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Lettera mensile di Ettore Masina



Invio alla lista questa lettera/articolo che Ettore Masina ha scritto nel mese di novembre, dedicata al processo sui desaparecidos argentini di origine italiana.
Un caro saluto.
Marina
 
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L’aula-bunker di Rebibbia è un ambiente raggelante. Già il suo nome indica una minaccia che preme dall’esterno; dentro, è anche peggio: è una specie di macchina per stritolare, in nome della Legge, il Male: un male tanto diffuso che due pareti dell’enorme sala sono costellate di gabbie, che paiono quelle di un cupo giardino zoologico - senza neppure quella specie di camuffamento tropicale che sempre tentano quei “giardini”. Nelle gabbie dell’aula-bunker possono essere rinchiusi, alla bisogna, almeno cento, ma forse di più, imputati: intere “brigate” di terroristi o prolifiche  gang mafiose. Proprio per questo, per processi collettivi a imputati di gravissimi reati, è stata costruita l’aula bunker; e, infatti, vi sono stati celebrati memorabili dibattimenti.

Poiché i processi sono pubblici, per legge, cioè sottoposti al controllo popolare, l’aula-bunker di Rebibbia contiene uno spazio adeguato. E’ una “galleria”, anch’essa immensa, a venti o più metri di distanza dal luogo in cui sono collocati i giudici; un vetro a prova di proiettile separa la “galleria” dall’aula; un impianto radiofonico garantisce l’ascolto. L’insieme è una specie di deserto tecnologico, che sembra vietare sentimenti che non siano di disperazione o di rigore. Se poi la “galleria” è vuota di pubblico, il luogo diventa lunare, abitato soltanto da solitudini.

Tuttavia l’aula-bunker di Rebibbia ha ospitato qualche giorno fa un rito di giustizia che scaldava i cuori. Dopo tanti anni di lotte, di pazienza indomita, di affetti denegati da tutti ma conservati – per loro e per noi – come sacri, i familiari dei desaparecidos italo-argentini hanno finalmente sentito un magistrato rievocare il loro martirio spirituale, e quello di sangue dei loro figli e dei loro nipoti; e chiedere la condanna dei responsabili. Quel giorno, finalmente, dopo tanto vuoto, anche lo spazio del pubblico era affollato: di studenti di un liceo romano, i cui professori, evidentemente, non credono che la storia debba essere neutra, cioè prona a un unanimismo che è indiretta, ma decisiva, assoluzione per i carnefici. Era commovente vedere tanti giovani assistere al racconto di una vicenda che distrusse decine di migliaia di loro coetanei; raccogliere memorie che saranno preziose per loro quando,  fra pochi anni, dovranno prendere post in una società ormai mondializzata, in cui ogni nazione è parte integrante delle altre.

Questo processo potrebbe apparire deludente: troppi anni sono passati sulle madri e sui padri che at- tendevano di conoscere (e forse non conosceranno mai) dove e quando sono stati uccisi figli e figlie, carne della loro carne, nodo dei loro amori; troppi anni sono passati sulle nonne e sui nonni che, senza cedere alle minacce, hanno cercato di sapere dove fossero finiti i nipotini mai conosciuti, rapinati alle madri appena partoriti, e donati, come bambole, a genitori adottivi che spesso erano i carnefici di chi li aveva generati; troppe amnistie, indulti, trucchi giuridici hanno impedito che giustizia venisse fatta in Argentina, cosicché per il momento  è soltanto in Italia, come già in Francia e in Spagna, che le condanne vengono pronunziate, a carico di omicidi liberi e talvolta ancora potenti nel loro paese. Troppo tardi si è mossa l’Italia: prima negando il problema, poiché l’Argentina dei generali (iscritti alla P2) era un ottimo partner commerciale; poi negando vergognosamente  ogni aiuto ai cittadini italiani vittime delle persecuzioni; e infine cavillando a lungo (nonostante l’intervento personale del presidente Pertini) sulla possibilità di impiantare il processo. C’è voluto il governo del centro-sinistra (Prodi, D’Alema) perché finalmente la magistratura italiana avviasse il procedimento. Infine troppo pochi sono i casi presi in esame: 8 desaparecidos e 7 imputati (militari, di vario grado), mentre certamente i morti italo-argentini furono migliaia e migliaia i carnefici implicati nel loro assassinio.

Perché tanta apparente avarizia? Il fatto è che gli omicidi furono prudenti: non soppressero soltanto un’intera generazione  di giovani ma anche le prove dei loro delitti. Come fu difficile per i familiari (e, molto più spesso, impossibile) rintracciare i luoghi di detenzione in cui ragazzi e ragazze  erano stati trascinati da speciali “commandos”, così è stato impossibile, al ritorno della democrazia, rintracciare i corpi delle vittime e il nome dei loro assassini.

I corpi erano stati sepolti in fretta e furia in cimiteri clandestini oppure in cimiteri “legali”, ma sotto falso nome; oppure erano stati bruciati (i carcerieri parlavano ridendo di “asado”: che in italiano vuol dire “arrosto”); o, anche, i prigionieri venivano intontiti con un’iniezione di pentothal e gettati da aerei militari nell’immenso Rio de la Plata. Se poi qualche aviatore appariva in stato di choc al ritorno da una missione così diversa dai doveri militari, subito caritatevoli cappellani lo sollevavano dal senso di colpa: hai eseguito, dicevano, una condanna a morte decisa in nome della difesa della civiltà cristiana, una condanna, oltre a tutto, pietosa perché indolore. La Chiesa argentina, infatti, soprattutto nei suoi vertici episcopali, collaborò con i militari, condividendone le finalità e considerando come necessario strumento di difesa dal comunismo il regime di terrore che i generali avevano scatenato. Il Nunzio Pio Laghi confortò i vescovi con il suo esempio. Avvenne così – e anche questo è orribile – che molti soldati, i manovali del crimine, fossero convinti di agire cristianamente. Più di un prigioniero scampato alla morte ha raccontato che i carcerieri, prima di permettere, la sera, ai detenuti che avevano sopportato ore e ore di tortura, di sdraiarsi sui nudi pavimenti delle celle, li obbligavano a recitare le “orazioni della sera”.

Molti dei carnefici agivano in una specie di delirio di onnipotenza. Un testimone ha deposto che nel carcere in cui egli fu imprigionato i militari avevano tracciato grandi svastiche e una grande scritta: “Qui noi siamo Dio”. Sotto quel messaggio demoniaco qualcuno aveva vergato con il suo sangue, in piccoli caratteri: “Ma Dio non uccide”. Molti dei torturatori erano non soltanto dei sadici ma anche dei vigliacchi. Uno dei più famosi, il capitano Astiz, pluriomicida, inviato a combattere nelle Falkland-Malvinas, si arrese immediatamente agli inglesi. La storia dei generali argentini e di molti loro subalterni è la storia di tanti piccoli Eichmann, abietti tenutari di quelle che giustamente sono state chiamate “piccole Auschwitz”.

 Le ha definite così il pubblico ministero, Francesco Caporale, che quel giorno s’è addentrato nella storia dei desaparecidos con lucida precisione ma anche con pudore, mostrando, con parole scarne e forse per questo anche più efficaci, come essa appartenga non a un’epoca remota né a una terra “di periferia” ma al cuore della nostra epoca e della Terra: perché il cuore di un’epoca e della Terra non può non essere là dove amore e odio si contendono l’uomo e l’amore costruisce speranze, legami, solidarietà; e l’odio genera mostri e feroci idiozie.

A questo modo il processo ha perso ogni sua esiguità. Mentre Francesco Caporale parlava, io guardavo Angela Boitano, che tanti di voi conoscono, appese al petto le fotografie dei suoi bellissimi figli che le sono stati strappati per sempre. Da più di vent’anni si batte perché i crimini dei militari siano riconosciuti tali e la giustizia distenda la sua ala sulla memoria dei giovani condannati a morte soprattutto perché giovani. Michelangelo e Adriana Silvia Boitano non sono nell’elenco dei casi sui quali giudicherà la  corte italiana, ma questa ad Angela sembrava, in quei momenti, come in tanti della sua lotta, poco importante: erano tutti figli suoi, fratelli e sorelle di Michelangelo e Adriana.

La sentenza si avrà intorno al 10 dicembre. Ma già nel giorno della requisitoria ho assistito a un evento meraviglioso: la vittoria di una lotta non violenta, la fedeltà all’amore che diventava storia.

Libri.

Mandando agli amici e alle amiche che dispongo di e-mail un mio intervento sulla Palestina (destinatari “comodi” di messaggi che non posso inviare per posta) scrivevo che qualche volta mi piacerebbe avere un giornale tutto mio. Avrebbe, fra l’altro, naturalmente, una rubrica libraria con l’indicazione di volumi che vorrei che tutti leggessero. Eccone un esempio:

*** Delle speranze amputate dell’America Latina, di quelle tramutate, con lacrime e sangue, in conquiste di giustizia ha scritto, in un suo libro recente, Italo Moretti, che l’altro giorno era anche lui nell’aula-bunker di Rebibbia. Il libro si chiama “In Sudamerica”, ed. Sperling & Kupfer, ed è una straordinaria sequela di personaggi e di eventi dipinta da uno dei migliori giornalisti italiani, innamorato dell’America Latina, testimone attento, scrupoloso e sensibile di tragedie, di errori e di eroismi. Dall’Argentina al Cile al Salvador Moretti racconta e spiega come pochi altri sanno fare.

*** Al Sudamerica e “a tutti i Sud del mondo” è dedicata una nuova/antica rivista, trimestrale,“Latinoamerica”. Antica e gloriosa per il suo passato (nata vent’anni fa per iniziativa di Bruna Gobbi, Enzo Santarelli e Alessandra Riccio), nuova perché rilanciata in splendida veste da quel prodigio di vitalità e di sapiente irruenza che è Gianni Minà., avrà fra i collaboratori abituali Eduardo Galeano, Luiìs Sepulveda, Paco Ignacio Taibo II, Frei Betto, Alex Zanottelli etc. Il nuovo numero è nelle librerie.

*** Avevo già citato in LETTERA il libro di poesie di Pietro Ingrao, “Variazioni serali”. Maestro di etica e di politica, da poeta Ingrao crede di parlare da vecchio. Leggere questo libro fa scoprire come si possa essere giovanissimi a più di ottant’anni.

*** Ettore Masina; “Il prevalente passato”., ed. Rubbettino. L’editore lo presenta così: Dallo Zimbabwe alla Palestina, dal Cile al Vietnam e dai delitti della provincia italiana all’aula di Montecitorio, Il prevalente passato è la testimonianza di vita di un uomo ora iracondo nelle polemiche sui mali della Terra, ora piegato dalla dolcezza accanto alle sue nipotine; un giornalista che ricorda i suoi straordinari incontri con Eugenio Montale e La Pira, Quasimodo ed Enrico Mattei, Camilla Cederna e Rafael Alberti, Dino Buzzati e Pol Pot, Helder Camara, le Nonne di piazza di Maggio e Bettino Craxi; e assassini e pontefici, teologi della liberazione e indios; e intanto continua a tessere una rete di amicizie e di solidarietà, al di qua e al di là dei confini italiani. Nel racconto di Masina, questa volta, si intensificano i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza: la Libia “coloniale”, i film dei telefoni bianchi; il fascismo visto dal basso, nonni che sembravano re-pastori e domestiche che parevano la Madonna del Parto.

Nota. LETTERA viene inviata a chi ne fa richiesta al mio indirizzo: via Cinigiano 13, 00139 Roma. Un contributo alle spese è gradito. Può essere inviato sul ccp  49249006 intestato a Luca Lo Cascio,  via Leone  Magno 56,  00167  Roma. Questo numero viene inviato a spese mie: il c.to corr. è totalmente prosciugato.                                                      

Ettore Masina