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Messico: Marcos: la lotta contro la globalizzazione e' una questione di sopravvivenza
- Subject: Messico: Marcos: la lotta contro la globalizzazione e' una questione di sopravvivenza
- From: "nello margiotta" <nellomargiotta55@virgilio.it>
- Date: Sun, 9 Nov 2003 08:45:49 +0100
Relazione tenuta all'incontro internazionale di intellettuali a difesa
dell'umanità il 24 e 25 ottobre a Città del Messico
"Qualcosa comincia ad essere sempre più chiaro: non è sicuro che abbiamo
perso noi e, soprattutto, non è sicuro che hanno vinto loro. La storia che
conta, quella che facciamo uomini e donne, ha ancora molto filo da tessere e
non si finisce di indovinare neppure il disegno né il colore che dovrà avere
questo gigantesco arazzo che è l'umanità. Noi, e con noi molti come noi,
sappiamo che, in ogni caso, il colore non è il grigio che ora impongono, né
il disegno che è solo dolore e morte. Ci sono anche molti altri colori. E
c'è anche molta speranza."
Buongiorno, buona sera, buona notte. Il mio nome è Marcos, subcomandante
insurgente Marcos. Sono stato invitato al Forum per la difesa dell'umanità
per dire qualche parola. Ringrazio per l'invito, devo però avvertire che
sono un soldato dell'Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale. Lo segnalo
perché, come mi hanno riferito, condividerei la parola con intellettuali e
leader politici sociali. Per questo la mia voce, forse, suonerà discordante
(voglio dire, al di là della registrazione) e fuori luogo. Oppure no, talora
ci saranno, in quanto dirò, ponti e coincidenze. A volte accade che la penna
e la spada coincidano. Forse concordiamo nell'inquietudine per un necessario
dibattito e uno scambio di idee che aiutino a chiarire un poco questo
confuso e disordinato orizzonte che alcuni chiamano storia contemporanea e
che, a tratti, fa del triviale e del grottesco, questione di interesse e
scandalo mondiale; ed altre volte fa del terribile ed aberrante qualche cosa
che, a forza di ripetersi, diventa un ritornello monotono e non percepito.
Citerò alcuni appunti frettolosi sulla globalizzazione e sul neoliberismo, o
meglio, su quello che noi riusciamo a percepire (e a patire) di questi, e
sulle resistenze in generale e la nostra resistenza in particolare. Come ci
si può aspettare, in questi appunti regnano lo schematismo e la riduzione,
ma credo che riescano a tracciare una o più linee di discussione, dialogo e
riflessione. O, meglio ancora, di memoria e vergogna.
"Dovresti vergognarti per avermi escluso", dice Durito che è venuto a
rifugiarsi dalla pioggia. "Non ti ho escluso. Il fatto è che non hanno
invitato te, ma hanno invitato me", gli dico mentre con discrezione nascondo
il tabacco. "Una cosa va con l'altra, In questo caso, un naso va con una
tettoia. O forse mio raffreddato scudiero vorresti privare queste buone
persone del piacere di ascoltare le mie sagge parole, di illuminarsi con la
mia saggezza e di svegliarsi dal letargo in cui le tue parole cominciano a
gettarli?", domanda Durito mentre mi punge il naso con Excalibur, la
leggendaria spada. "Quella spada somiglia in maniera sospetta ad una penna
che ho perso l'altro giorno", gli dico cambiando argomento. Ma Durito
risponde: "Non cambiare argomento! Puoi scegliere: o mi dai uno spazio per i
miei sapienti progetti o perirai sotto la mia penna, voglio dire, sotto la
mia spada", dice Durito con un tono che farebbe l'invidia di qualsiasi
funzionario del Fondo Monetario Internazionale che stesse parlando con
qualche governo latino americano. E, applicando quanto appreso dai governi
"nazionali", ho ceduto. Questa è la parte che Don Durito de La Lacandona, il
fiore e il meglio della cavalleria errante, ha inviato a questo forum.
Si chiama: Palloni o negozi Il mondo è come un globo gonfiato. Cioè, è come
un palloncino gonfiato. Ovvero, quando si dice che c'è la globalizzazione, è
che c'è la mondializzazione delle parti del mondo. Ma c'è, come si dice, una
mondializzazione di quelli che hanno molto denaro. E c'è pure, come si dice,
la mondializzazione della lotta, ovvero della resistenza. Nella
mondializzazione del denaro, cioè nella globalizzazione dei potenti, c'è
molta malvagità, ma la malvagità non se ne sta quieta all'interno di un
paese, ma si intromette in tutti i paesi. E questa malvagità si introduce in
altri paesi attraverso la guerra, con il denaro, attraverso le idee, con la
politica. Ovvero, nella mondializzazione della malvagità quelli che sono
molto, molto ricchi non sono soddisfatti di essere ricchi e sfruttatori in
un paese, cioè tra la loro gente, ma vogliono più denaro e si introducono in
altri paesi per guadagnare altro denaro, e non rispettano niente perché
amano solo la loro astuzia sfruttatrice e vogliono solamente guadagnar
denaro; sebbene già ne posseggano tanto, non gli basta, vogliono di più. Ed
allora si introduce il denaro in un altro paese e non rispetta quel paese
per colpa della globalizzazione del denaro che no rispetta i paesi e la
gente. Cioè, ogni paese è come un pallone che scoppia e dal quale esce tutto
quello che lo rendeva speciale, come le sue usanze, la sua parola, la sua
cultura, la sua economia, la sua politica, la sua gente, insomma, il suo
modo di essere. E nel momento in cui il paese si rompe e tutto il mondo si
introduce in quel paese, quel paese non è più quel paese, ma è tutto il
mondo. Ma non è il mondo della gente, ma è il mondo del denaro, in cui la
gente non ha importanza. È come se una persona si rompesse e non fosse più
una persona, e che tutte le malvagità si introducessero in quella persona e
se la mangiassero e quindi non ci sarebbe più una persona, ma ci sarebbe
solo quello che si è mangiato la persona. Quindi diciamo che la
globalizzazione dei potenti, cioè del denaro, si mangia i paesi e divora le
persone che vivono in quel paese. Perché un paese è come una casa in cui
vive la gente del paese. E il denaro mondiale distrugge la casa, cioè il
paese, e la gente resta senza casa e senza anima perché le persone non si
conoscono tra loro e si comportano come sconosciuti, con la sfiducia negli
occhi e nelle parole, proprio tristi. E nel momento in cui un paese resta
senza la sua anima, assume l'anima del denaro. E quel paese che si è rotto
non è più una casa in cui vive la gente di quel paese, ma è un negozietto in
cui si vendono e si comperano cose e genti. Perché nella globalizzazione, il
denaro costruisce negozi dove prima esistevano paesi. E allora, siccome il
paese non è più un paese ma è un negozio, la ente non è più gente, ma solo
compratori o venditori. E la gente non è proprietaria del negozio, ma il
proprietario del negozio è il denaro mondiale. Cioè, la gente non comanda
più nel proprio paese, comanda il denaro mondiale. Quindi, come diciamo noi,
il pensiero dominante è il pensiero del denaro. Per esempio certa gente
pensa, ad esempio, ad una nube ed è gente che sta pensando ad una nube e
dipinge il suo pensiero, per esempio, di azzurro, e questa gente che se ne
sta con il suo pensiero di una nube azzurra è contenta del suo pensiero di
una nube azzurra e si procura un palloncino e lo gonfia e lo dipinge di
azzurro e lo da ad un bimbo o ad una bimba, e la bimba o il bimbo gioca con
il palloncino che era un pensiero di nube azzurra. Perché la gente, quando
pensa come gente, pensa pensieri per la gente. Ma il denaro non pensa alla
gente, ma pensa ad altro denaro. Cioè, il denaro non ha limite e divora
tutto per fare più denaro. Cioè, il denaro non pensa ad una nuvola, ma pensa
ad una merce che venderà e da cui ricaverà altro denaro. Cioè, con la
globalizzazione del denaro si mondializza anche il pensiero del denaro. E
questo pensiero del denaro è come una religione che adora il dio del denaro,
e i templi di questa religione sono le banche ed i negozi, e le preghiere
sono i conteggi del denaro, quanto vendono, quanto guadagnano. E questa
religione del denaro si chiama "neoliberismo", cioè che vuol dire che esiste
una nuova libertà per il denaro. Cioè, che il denaro è libero di fare quello
che vuole. E la gente non ha più la libertà ma il denaro sì. E con la
globalizzazione del denaro si distrugge il mondo mondiale, cioè si rompe il
globo del mondo ed il palloncino mondiale scoppia, e allora il denaro
costruisce un negozio dove prima c'era un paese: cioè, dove prima c'era una
casa con gente ora c'è un negozio. Quindi la globalizzazione del potere
distrugge i paesi per costruire negozi. E i negozi sono fatti per vendere e
comperare. E se per esempio uno non ha un reddito o non vuole comperare,
allora questo non conta niente e bisogna distruggerlo. E se, per esempio,
non ha nulla da vendere o non vuole vendere né vendersi, allora non serve e
bisogna distruggerlo. La globalizzazione del potere è come una guerra contro
la gente e le sue cause, cioè è una guerra contro l'umanità. La
globalizzazione del potere distrugge le case della gente, cioè i paesi, e a
volte arriva a distruggere con una guerra. Altre volte entra perché qualcuno
dall'interno gli ha aperto la porta per venire a distruggere. E quelli che
aprono la porta sono i politici, quelli che comandano nei paesi, cioè nelle
case della gente. Quindi i politici non servono più per comandare, perché
non comandano più loro ma chi comanda è il denaro mondiale. Allora i
politici diventano negozianti, quelli che si occupano del negozio che prima
era un paese, una casa di certa gente. Ma i politici di prima non servono
più per occuparsi del negozio ed è meglio mettere altri che studiano ed
imparano ad occuparsi dei negozi. E questi sono i nuovi politici, cioè sono
negozianti. E non importa se non sanno nulla di governo, ma importa che
sappiano occuparsi del negozio e procurino buoni incassi per il loro padrone
che è il denaro mondiale. Quindi, nei governi dei paesi distrutti dalla
globalizzazione del potere, non ci sono più politici ma negozianti. E lì,
nei negozi che prima erano paesi, le elezioni non avvengono per installare
un governo, ma per mettere un negoziante. Quindi si mettono in competizione,
cioè a litigare tra loro, grassi, magri, alti, piccoletti, di diversi colori
che cominciano a parlare e a parlare ed è puro chiacchiericcio, ma non
dicono la cosa più importante, cioè che tutti sono diversi in viso, ma tutti
sono uguali perché diventeranno negozianti. Alla globalizzazione del potere
non importa se il negoziante è verde, azzurro, rosso o giallo. Quello che
importa è che il negoziante procuri buoni incassi. I negozianti cambiano ma
negozianti restano. Nella globalizzazione del potere il mondo non è più
rotondo, come un palloncino gonfiato, ma scoppia ed al suo posto resta un
grandissimo negozio. E i negozi, come tutti sanno, sono quadrati, non tondi.
Più o meno è così che funziona la globalizzazione, come se dicessimo "la
palloncizazzione". (Fine della relazione di Durito)
"Palloncizzazione?" Finalmente torno alla serietà ed alla formalità. In
aggiunta a quanto espresso da Durito in maniera tanto peculiare, anche noi
pensiamo quanto segue:
PRIMO. Se nella politica antica" (cioè, dalla greca Atene fino alle moderne
repubbliche) lo Stato era la "madre" dell'individuo ed il seno in cui era in
gestazione, cresceva e si riproduceva la società, nel mondo globalizzato lo
Stato non può più assolvere questa funzione. L'individuo non deve più fare
riferimento ad una patria, una cultura, una razza o una lingua. Il ventre
materno è ora una megasfera che alcuni chiamano ancora "pianeta terra". Il
"cittadino" non è più il membro della polis, ma il navigante della
megapolis, per tanto necessita di "altre" conoscenze e abilità che lo Stato
nazionale non può offrire.
SECONDO. Nello stesso modo, gli "uomini di Stato", quei superuomini autori
di testi classici, guerre, imperi, leggi e repressioni, non esistono più in
quanto tali. "Quell'addestramento" interno che esisteva nelle classi
politiche per preparare i propri membri a sostituirsi gli uni con gli altri
è obsoleto, le capacità della politica classica (oratoria, capacità di
leader, sensibilità, sobrietà, conoscenze storiche, filosofiche, di
giurisprudenza, adeguata relazione) sembrano ora più caratteristiche della
nostalgia circense. Il protocollo del potere, quel complesso miscuglio di
segnali e tendenze, non si apprende più né si esercita nello Stato.
TERZO. Lo Stato nazionale tende a non essere più l'incaricato della
riproduzione degli uomini (intendendo "riproduzione" nel suo significato più
ampio, cioè, le condizioni economiche, politiche, culturali e sociali per la
sua riproduzione sociale), ma l'amministratore-contenitore dei disordini di
questa riproduzione. Il megapotere, questo ente di cui poso si sa, ora
impone una riproduzione più importante: quella del denaro.
QUARTO. La lotta contro la globalizzazione del potere (e contro il suo
supporto ideologico: il neoliberismo) non è esclusiva di un pensiero o di
una bandiera politica o di un territorio geografico, è una questione di
sopravvivenza umana. Così come nella Seconda Guerra Mondiale moltitudini di
forse resistettero e lottarono contro il fascismo, ora sono molte le forze
che resistono e lottano contro il neoliberismo.
QUINTO. Negli Stati nazionali il processo dell'accoppiata
globalizzazione-neoliberismo produce un fenomeno di reSistenza che, ogni
volta in forma sempre più accentuata, incorpora ampi settori della
popolazione SENZA CHE SIA PRIMORDIALE LA SUA CLASSE SOCIALE O IL LUOGO CHE
OCCUPA NEL PROCESSO DI RIPRODUZIONE DEL CAPITALE.
SESTO. Appaiono, per esempio, gruppi sconcertanti (di fatto, la teoria aveva
decretato la loro scomparsa o il loro "assorbimento" da quelli che stanno in
alto): da un lato, indigeni che parlano lingue incomprensibili (cioè,
inservibili per l'interscambio di merci) e che sfidano con armi di legno
elicotteri, carri armati, aerei, mitragliatrici, bombe; d'altro lato,
giovani disoccupati (il "lumpen" che, teoria comanda, dovrebbe ingrossare le
fila degli apparati repressivi dello Stato) che si mobilitano contro il
governo ed esigono il rispetto; più in là, omosessuali, lesbiche e
transessuali che chiedono il riconoscimento della loro differenza.
SETTIMO. Questi fenomeni di resistenza ("sacche di resistenza" le chiamiamo
noi per opporle alle "altre" borse, quelle dei valori [gioco di parole sul
termine spagnolo "bolsa" N.d.T.]) tendono a ricercare la comunicazione in
fenomeni simili in altre parti del mondo. Le superautostrade
dell'informazione, concepite per facilitare il flusso delle merci e del
denaro, cominciano a vedersi (non senza timore) percorrere da vecchie
strade, animali da soma e pedoni che non scambiano merci e capitali, ma
qualche cosa di molto pericoloso: esperienze, mutuo appoggio, STORIE. È
chiaro che sto parlando di quello che ho davanti: la nostra guerra, le
nostre armi, la nostra storia. Ma esistono altri esempi che ci parlano di
una nuova emergenza, di qualcosa di nuovo che irrompe qui e là e che non
abbiamo finito né di controllare né di comprendere, in parte perché siamo un
frammento di quei fenomeni, in parte per il precipitare degli avvenimenti,
in parte perché il presente è il luogo peggiore per pensare l'oggi, in parte
perché ci sono ancora molte cosa da definire.
Ma qualcosa comincia ad essere sempre più chiaro: non è sicuro che abbiamo
perso noi e, soprattutto, non è sicuro che hanno vinto loro. La storia che
conta, quella che facciamo uomini e donne, ha ancora molto filo da tessere e
non si finisce di indovinare neppure il disegno né il colore che dovrà avere
questo gigantesco arazzo che è l'umanità. Noi, e con noi molti come noi,
sappiamo che, in ogni caso, il colore non è il grigio che ora impongono, né
il disegno che è solo dolore e morte. Ci sono anche molti altri colori. E
c'è anche molta speranza. Se il pianeta mostra ferite aperte e sanguinanti
sulla sua tonda geografia, non è solo nominandole che le saneremo,
sicuramente, ma compiamo un gesto di umanità che talvolta sembra perduto.
Citiamo quindi Palestina e che la vergogna ci ricopra. Citiamo I Balcani e
che la memoria ritorni. Citiamo Euskal Herria e ammiriamo la silenziosa e
incompresa resistenza di un popolo che, da secoli, rifiuta di essere
conquistato. Là, sull'altra sponda dell'Atlantico, un popolo è accerchiato
in una classica manovra a tenaglia: da un lato la superbia del potere che,
protetto dietro giudici incantati dai clic delle macchine fotografiche,
comanda un'autentica guerra di sterminio; d'altro lato, la codardia di un
settore che si dichiara progressista e che, più attento alla correttezza
politica, mantiene un complice silenzio mentre la cultura basca viene
classificata come "terrorista". Citiamo Cuba e che il sangue latinoamericano
cerchi i ponti su cui ci siamo incontrati ieri e su cui ci incontreremo
domani. Nei Carabi, un popolo affronta un accerchiamento che non ha
rappresentazione letteraria. Questo popolo ha fatto sì che solo citare il
suo nome richiami una storia di lotta e resistenza, di generosità e
coraggio, di nobiltà e fratellanza. Si dice "Cuba" come si dice "dignità".
Citiamo Bolivia e salutiamo l'eroico percorso di aymaras e quechua nella
difesa della terra. Salutiamo quelli che fanno dell'essere indigeno un
orgoglio e che con la loro ribellione fanno tremare i negozianti di tutta
l'America. Citiamo Chiapas e scopriamo nei piedi dei più piccoli, il domani
del "per tutti, tutto". Citiamo qualsiasi angolo del pianeta e siamo
perseguitati insieme a omosessuali, lesbiche e transessuali; resistiamo con
le donne al destino imposto di decorazione idiota; resistiamo con i giovani
alla macchina trituratrice di inconformismi e ribellioni; resistiamo con
operai e contadini al salasso che, nell'alchimia neoliberista, trasforma la
morte in dollari; percorriamo il passo degli indigeni dell'America Latina e
con i loro piedi facciamo il mondo rotondo affinché ruoti.
Citiamo chi non ha nome. Guardiamo chi non ha volto. Citiamo e guardiamo il
mondo che ora non esiste, ma che comincerà ad esistere nelle nostre parole e
nei nostri sguardi. Citiamo dunque i dolori dell'umanità. Non solo perché
sono anche nostri dolori. Anche perché citandoli ci rendiamo un poco più
umani. Perché davanti a queste ferite, il silenzio è rinuncia, resa,
claudicazione, morte. Se c'è chi ha fatto della penna una spada, che faccia
scintillare l'aria con il suo fulgore, che segnalando le nostre ferite si
nobiliti, che citandoci ci renda parte di un rompicapo che domani sarà un
mondo non mancante di memoria né di vergogna. Perché entrambe, la memoria e
la vergogna, ci rendono esseri umani. Non siamo i delatori della nostra
storia, della nostra coscienza, i traditori della parola che abbiamo
innalzato ieri e che oggi ci convoca per essere affilata e unita alla
memoria e alla vergogna. Bene. Salute e che la penna sia anche una spada, e
che il suo filo tagli l'oscuro muro da cui dovrà passare il domani.
Dalle montagne del sudest messicano,
Subcomandante Insurgente Marcos Messico, ottobre 2003
Relazione del subcomandante insurgente Marcos all'incontro internazionale di
intellettuali a difesa dell'umanità, tenutosi nei giorni 24 e 25 ottobre
2003 al Polyforum Culturale Siqueiros, Città del Messico.
(traduzione del Comitato Chiapas "Maribel" di Bergamo)