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Rodota' e il popolo di Seattle
- Subject: Rodota' e il popolo di Seattle
- From: "giuseppe febbraro" <giusebb at tin.it> (by way of Carlo Gubitosa <c.gubitosa at peacelink.it>)
- Date: Thu, 28 Jun 2001 01:10:01 +0200
da Repubblica del 14.6.01 Stefano RodotàSi discuterà molto, da oggi fino al 20 di luglio, di quel singolare soggetto
collettivo che ormai si materializza periodicamente sulla scena del mondo, e che per convenzione chiamiamo "popolo di Seattle". Temo, però, che se ne discuta male. Il timore di incidenti induce a considerare la presenza a Genova di decine di migliaia di manifestanti quasi esclusivamente come un problema di ordine pubblico, e così si avviano risposte, pericolose, quasi esclusivamente in chiave di riduzione del diritto costituzionale di manifestare in pubblico. Le molte anime di quel popolo inducono ad abusare delle distinzioni, ora enfatizzando gli aspetti di protezionismo, ora guardando piuttosto agli aspetti neoluddisti, ora insinuando che dietro potrebbero esserci gruppi economici interessati a combattere i grandi protagonisti degli attuali processi di globalizzazione. Il dialogo con gli attori di questa nuova vicenda non è finora andato al di là di qualche buona parola o della promessa di versare "una goccia d'olio speciale" nel duro ingranaggio del liberismo, come si diceva ai tempi in cui si progettava il codice civile dell'Impero germanico. S'ignora così che un profondo mutamento è già avvenuto e che quel popolo sta cambiando, ha cambiato, l'agenda politica e sociale del mondo. Solo chi è prigioniero di disegni di breve periodo può pensare che i temi rimbalzati da Seattle a Porto Alegre, da Praga a Québec possano essere cancellati d'imperio o con qualche astuzia o concessione tattica. Dobbiamo sperare almeno in un pensiero presbite, capace di fare i conti con quel che oggi è già evidente e domani sarà ineludibile? Superbia e scarsa cultura inducono ancora molti, troppi, a trascurare il valore altamente simbolico, e quindi politico, di un tema imposto all'attenzione di milioni di persone che, da quel momento in poi, tenderanno a valutare molte altre cose attraverso quel filtro. appunto quel che è accaduto con i temi esplosi a Seattle e maturati a Porto Alegre. Agli occhi di un numero crescente di cittadini del mondo l'azione di governi e governanti sarà sempre più valutata con riferimento all'agenda progressivamente messa a punto dal popolo di Seattle. Questa si dirama in molte direzioni, abbraccia anche temi tra loro contraddittori. Ma la caratterizzano e la unificano alcune idee forti. La globalizzazione viene presa sul serio, e proiettata fuori della logica esclusiva del mercato che l'ha finora caratterizzata. Lavoro, ambiente, proprietà, ricerca scientifica, brevetti, sono parole pronunciate con nuovi accenti, e misurate non più soltanto con la logica del profitto, ma con quella, ben più esigente, dei diritti umani. E tutto questo non avviene in una sorta di vuoto sociale, non attira solo l'attenzione di minoranze. L'ostilità al Trattato di Kyoto costa a Bush otto punti nei sondaggi sulla sua popolarità, e lo induce a qualche (lieve) ripensamento. Dopo anni di sdegnosa arroganza, società leader nel mondo delle biotecnologie, come la Monsanto, cominciano a fare qualche concessione all'informazione dei cittadini e a ridimensionare qualche programma. Perduti dodici milioni di clienti nel 2000, le società statunitensi attive nel commercio elettronico si avvedono di non poter disporre impunemente dei dati personali dei loro clienti, e avviano politiche più rispettose della privacy. Grandi società farmaceutiche sono costrette a rinunciare ad una intransigente difesa dei loro diritti di brevetto, quando il governo sudafricano le sfida per difendere la salute di milioni di suoi cittadini. La ricerca scientifica non può diventare colonizzazione del vivente, estendendo sempre a quest'area il principio proprietario del brevetto, né cercare tra i dannati della terra le cavie per la propria sperimentazione, così come la logica del decentramento produttivo mai può legittimare le nuovissime forme di uno sfruttamento che si trasforma in nuova schiavitù. Si progettano e sperimentano forme d'accesso alle tecnologie dell'informazione e della comunicazione non mediate da pretese monopolistiche e proprietarie. Queste non sono parole estreme, ma riflessi delle cronache d'ogni giorno, giganteschi frammenti che attendono d'essere composti in un coerente disegno sociale e politico. Un'agenda imposta dalla forza delle cose, con la quale si devono fare i conti anche nella dimensione nazionale. Con quale cultura, però? Leggere il mondo con strumenti nuovi non è facile. Ma è il compito ineludibile di soggetti politici e sociali, e d'ogni singola persona, che non abbiano rinunciato all'ambizione di una società in cui libertà, eguaglianza, dignità siano i valori essenziali di riferimento. Questi strumenti esistono, non sono riducibili a quelli soltanto che nascono dalle riflessioni del popolo di Seattle, e possono dare fondamento al progetto d'una sinistra che oggi sembra introvabile. Certo, non si va lontano se si rimane prigionieri di interessi o pigrizie o di schemi culturali che riflettono un mondo in cui nessun intralcio dev'essere opposto alla logica proprietaria. Oggi la grande partita si gioca proprio intorno ai criteri in base ai quali i beni possono entrare nel mercato o devono restarne fuori. Stiamo ridefinendo lo statuto planetario dell'ambiente, lo statuto del corpo umano, la dignità come ineludibile criterio di controllo d'ogni attività, le forme della cittadinanza elettronica. E chiunque si schieri sulla più modesta frontiera dell'innovazione dovrebbe sapere che questi problemi non si possono più affrontare con la vecchia logica proprietaria, con una disciplina del brevetto nata in altri contesti. Ma il popolo di Seattle ci parla anche di un altro modo di riferirsi ai soggetti politici. È vero che un giorno esso viene identificato con José Bové, un altro con autrici di libri di successo come Naomi Klein. Ma, poi, quel popolo non s'identifica con nessuna singola personalità. Continua a chiamarsi e ad essere chiamato "popolo di Seattle", presentandosi dunque esclusivamente come un soggetto collettivo. Può essere utile, a questo punto, una lettura parallela tra vicende globali e vicende nazionali. Mentre di quel popolo si registra la crescita, e a Genova se ne teme "l'invasione", le ultime cronache ci parlano di drammatiche cadute della tradizionale partecipazione politica: in Gran Bretagna l'astensione arriva al 41%, solo il 30% vota per il referendum in Irlanda. Non è questo un motivo di riflessione in tempi in cui si teorizza una personalizzazione della politica senza alternative? Vi è, poi, la questione già ricordata della formazione dell'agenda politica. In Italia, cercando spiegazioni alla sua sconfitta, il centrosinistra ha lamentato la propria scarsa capacità di comunicare i risultati della sua buona azione di governo. Questa spiegazione consolatoria è contraddetta dalla realtà. Via via che passava il tempo, l'opposizione riusciva ad imporre la propria agenda politica, già nell'impostazione del lavoro della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali e poi con le giornate sulle tasse e la sicurezza, con l'insistenza sull'immigrazione e la microcriminalità. Raggiunto l'obiettivo dell'entrata nell'Unione monetaria, il centrosinistra non è più riuscito ad identificarsi con un'idea forte, non ha saputo contrapporre un'agenda propria a quella del centrodestra, trovandosi così obbligato a competere proprio sul terreno scelto da quest'ultimo. Sì che l'opinione pubblica ha finito con il giudicare governo e maggioranza con il metro imposto dall'opposizione: l'azione di governo perdeva senso e capacità d'attrazione proprio perché non riusciva a dare risposte all'unica, visibile agenda pubblica. E ancora. Le vicende del popolo di Seattle mostrano come le nuove tecnologie, nel caso specifico Internet, non producano necessariamente effetti sostitutivi, bensì integrativi, rispetto agli strumenti già esistenti. Internet ha permesso di fare di una moltitudine dispersa "un popolo". Ma, per incidere davvero sui processi politici, quel popolo si è dovuto materializzare in una piazza reale, non virtuale, ha dovuto manifestare per le strade. E le immagini di quelle manifestazioni sono state diffuse in tutto il mondo dal tradizionale strumento televisivo, con un valore aggiunto di conoscenza diffusa che ne ha accresciuto in modo determinante il peso politico. Rifletterà anche su questo quella sinistra italiana che, folgorata nel 1994 dalla politica dell'immagine, ha ritenuto che questa sostituisse ogni altro mezzo e, dopo anni di discussioni sulla forma partito, ha pensato che fosse venuto il tempo di liberarsene a vantaggio di una piccola accolita di personalità più o meno mediatizzate? E questo è avvenuto mentre Berlusconi - ben consapevole degli effetti integrativi, e non sostitutivi, dei vari strumenti della tecnopolitica - affiancava alla politica dell'immagine quella dell'organizzazione partitica. Infine. L'Europa si è resa conto che l'integrazione attraverso il mercato non è più sufficiente a sostenere la crescita dell'Unione (come mostrano le vicende di questi giorni) e sta cercando di affiancarle una integrazione attraverso i diritti, partendo dalla Carta dei diritti fondamentali proclamata a Nizza nel dicembre scorso. Questa volta la lettura in parallelo va dal locale al globale. Il modello, allora, non può che essere quello di una globalizzazione attraverso i diritti.
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