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I: COLOMBIA: ADISTA: Non di sola coca muore la Colombia
> Ripoduciamo questo articolo, ringraziando chi ce l'ha segnalato.
> Comitato Internazionalista Arco Iris
> ------------------------------------------------
> Da ADISTA, 8 gennaio 2000, pag.11
>
> NON DI SOLA COCA MUORE LA COLOMBIA
> REPORTAGE DI UN GESUITA PERSEGUITATO
>
> (padre Javier Giraldo, segretario esecutivo della Commissione Giustizia e
> Pace della Colombia, costretto a lasciare il paese in seguito a pesanti
> minacce)
>
> NON DI SOLA COCA
>
> Questa, racconta p. Javier, è una spia della realtà che si vive in
> Colombia. "La Colombia, nel mondo, viene per lo più associata al traffico
> di droga e solo alla droga si riconduce il clima di violenza che opprime
il
> paese. Ma è un'analisi limitata". Violenza politica e povertà, sottolinea
> p. Girardo, sono realtà altrettanto brutali. "In Colombia certamente si
> coltiva una gran quantità di coca che finisce nel commercio
internazionale.
> Ci sono circa 300mila famiglie colombiane, povere, che lavorano alla
> coltivazione della coca, vivono nella periferia del Paese nella zona di
> colonizzazione. La maggior parte di loro sono state espulse da altre zone
> per la violenza. Vivevano poveramente, ma anche adesso che coltivano coca
> vivono poveramente. Lavorano le foglie per estrarre la pasta base, è la
> prima tappa del processo di lavorazione della coca; questa pasta viene
> acquistata dai commercianti e consegnata ad un ristretto gruppo di persone
> che la raffinano e poi la esportano. Gli esportatori hanno un guadagno
> immenso. Tuttavia qunado la si vende in USA o in Europa, il 95% del
> guadagno si ferma nel Nord del mondo. E solo il 4-5% entra
clandestinamente
> in Colombia e resta nelle mani dei narcotrafficanti: dai 4 ai 7 miliardi
di
> dollari all'anno che vanno ad alimentare una corruzione enorme. La
> giustizia, le forze armate, la polizia, persino la Presidenza della
> Repubblica si lasciano comprare da questi dollari. Gran parte di questo
> denaro finanzia il paramilitarismo, i cui leader sono spesso
> narcotrafficanti. Anche la guerriglia si finanzia raccogliendo un'imposta
> sui grammi di cocaina prodotta (il gramaje). Il traffico di cocaina è però
> un problema internazionale; la Colombia può fare anche mille sforzi per
> risolvere questo problema, ma non potrà farcela da
> sola".
>
> IL PARAMILTARISMO: BRACCIO ARMATO DELLLO STATO
>
> La storia della Colombia, racconta il gesuita, è una storia di violenza.
> "Negli anno '60, dopo la rivoluzione cubana, molti ritennero che la
> giustizia sociale potesse essere realizzata solo con una rivoluzione
> violenta. La risposta dello Stato fu una violenza militare brutale. Si
> ricorse alla tortura, all'assassinio, ai bombardamenti contro i
> guerriglieri. I militari agivano apertamente, non in clandestinità.
> Assassinavano le persone sulla pubblica piazza, in divisa e con il nome
> cucito sulla giacca. Verso gli anni '80 la strategia cambia: la comunità
> internazionale comincia a reagire. Arrivano in Colombia la prima missione
> di Amnesty International, la prima Commissione Interamericana di Diritti
> Umani. Ed è allora che il governo, per salvare la faccia di fronte alla
> comunità internazionale, pensa al paramilitarismo: gruppi di civili armati
> e coordinati dall'esercito (con il contributo della CIA, come attestano
> documenti resi pubblici). In seguito si approfittò di una legge del '68
che
> consentiva di dare armi dell'esercito ai civili, per fare rientrare questi
> gruppi paramilitari nell'ambito della legalità. A metà degli anni '80 si
> stabilisce un'aperta alleanza tra paramilitari, narcotrafficanti e i
gruppi
> economicamente più forti nel paese. Il denaro della droga contribuisce a
> finanziare il paramilitarismo che si attrezza con armi e strumenti moderni
> e il numero delle vittime cresce vertiginosamente. Nell'89 un decreto
> presidenziale dichiara illegale il paramilitarismo, ma a partire dagli
anni
> '90 i paramilitari diventano una presenza permanente in vaste zone del
> paese e si rafforzano i legami tra paramilitari e militari". Per dare
> un'idea della copertura che il paramilitarismo incontra nel paese,
racconta
> p. Giraldo, basti pensare che Carlos Castaño, "attuale leader nazionale
del
> paramilitarismo, ha il suo quartiere generale in un luogo che tutti
> conoscono e riceve visite di parlamentari, leader politici, vescovi,
> giornalisti, commissioni internazionali. C'è la fila. Gli unici che
> sembrano non sapere dove stia sono i militari e la polizia. Eppure il
> governo assicura la comunità internazionale che sta perseguendo il
> paramilitarismo". Una delle conseguenze più gravi dela paramilitarismo,
> spiega ancora il gesuita, è il fenomeno dei desplazados, degli sfollati,
> persone, cioè, costrette ad abbandonare i loro villaggi per il terore
delle
> rappresaglie quotidiane. "Negli anni '60 i campesinos riuscivano a
> convivevere con la guerriglia, anche se non ne condividevano la strategia.
> Ma da quando i paramilitari si sono installati nelle comunità contadine in
> modo permanete (anni '90) vige l'assassinio e la delazione. I paramilitari
> non si scontrano apertamente con i guerriglieri, ma puniscono e massacrano
> la popolazione civile che tollera o simpatizza con essi; la gueriglia a
sua
> volta denincia alla comunità i contadini che collaborano con i
> paramilitari. Le comunità così si dividono, si assiste a scontri continui
e
> la gente abbandona i villaggi andando ad affollare la periferia delle
> città, dove vive in condizioni di estrema povertà. Nel '95 la Conferenza
> episcopale conduce un'inchiesta fra 3000 parrocchie nel Pease sull'entità
> dei desplazados; risponde solo il 30% degli intervistati e in base a
questo
> 30 % emerge che negli ultimi 10 anni (dall'85 al '95) ci sono stati
650mila
> desplazados ( se avesse risposto il 100% degli intervistati la cifra
> avrebbe raggiunto i 2 milioni). La Conferenza ha mantenuto un'equipe che
> segue le statistiche sui desplazados e ha scoperto che il fenomeno si è
> ingigantito: nei tre anni successivi ('96-'97-'98) il numero degli
sfollati
> è superiore a quello dei 10 anni precedenti. I desplazados sono una delle
> tragedie più gravi della Colombia. E lo Stato non fa nulla per arginare il
> fenomeno".
>
> 18 ANNI DI NEGOZIATI DI PACE
>
> E quasi nulla sta facendo per riportare la pace nel paese, commenta p.
> Javier, nonostante i negoziati di pace attualmente in corso. "In Colombia
> abbiamo avuto 18 anni di negoziati di pace, che possono essere ricondotti
a
> 3 modelli". "Durante il governo di Belisario Betancour ('82-'86) si è
avuto
> il primo ciclo di negoziati con la guerriglia. Sul tappeto c'era il
> problema sociale ma il presidente era solo: non era sostenuto
> dall'establishment politico (partiti, Parlamento) né economico del Paese,
> non dalla Chiesa né dalle forze armate. Il negoziato fallì in pochi mesi.
> Successivamente si ebbe un nuovo modello, di maggior successo: il governo
> entrò in trattative con 8 gruppi guerriglieri, sul tappeto non c'erano più
> i problemi sociali, si patteggiava solo la smobilitazione di questi
> guerriglieri: il governo ha offerto l'amnistia, un aiuto economico per il
> loro inserimento nella società ad anche alcuni posti in Parlamento. I
> gruppi guerriglieri hanno deposto le armi, ma erano pochi, piccoli e già
in
> via di smantellamento. Non si arrivò alla pace. Nel '90/'91 il governo di
> Gaviria ha iniziato il dialogo con i gruppi guerriglieri più forti e
> consistenti. Tornano sul tavolo dei negoziati i problemi sociali del
paese.
> Il contesto sociale è diverso da quello degli anni '80, più tollerante: si
> cheide di riconoscere esplicitamente che la causa delle continue violenze
è
> l'ingiustizia sociale. Cambia la posizione della Chiesa. La Conferenza
> episcopale è l'unica organizzazione a mantenere aperta una finestra di
> mediazione. Anche i mezzi di comunicazione si comportano diversamente e
> perciò si è potuti arrivare ad un incontro tra guerriglia e governo.
> Tuttavia le trattative formali sono iniziate solo il primo gennaio di
> quest'anno e contemporaneamente sono inziate le difficoltà ". Quanto alla
> reale posizione del governo in questo dialogo, lo stesso presidente Andres
> Pastrana, commenta p. Girardo, ha ammesso di "giocare contemporaneamente
> due carte: la negoziazione (piano a) e la soluzione militare (piano b). E
> ha detto che se la prima non funziona, ricorrerà alla seconda. Però mentre
> prosegue il piano a (Pastrana ha deciso la smilitarizzazione di una zona
> del paese per dialogare e fissare i punti del negoziato), il piano b fa
> passi da gigante. All'inizio del proprio governo, Pastrana ha approvato la
> riforma dell'esercito, ha accresciuto la spesa militare, ha creato nuove
> strutture militari e soprattutto ha accettato una massiccia collaborazione
> degli Stati Uniti per l'equipaggiamento tecnologico delle forze armate.
Gli
> Stati Uniti hanno detto chiaramente che sostengono il piano b".
>
> P. Girardo è molto preoccupato ed è perfettamente consapevole che il
> processo di pace non può essere a breve termine. "Dopo 40 anni di guerra è
> impossibile risolvere problemi così gravi in due, tre anni. Dobbiamo
> considerare il processo di pace come un processo a lunga scadenza,
> altrimenti è falso. I 47 punti dell'agenda dei negoziati, approvati dalle
> due parti, raccolgono problemi enormi, che riguardano cambiamenti profondi
> della struttura sociale, ci vorranno anni per risolverli. E la comunità
> internazionale deve convincersi di questo, inclusi gli Stati Uniti che
> pensano di risolvere la questione in pochi mesi.
>
> Ci si può chiedere perché queste riforme sociali non possono essere
> discusse in modo diverso e non con le armi al lato del tavolo dei
> negoziati. Sarebbe l'ideale, ma lo stesso Pastrana, rispondendo ad una
> domanda simile, ha detto: "la guerriglia ha chiesto più volte di
> convertirsi in una forza politica legale, però quando ci ha provato li
> abbiamo ammazzati tutti".
>
> Con quale autorità morale - domanda p. Guirardo - possiamo ancora chiedere
> alla guerriglia di divertare forza politica? Siamo arrivati ai negoziati
> perché tutti gli altri percorsi imboccati sono finiti nel sangue.
>
> Questa riforma sociale dovrebbe essere discussa e sviluppata dalla società
> civile, dalle organizzazioni popolari, dai sindacati, dai lavoratori.
>
> Ma dove sono? La maggior parte di loro sono stati sterminati.
>
> Quale leader campesino può parlare senza essere assassinato? Un punto da
> porre sul tavolo dei negoziati è proprio riconoscere la libertà di
pensiero
> all'opposizione: lasciare che chi la pensa diversamente all'establishment
> possa esprimere tranquillamente la propria opinione e sostenerla senza
> pagare per questo il prezzo della vita"
>
> PRIMA LA GIUSTIZIA, POI LA PACE. LE CONTRADDIZIONI DELLA CHIESA
>
> "Ho lavorato più di dieci anni nella Commissione Giustizia e pace - ha
> detto p. Javier -. In questi dieci anni molte sono state le sfide che la
> Commissione si è trovata ad affrontare. In primo luogo cercare di fare
> capire a molti religiosi che l'aiuto alle vittime non si esaurisce
> nell'azione umanitaria; volevamo privilegiare la giustizia alla carità.
>
> Però privilegiare la gisutizia significava appoggiare le scelte di
> resistenza della popolazione. A livello teorico il discorso è semplice:
> tutti convengono che bisogna andare a ricercare le cause che producono
> l'ingiustizia per risolverle, ma nella pratica questo vuole dire entrare
in
> conflitto con i carnefici, significa fare delle denunce e ciò comporta la
> reazione dell'esercito, del governo e delle istituzioni ufficiali. L'altra
> grande sfida riguarda il rapporto tra la giustizia e la pace. Dopo il
> Concilio Vaticano II e la Conferneza di Medellin nel '68, nei nostri
> documenti abbiamo ripetuto mille volte che la pace è frutto della
> giustiza." Però quando la Chiesa affronta in concreto il problema della
> pace, "agisce in aperto contrasto con questo principio, e afferma che
prima
> deve venire la pace, e poi verrà la giustizia. E' logicamente impossibile.
> La pace, nel senso cristiano, è un problema escatologico perciò otterremo
> un po' di pace nella misura in cui otterremo un po' di giustizia".
>
> "Mi domando - commenta p. Giraldo - che pace sia quella sottoscritta nei
> grandi accordi firmati nel mondo, per es. in Salvador o in Guatemala".
>
> Pace non è fare tacere le armi, ma ottenere giustizia.
>
> Questi paesi che hanno firmato gli accordi dovrebbero essere in pace, in
> realtà vivono in una situazione di ingiustizia peggiore di quando stavano
> in guerra. Una guerra vera e propria non scoppia solo perché la gente è
> stanca di tanti anni di sangue, morte, odio. Costruire la pace a partire
> dalla giustizia quindi non è facile. E anche all'interno della Chiesa
> bisogna affrontare molte opposizioni". Oggi si parla molto di
> riconciliazione; commenta p. Giraldo. In Cile, ad esempio, si è creata la
> "Commissione per la verità e la riconciliazione": manca la parola
> giustizia; è una chiara indicazione dell'intenzione reale dell'episcopato
> cileno, ma anche di molti altri in America latina, cone quello colombiano.
> La riconciliazione richiede il perdono e l'oblio del passato. La
> Commissione Giustizia e Pace è profondamente convinta che se non c'è
> giustizia nello stabilire la verità e le sanzioni per riparare i guasti
> subiti dalla società, si ipoteca il futuro con nuove oppressioni. Per noi
> il problema del perdono e dell'oblio non è un problema del passato ma un
> problema che compromette il futuro, costruire una società sul perdono e
> sull'oblio significa costruire una società a misura dei carnefici.
> Elaborare la memoria della violenza e dei crimini del passato è
> fondamentale per impedire che tali ingiustizie si ripetano nel futuro. E'
> un altro punto che provoca molte incomprensioni all'interno della Chiesa.
>
> Spesso in Colombia si confonde la Chiesa con la gerarchia.
>
> Ma nelle zone di guerra è la Chiesa di base che opera, questa è la chiesa
> che non si conosce, la chiesa del silenzio, però è soprattutto questa
> Chiesa che testimonia in tutto il paese la presenza cristiana".
>