggio il suo concerto nell'ora del massimo pericolo per l'umanita', come uno di quegli eroi buffi e volanti di Chagall, che ci rivelano che il mondo e' meraviglioso e che tutti gli esseri umani hanno diritto ad essere amati, che tutti gli esseri umani recano doni infiniti alla nostra storia comune, che ognuno di essi e' unico e sublime e a tutti deve esserci caro come la gemma piu' preziosa del creato. 7. LUNEDI 24 SETTEMBRE AL LICEO SCIENTIFICO DI ORTE INIZIA IL CORSO DI EDUCAZIONE ALLA PACE Presso il liceo scientifico di Orte (VT) lunedi 24 settembre con inizio alle ore 14 si terra' l'incontro preliminare del corso di educazione alla pace per l'anno scolastico 2000-2001. La partecipazione e' aperta a tutti gli interessati, per gli studenti del liceo scientifico la partecipazione al corso vale come credito formativo. Il corso e' coordinato, come gia' negli anni scolastici precedenti, dal responsabile del "Centro di ricerca per la pace" di Viterbo. 8. LETTURE. MIKE FEATHERSTONE (A CURA DI): CULTURA GLOBALE Mike Featherstone (a cura di), Cultura globale, Seam, Roma 1996, pp. 240, lire 32.000. Un testo di riferimento su "nazionalismo, globalizzazione e modernita'", con interventi, tra altri, di Zygmunt Bauman e Immanuel Wallerstein. 9. LETTURE. MOHAMMAD KHATAMI: RELIGIONE, LIBERTA' E DEMOCRAZIA Mohammad Khatami, Religione, liberta' e democrazia, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 184, lire 24.000. Alcuni saggi del presidente dell'Iran, gia' docente universitario di filosofia e scienze politiche. Con prefazione di Luciano Violante. Utile. 10. LETTURE. GIULIANA SGRENA (A CURA DI): LA SCHIAVITU' DEL VELO Giuliana Sgrena (a cura di), La schiavitu' del velo, Manifestolibri, Roma 1999 (seconda edizione), pp. 128, lire 12.000. Una raccolta di "voci di donne contro l'integralismo islamico". Da leggere e meditare. 11. MATERIALI. PER STUDIARE LA GLOBALIZZAZIONE: DA CARL ROGERS A LINO RONDA * CARL ROGERS Profilo: psicologo americano, nato a Chicago nel 1902, scomparso a La Jolla nel 1987. Ha promosso la cosiddetta "terapia non direttiva" o "terapia centrata sul cliente". * ERIC ROHMER Profilo: straordinario regista cinematografico francese, finissimo nel cogliere e rappresentare i sentimenti piu' profondi ed i grovigli, i conflitti e le ambiguita' nei rapporti interpersonali. * ROMAIN ROLLAND Profilo: scrittore francese nato nel 1866 e deceduto nel 1944. Intellettuale di sincero impegno umanitario e pacifista, Nobel per la letteratura nel 1915. Opere di Romain Rolland: scrittore ed epistolografo fecondissimo, dal nostro punto di vista sono particolarmente interessanti gli articoli poi raccolti in Al di sopra della mischia, la monografia su Gandhi. Ma vari altri testi sarebbero da segnalare. * LALLA ROMANO Profilo: scrittrice italiana di grande valore e finezza, è scomparsa nel 2001. * OSCAR ROMERO Profilo: Oscar Arnulfo Romero, nato nel 1917, arcivescovo di San Salvador, voce del popolo salvadoregno vittima dell'oligarchia, della dittatura, degli squadroni della morte. Muore assassinato mentre celebra la messa il 24 marzo 1980. Opere su Oscar Romero: James R. Brockman, Oscar Romero: fedele alla parola, Cittadella, Assisi 1984; Ettore Masina, Oscar Romero, Edizioni Cultura della Pace, S. Domenico di Fiesole 1993 (poi riedito, rivisto e ampliato, col titolo L'arcivescovo deve morire, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1995); José María López Vigil, Oscar Romero. Un mosaico di luci, Emi, Bologna 1997. * LINO RONDA Profilo: impegnato nell'educazione alla pace. Opere di Lino Ronda: (con Daniele Novara), Scegliere la pace, Edizioni Gruppo Abele, Torino. 12. DOCUMENTI. LA "CARTA" DEL MOVIMENTO NONVIOLENTO Il Movimento Nonviolento lavora per l'esclusione della violenza individuale e di gruppo in ogni settore della vita sociale, a livello locale, nazionale e internazionale, e per il superamento dell'apparato di potere che trae alimento dallo spirito di violenza. Per questa via il movimento persegue lo scopo della creazione di una comunita' mondiale senza classi che promuova il libero sviluppo di ciascuno in armonia con il bene di tutti. Le fondamentali direttrici d'azione del movimento nonviolento sono: 1. l'opposizione integrale alla guerra; 2. la lotta contro lo sfruttamento economico e le ingiustizie sociali, l'oppressione politica ed ogni forma di autoritarismo, di privilegio e di nazionalismo, le discriminazioni legate alla razza, alla provenienza geografica, al sesso e alla religione; 3. lo sviluppo della vita associata nel rispetto di ogni singola cultura, e la creazione di organismi di democrazia dal basso per la diretta e responsabile gestione da parte di tutti del potere, inteso come servizio comunitario; 4. la salvaguardia dei valori di cultura e dell'ambiente naturale, che sono patrimonio prezioso per il presente e per il futuro, e la cui distruzione e contaminazione sono un'altra delle forme di violenza dell'uomo. Il movimento opera con il solo metodo nonviolento, che implica il rifiuto dell'uccisione e della lesione fisica, dell'odio e della menzogna, dell'impedimento del dialogo e della liberta' di informazione e di critica. Gli essenziali strumenti di lotta nonviolenta sono: l'esempio, l'educazione, la persuasione, la propaganda, la protesta, lo sciopero, la noncollaborazione, il boicottaggio, la disobbedienza civile, la formazione di organi di governo paralleli. 13. PER SAPERNE DI PIU' * Indichiamo il sito del Movimento Nonviolento: http://www.nonviolenti.org ; per contatti, la e-mail è: azionenonviolenta at sis.it * Indichiamo il sito del MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), l'altra maggior esperienza nonviolenta presente in Italia: http://www.peacelink.it/users/mir . Per contatti: lucben at libero.it ; angelaebeppe at libero.it ; mir at peacelink.it * Indichiamo inoltre almeno il sito della rete telematica pacifista Peacelink, un punto di riferimento fondamentale per quanti sono impegnati per la pace, i diritti umani, la nonviolenza: http://www.peacelink.it . Per contatti: info at peacelink.it LA NONVIOLENZA E' IN CAMMINO Foglio di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutti gli amici della nonviolenza Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. e fax: 0761/353532, e-mail: nbawac at tin.it Numero 238 del 24 settembre 2001
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