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Enrico Calamai
L’Ambasciatore argentino Victorio Taccetti
consegnerà l'Orden del Libertador General San Martín
al Console italiano Enrico Calamai
il venerdì 10 Dicembre 2004, ore 18
nell'Ambasciata della Repubblica Argentina in Italia
Piazza dell'Esquilino, 2
00185 Roma
Tel.: (06) 4742551 al 55
Fax: (06) 4819787
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Articolo 21
08/12/2004
Il console onorato. L’argentina decora Enrico Calamai
di Daniela Preziosi
In nome della Repubblica Argentina, il 10 dicembre a Roma l’ambasciatore
Victorio Taccetti consegnerà al console italiano Enrico Calamai la
decorazione di “Comendador dell’Orden del Libertador San Martin” per
essersi battuto in difesa dei diritti umani durante gli anni del golpe
(1976-1983). Il presidente Kirchner ha scelto la giornata internazionale
dei diritti umani per dare visibilità ad un gesto tutt’altro che di routine
istituzionale. La decorazione, nei decenni scorsi riservata a capitani
d’industria o politici “graditi” ai governi di Buenos Aires, oggi viene
assegnata a un diplomatico che fra il ’76 e il ’77 ha salvato molti
italo-argentini dalla persecuzione e da un sicuro destino di desaparicion.
È il nuovo corso per i diritti umani in Argentina. Dopo aver cancellato le
leggi che assicuravano l’impunità ai militari, e aver così consentito la
riapertura dei molti processi loro carico, questa volta Kirchner dà un
segnale politico direttamente all’Italia, il paese che, proprio grazie alla
testimonianza di Calamai, ha condannato sette ufficiali per otto
desaparecidos italo-argentini. Con misura ma senza reticenze, la nuova
Argentina decora un diplomatico che nel proprio paese è stato ignorato
sarebbe meglio dire penalizzato, nella sua successiva carriera - per aver
compiuto una scelta controcorrente rispetto all’aria di silenzio e
connivenza che tirava in quegli anni nel nostro consolato.
La vicenda, sconosciuta fino a qualche anno fa, è venuta alla luce proprio
nel corso del processo di Roma ed è raccolta nel bel diario dello stesso
Calamai, Niente asilo politico (Editori Riuniti). Il giovane diplomatico si
trova in Argentina al momento del golpe. Vede quello che sta succedendo nel
paese, non finge di non capire che la macchina della dittatura sta
pianificando un genocidio. Non può chiudere gli occhi, nessuno dovrebbe.
Perché, racconta Calamai, il personale dell’ambasciata italiana è
esplicitamente avvertito della “linea” gradita ai militari: memori della
recente esperienza cilena (dove le sedi diplomatiche, soprattutto quella
italiana, si sono riempite di asilati in cerca di scampo dalla persecuzione
di Pinochet) nelle ambasciate di Buenos Aires non sarà tollerata la
presenza di rifugiati. La risposta della nostra diplomazia, in obbedienza
alle pilatesche direttive della Farnesina, non lascia spazio a trattative:
le sedi raddoppiano i sistemi di sicurezza verso l’esterno, si attrezzano
per essere impermeabili alla mattanza che si consuma fuori.
Da qui inizia il braccio di ferro fra il console, aiutato da pochi
impiegati, e i colleghi che di volta in volta, a Buenos Aires come a Roma,
applicano le direttive italiane. Calamai ingaggia una lotta contro il
tempo: la scadenza del suo mandato è prossima e sa che non verrà
prolungato, come sarebbe prassi in circostanze del genere. Firma
passaporti, procura biglietti aerei, cerca di mandare il più lontano
possibile da Buenos Aires quelli che si rivolgono al consolato. Obbedisce
ai principi costituzionali del suo paese, ma ancora di più a quelli di una
diplomazia dei diritti umani, di cui ancora oggi è appassionato promotore.
«Per gli italiani dovrebbe essere importante riaprire le pagine della
storia del golpe argentino e scoprire che, fra esse, vi sono pagine scritte
in italiano», ci ha detto negli scorsi giorni lo scrittore Rolo Diez. È
anche la denuncia di Calamai: l’Italia della politica dell’epoca, che finge
di non sapere; quella della P2, alla quale appartengono i due generali
golpisti Mason e Massera; la Chiesa ufficiale che lascia torturare e
sparire i suoi sacerdoti ma resta al fianco dei militari; i nostri
industriali in Argentina. Ed è quest’ultimo uno degli aspetti meno
conosciuti di tutta la vicenda. La dittatura argentina è un affare d’oro
per alcuni imprenditori italiani. Un business pianificato ben prima del 76.
Basti ricordare che il 20 giugno 1973, a bordo del Betelgeuse, l’aereo sul
quale Perón rientra in Argentina da Madrid, c’è Licio Gelli. L’aereo fa
scalo a Roma; nella capitale italiana Gelli ha organizzato un giro di
incontri fra il presidente che sta per reinsediarsi e personaggi influenti
della politica e della finanza italiana. All’epoca, il progetto
peronista-piduista prevede di migliorare i rapporti fra Buenos Aires e
paesi socialisti, quelli europei; con l’Italia prevede soprattutto di
stringere i rapporti con la Fiat. Alcuni anni dopo, in piena repressione,
dalle fabbriche italiane spariranno attivisti e sindacalisti, senza che, da
parte industriale, si levino proteste o domande. Al contrario sono ormai
molte le testimonianze secondo le quali spesso sono gli stessi vertici
aziendali a “passare” ai militari gli elenchi dei sindacalisti da “punire”.
In quegli anni i contatti fra l’industria italiana e i militari golpisti
sono frequenti e ad altissimo livello: basti ricordare, nell’81, l’incontro
dell’amministratore della Fiat Cesare Romiti con il generale Eduardo Viola,
presidente dell’Argentina.
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