Corriere della sera 8 marzo
2000 pag.11
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Bogotà appoggia lo scavo dei pozzi e ha inviato i
militari a reprimere le proteste di indios e campesinos. Al costo di quattro
morti e decine di scomparsi
L’agonia degli U’wa, sfrattati dal petrolio
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Gli indigeni colombiani sono costretti a lasciare la «terra
sacra» a una multinazionale
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REPORTAGE
L’ALTRA AMERICA
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di ETTORE MO
Lo sfruttamento del greggio avrebbe conseguenze disastrose anche per
l’ambiente
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CUBARA (Colombia) — «Noi preferiamo morire, proteggendo tutto
quanto abbiamo di sacro, piuttosto che perdere tutto ciò che fa di
noi gli U’wa». Sono state frasi come questa, pronunciate da
Berito Kuwar, presidente della piccola tribù indigena accampata nelle
foreste colombiane del Nord-Est, a far temere che gli U’wa si
preparassero a un suicidio di massa: come fecero più di quattro
secoli fa, quando si buttarono giù da una rupe nel fiume sottostante,
trascinando con sé anche i bambini più piccoli. Il luogo
è ricordato come il Peñón de los muertos e richiama
alla mente gli abitanti della fortezza di Masada, sul Mar Morto, che si
uccisero tutti piuttosto che vivere come schiavi dei legionari romani. Tanti
erano i morti del Peñón de los muertos che — si racconta
— deviarono il corso del fiume. Ma le cose non sono andate
così. Smentita anche la notizia che a fine gennaio ci siano stati
casi di suicidi privati. «Le nostre proteste sono state molto dure
— dice l’avvocato Evaristo Tegria Uncaria, 28 anni, gran
difensore della sua gente — e qualcuno avrà pure minacciato il
suicidio, scatenando l’immaginazione di qualche giornalista, che
voleva fare il "colpo". Intendevamo dire che la situazione era
giunta a tal punto che si poteva anche morire, come infatti è
avvenuto. Ma per mano di altri. Bisognava perciò parlare non di
suicidio, ma di omicidio di Stato». Alla base della tragedia
c’è un megaprogetto petrolifero che dovrebbe essere realizzato
proprio nella Kajka Ika, il territorio sacro degli U’wa, da loro
definito «il cuore del mondo». Le operazioni di scavo e i pozzi
dell’oro nero provocheranno un immane disastro ecologico in una
regione così ricca di foreste e di fiumi, di fauna e di flora. E al
tempo stesso — cosa non meno grave — si impedirebbe agli
indigeni di continuare a vivere secondo le loro millenarie tradizioni, che
hanno qualcosa di straordinario e stupefacente. «Il petrolio, che
noi chiamiamo Ruiría — mi dice il presidente della Tradizionale
autorità U’wa, che è il loro "governo" —
è per noi il sangue della terra, così come la terra è
nostra madre. Estrarre la Ruiría sarebbe come levarsi il sangue con
una siringa. La terra muore. Viviamo qui da migliaia di anni, e
perciò abbiamo chiesto al governo colombiano di rispettare il nostro
territorio e le nostre tradizioni, come vuole il nostro Dio, Sira. Lo
sfruttamento del petrolio avrebbe poi conseguenze disastrose per
l’ecologia, per l’ambiente. Verrebbero prosciugati e
inesorabilmente inquinati fino a farli morire i nostri fiumi, il río
Cubugon che alimenta un altro fiume più grande, l’Arauca. Tutti
i nostri alberi non potrebbero più respirare e tutti i nostri uccelli
cadrebbero stecchiti a terra e non canterebbero più. Ne subirebbe le
conseguenze l’intero territorio colombiano, e non solo quello. Sarebbe
come far saltare i polmoni del mondo. Per tutto questo ci opponiamo al
progetto petrolifero, che ha invece l’appoggio del nostro governo. E
l’impegno e il fervore che ci stanno mettendo per realizzarlo sono
alimentati dalla ragione di sempre: la plata, il denaro, il profitto. Noi
viviamo secondo un’altra filosofia. Noi crediamo che ci sia un cordone
ombelicale tra la terra e il cielo e intendiamo preservarlo intatto, secondo
natura, come vuole Sira». È dall’aprile del ’92
che la multinazionale Occidental Petroleum con base a Los Angeles — un
vero colosso — tenta di assicurarsi i diritti di esplorazione nella
regione ancestrale degli U’wa, nella zona del cosiddetto Blocco
Samoré, che, secondo la multinazionale, cui si è aggregata la
Ecopetrol (la compagnia nazionale petrolifera colombiana), conterrebbe fino
a un miliardo e mezzo di barili. Nel febbraio del ’95, la Occidental
Petroleum, Oxy, ottiene dal ministro dell’Ambiente, Juan Mair, la
licenza di esplorare il terreno prescelto. Partecipando all’operazione
col 25 per cento delle azioni, la Colombia intravede la possibilità
di raddrizzare la propria claudicante economia. Il petrolio, con riserve di
2 miliardi e 800 milioni di barili che le hanno consentito di piazzarsi al
quarto posto fra gli esportatori di greggio in Sud America, è del
resto la sua maggior fonte di ricchezza. Ma, grazie a quei testardi degli
U’wa, il progetto Samoré non ha fatto passi avanti. I
macchinari e gli uomini che la Oxy ha portato caparbiamente sul posto sono
costretti all’indolenza. A Cedeño, su una piccola altura, la
caterpillar ha cominciato a scavare nel dorso di una montagna per aprire una
strada che sbocchi in faccia a quello che sarà il primo pozzo (nome
di battesimo Gibraltar 1) della multinazionale. Ma sul posto sono arrivati
gli irriducibili U’wa e molti campesinos indigeni, loro sostenitori, e
l’atmosfera è diventata subito incandescente. Il comando
dell’esercito ha dislocato nella zona 5 mila soldati per tenere sotto
controllo la tribù ribelle, che ha meno di 5 mila abitanti, contando
anche le donne, i lattanti e i vecchi. Il fattaccio avviene in
località Las Canoas, vicino al luogo dei lavori. Militari e polizia
stringono i dimostranti in una morsa e cominciano a lanciare contro di loro
gas lacrimogeni e a sparare. Una bambina di quattro mesi muore asfissiata da
un lacrimogeno che le arriva sulla guancia; due ragazzi di nove e dieci
anni, Mauricio Díaz e Jorge Nikuta, e forse anche un terzo di cui si
ignora l’identità, annegano nel fiume dove si sono tuffati per
sfuggire alle bombe e vengono trascinati via dalla corrente. Ma i cadaveri
non saranno restituiti dal fiume, sono misteriosamente scomparsi. Nella
stessa giornata scompaiono undici persone, quasi tutti Guahibos, una
tribù in via d’estinzione molto legata alla causa degli
U’wa, più una bimba di sei mesi che è in braccio alla
mamma quando viene costretta a seguire i dieci uomini, di cui si perderanno
le tracce. Chi gli autori del sequestro? Potrebbero essere stati gli uomini
dei reparti antisommossa chiamati sul posto per sedare la ribellione; o una
squadraccia di paramilitares, che sono la feccia della feccia e che
l’esercito tollera (e forse protegge) per affidar loro i compiti
più brutali, il «lavoro sporco». Dove abbiano portato i
Guahibos e cosa ne abbiano fatto, nessuno è in grado di dire: ma
altro non resta che aggiungere i loro nomi alla lista dei desaparecidos, che
ogni giorno si allunga. Quanto è avvenuto alle Canoas ha provocato
dentro di me un sentimento profondo d’indignazione per il
comportamento delle cosiddette forze dell’ordine. Hanno aperto il
fuoco su gente inerme, a meno che non si considerino armi da guerra
l’arco e le frecce che un uomo con una gamba sola esibisce con
orgoglio. Più tardi, in un accampamento improvvisato dove sono
confluiti più di duemila campesinos giunti anche da molto lontano su
camion, vecchie corriere, in bicicletta o a piedi, incontro la madre della
bimba di quattro mesi, morta asfissiata: «La mia piccola si chiamava
Kenowia — dice —, la bomba le è proprio arrivata in
faccia. Sono corsa al fiume per mettere un po’ d’acqua sui suoi
occhi, ma lei già rantolava. Mi è morta così, tra le
braccia». Non può continuare. Ha solo 20 anni, va ad appartarsi
lontano da tutti e siede su un sasso. La vedo piangere. Certo sorprende
che un popolo così piccolo, armato solo dalla propria fede, possa
bloccare la marcia di un’organizzazione così potente come la
Oxy, ma il ministro delle miniere, Rodrigo Villamizar, non si è
neanche posto il problema della legalità o meno dell’operazione
quando ha affermato, con un’alzata di spalle, che «non si
possono mettere a confronto gli interessi di 38 milioni di colombiani con le
preoccupazioni di una comunità d’indigeni», senza un
accenno al fatto che a beneficiarne non saranno i poveri colombiani, ma le
multinazionali del petrolio e i creditori internazionali. La
militarizzazione della zona ai bordi e dentro lo stesso Resguardo, il
territorio legalizzato degli U’wa (che è stato ridotto a soli
220.275 ettari), è un’ulteriore conferma
dell’atteggiamento cinico dello Stato, che non intende rinunciare alla
plata, tanto importante per colmare in parte la voragine dei debiti con
l’estero. Per garantirsi un margine più ampio di sicurezza, gli
U’wa acquistano, il 18 novembre dell’anno scorso, due
appezzamenti — Santa Rita e Bellavista — vicini al campo di
Gibraltar 1, dove la perforazione dovrebbe essere imminente, e che è
comunque situato dentro i confini del territorio ancestrale della
tribù. Il documento di compravendita ha tutti i crismi della
legalità, essendo stato firmato dal primo notaio del distretto di
Pamplona, Daniel Jordan Peñaranda, dal proprietario-venditore e
dall’avvocato Evaristo Tegria Uncaria, in rappresentanza degli
U’wa. Ma la Oxy non riconosce la validità del contratto e due
giorni dopo il notaio di Pamplona viene assassinato. Insomma,
l’hanno capito questi indigeni che dopo 500 anni si tramandano la
storia della loro tribù di padre in figlio solo oralmente, cantando e
anche danzando perché rifiutano d’imparare a scrivere,
l’hanno sì o no capito che devono sloggiare? Il problema
è risolto bruscamente, manu militari. «Nelle fincas di Santa
Rita e Bellavista — racconta il giovane avvocato — erano rimaste
soltanto 25 persone, la maggior parte donne e bambini. È il 19 di
gennaio quando arriva il primo drappello di soldati. Entro il 25 non
c’era più nessuno. Li hanno caricati sugli elicotteri con la
forza e portati nella base militare di Samoré, dove restavano
prigionieri. Qualche ragazza è stata anche afferrata per i capelli:
ma qualche soldato piangeva, capiva... Allora il comandante ha proibito ai
suoi uomini di parlare con loro. Una gran brutta storia,
vero?». Quanto a lungo potranno resistere gli indigeni e i loro
amici contadini accampati in una tendopoli appena fuori Cubara — la
«capitale» degli U’wa — o qualche chilometro
più su, in un piccolo «avamposto» che chiamano China
(pronuncia Cina) dove da un mese bloccano il transito dei veicoli?
«Staremo qui fino a quando il governo non ci darà una risposta
chiara e definitiva: e che sia conforme alla nostra richiesta, cioè
un no assoluto alla profanazione della nostra terra per lo sfruttamento del
petrolio», dice l’uomo con l’arco e le frecce, parlando a
nome di tutti. Ma la situazione sta peggiorando d’ora in ora
perché i militari, che hanno a loro volta bloccato le strade, non
lasciano più passare i viveri. «Noi dell’esercito
— dice il sergente Chacon ergendosi sugli stivali d’assalto
— rispettiamo i diritti degli U’wa e la loro protesta, ma essi
bloccando la strada stanno violando l’articolo 24 del codice, che
garantisce a ogni colombiano il diritto di spostarsi liberamente
trasferendosi ovunque voglia sul territorio nazionale. Perciò sono
fuori dalla legge». Poi ci conciona sulla «narcoguerra»
dei guerriglieri delle Farc (Forze armate rivoluzionarie colombiane) e
dell’Eln (Esercito di liberazione nazionale), che fanno sequestri
abominevoli e finanziano la loro campagna terroristica con il commercio
della droga: ma il suo punto di forza è l’articolo 24, che cita
almeno una dozzina di volte. Tanto che alla fine uno spiritoso giovanotto lo
battezza «il sergente articolo 24». Oltre il dissesto
ecologico, il petrolio provocherà fatalmente un incremento della
violenza nella regione, come avvenne nell’83, quando la Oxy
realizzò un altro megaprogetto nella zona di Caño
Limón, in provincia di Arauca, appena fuori dal territorio
U’wa, dove si produce un terzo del greggio che la Colombia esporta. La
guerriglia ha sferrato più di 500 attacchi contro il complesso,
coinvolgendo la popolazione. Questo rapporto stretto tra petrolio e violenza
— sostengono gli indigeni — è un’altra valida
ragione per dire no al progetto Samoré. In questa lotta impari tra
Davide (gli U’wa) e Golia (la Oxy) si è spesso insinuato che i
primi subiscano l’influenza della guerriglia e che abbiano con essa un
rapporto privilegiato. A Cubara ho potuto vedere un certo
«movimento» che potrebbe confermare questa ipotesi. Ma Javier
Guerrero Barón, sociologo docente all’Università di
Pedagogia della Colombia, sostiene che gli U’wa, grazie alla loro
natura pacifica che sono riusciti a conservare per cinque secoli, nonostante
la colonizzazione selvaggia della croce e della spada, «hanno
impartito una lezione a una nazione in guerra». Respinsero le
pressioni della guerriglia, le quali, promettendo appoggio alla loro causa,
cercarono di convertire il loro «sacro suolo in un campo di battaglia
e hanno mantenuto una politica di neutralità nel conflitto
armato». Questa sensazione estrema di pace l’ho provata
scarpinando per cinque ore nella giungla del Chuscal, dove la vita è
rimasta ferma nel tempo. La nostra guida è un medico tradizionale che
accarezza le piante e ne stacca alcune foglie che gli serviranno per le sue
terapie millenarie e per parlare con gli spiriti. Ci sono poche capanne
sparse qui e là, sulla cima dei poggi fasciate da una densa
vegetazione. Uomini, donne, bambini nudi si affacciano alla soglia delle
capanne e sgranano gli occhi su questi Riowa che siamo noi, gli stranieri.
Secondo quella fonte inesauribile d’informazione che è
l’avvocato Evaristo, tre fattori soprattutto hanno messo a rischio
l’esistenza della piccola comunità indigena: oltre la
guerriglia, che dura da quarant’anni e di cui non si prevede la fine
nonostante gli ultimi tentativi di un’intesa tra governo e
guerriglieri, il difensore degli U’wa identifica gli altri due nella
costruzione della prima strada nel sagrado territorio e più ancora
l’evangelizzazione forzata dei missionari europei, cattolici o
protestanti che fossero. La prima strada venne
costruita tra il 1940 e il ’50, proprio dietro richiesta della Chiesa
cattolica e del governo di Santander: «Ed è proprio attraverso
quella strada — dice l’avvocato — che arrivarono i
missionari di Xavier e cominciarono la Santa crociata. Ci castrarono
culturalmente e noi siamo il prodotto di questa castrazione culturale. I
miei genitori si sposarono con rito cattolico. La polizia collaborava coi
missionari, che convertivano la nostra gente a furia di botte, perché
— dicevano — dovete soffrire come Gesù. Un padre che
credo sia ancora vivo, Abraham Villis, anche se centenario, fondò una
missione dove ospitavano i bambini orfani sequestrati a forza. I missionari
hanno anche un’altra grave responsabilità: fecero venire qui un
sacco di coloni bianchi, che diventarono i padroni della nostra
terra». Mentre gli Stati Uniti fanno un’offerta di 1.600
milioni di dollari alla Colombia nell’ambito del programma di aiuti
battezzato «Colombia Plan» per debellare la piovra del
narcotraffico e avviare un processo di pace tra guerriglieri e governo in un
Paese che è considerato quanto vi sia di peggio nelle Americhe per la
violazione dei diritti umani, gli U’wa sono abbandonati a se stessi.
Il presidente della Occidental Petroleum, Guimer Domínguez, non
riesce a capacitarsi del fatto che la sua impresa possa operare in Paesi
come la Russia e il Pakistan e incontri invece qui difficoltà
insormontabili. Ma non risulta che abbia fatto molti sforzi per parlare coi
leader indigeni e non sorprende che, come tutti noi del resto, non sappia
afferrare il senso profondo dei messaggi scritti sugli striscioni
inalberati, in questi giorni, a Cubara come a Bogotà, ad Arauca o a
Saravena. Chi lo ha capito, ha scritto semplicemente: «Gli
U’wa sono l’ultimo esempio di una tragedia inarrestabile che sta
coinvolgendo il mondo intero». (1-continua)
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