La fantasia in piazza nel 2003
Guerra in Libia: la rete ha ucciso la piazza?
“E’ con grande piacere che do il benvenuto al ministro Gheddafi al Dipartimento di Stato. Noi attribuiamo grande valore alle relazioni tra gli Stati Uniti e la Libia. Abbiamo grandi opportunità per approfondire e ampliare la nostra cooperazione e personalmente ho la ferma intenzione di consolidare i nostri rapporti. Pertanto, signor ministro, sia il benvenuto tra noi”. (21 aprile 2009. Mutassim Gheddafi viene ricevuto con tutti gli onori a Washington da Hillary Clinton)
Il mondo è in guerra. L’ennesima guerra neocolonialista-imperialista, questa volta per impossessarsi delle riserve di petrolio della Libia.
L’aggressione è stata realizzata tanto velocemente (il tempo per l’ennesima ridicola riunione del Consiglio di Sicurezza dell’ ONU) quanto evidentemente criticabile da ogni punto di vista, soprattutto da quello dello stesso diritto internazionale con il quale pure vorrebbe legittimarsi. Non può essere infatti sostanzialmente valida una risoluzione internazionale emessa ad hoc a legittimare un intervento armato con lo scopo di imporre la democrazia, quando l’organismo che la emette diventa strumento nelle mani delle potenze mondiali. Perché infatti non si è mai intervenuto allo stesso modo contro Israele, che continua impunemente, anche in queste ore, a commettere un vero e proprio genocidio sistematico contro il popolo palestinese?
Più passano le ore e più, nel caos e nella confusione di dichiarazioni, smentite, dubbi sui ruoli e finanche sullo scopo, l’intera operazione si profila come la stessa campagna mediatica che l’ha preceduta: maldestra, confusa, improvvisata e grossolana.
Con quelle tombe in costruzione fatte passare per fosse comuni, con i bombardamenti inesistenti su Tripoli, smentiti allegramente dall’ambasciatore italiano e dal vescovo di Tripoli che proprio in questi giorni sta parlando di guerra assurda e sta invocando la “mediazione per risolvere i conflitti” (non era la stessa cosa che diceva Chávez qualche settimana fa?), bufale colossali, come i 10.000 ribelli morti e gli oltre 50.000 mila feriti, che quasi nemmeno il terremoto e lo tsunami in Giappone. Bufale che gli stessi ideatori e disinformatori di professione hanno dovuto ritirare in fretta e furia dal mercato di fronte all’evidenza dei fatti.
Campagna mediatica evidentemente grossolana proprio perché si è reso evidente il fatto che non era necessario uno sforzo disinformativo eccezionale. Si disinforma chi potrebbe, di fronte all’evidenza dei fatti, reagire in qualche modo. Chi avrebbe dovuto reagire a questa nuova guerra, e come? L’ opinione pubblica internazionale?
Perché esiste l’opinione pubblica internazionale? Di cosa o chi stiamo parlando? Di quell’ “indignazione morale condivisa per infrazioni evidenti del comandamento contro la violenza e per massicce violazioni dei diritti umani”?[1] Dove sta? Dove e come si esprime? Chávez a l’intera coalizione dell’Alba, da sud tuonano contro le mire neocolonialiste di un pugno di stati che credono che le lancette del tempo siano ancora ferme al XIX secolo, Putin, da nord parla di “crociata medievale”… In mezzo c’è l’Europa, confusa politicamente e con la voce del suo popolo, della sua gente completamente assente oggi.
Dove stanno? Dove sono le voci dei popoli? Gli unici a levare proteste contro la guerra sono alcuni presidenti, qualche governo, qualche intellettuale… Dove sono i giovani? Dove sta il sentimento pacifista che ha animato in passato le strade e le piazze europee e che è stato il fondamento, il pilastro di tutti i movimenti giovanili? Dove stanno le bandiere della pace che hanno colorato le strade e le piazze europee tra il 2002 e il 2003? Si calcola che allora in Italia quasi tre milioni furono i balconi e le finestre dove il vessillo multicolore indicava che in quella casa, in quell’ufficio, in quella scuola si stava esprimendo un forte e chiaro NO alla guerra! E le moltitudinarie
proteste del febbraio 2003…
Questa è la ricostruzione che fa di quel sabato 15 febbraio 2003 lo storico statunitense J.J. Sheehan[2]: “ Sabato 15 febbraio 2003 si tenne la più grande dimostrazione della storia europea, contro la guerra che stava per colpire l’Iraq. A Londra una folla di circa un milione di persone si riversò in Trafalgar Square, riempiendo le strade cittadine dagli argini del Tamigi alla Euston Station; un milione di manifestanti marciò a Barcellona e a Roma, altri 600.000 a Madrid. A sfidare il gelo al Tiergarten di Berlino furono in 500.000, un numero quasi pari ai partecipanti alla Parata dell’Amore che vi si teneva in estate. Si trattava ovunque di folle pacifiche. Ci furono pochi arresti, nessun episodio di violenza. Le dimostrazioni attirarono una ricca varietà di partecipanti: c’erano alcuni adolescenti vestiti in pelle e con l’aria da duri e giovani che indossavano la kefiah palestinese o la sciarpa nera degli anarchici, ma nella stragrande maggioranza dei casi si trattava di cittadini dall’aspetto rispettabile, che indossavano caldi cappotti invernali e scarpe comode – pensionati, accademici di mezza età, membri dei sindacati, studenti delle superiori e universitari. C’erano tante famiglie, genitori e nonni che non partecipavano a una dimostrazione dagli anni Sessanta, bambini che per la prima volta facevano l’espe
rienza
di quel caratteristico miscuglio di euforia e disagio delle manifestazioni politiche. Un quotidiano tedesco definì l’evento «una rivolta di persone comuni»…. Diversamente da chi in passato aveva manifestato contro la guerra in Vietnam, nessuno mostrava alcuna simpatia per l’altra parte; non c’erano bandiere irachene né ritratti di Saddam Hussein. Per la maggior parte di quelle persone, il vero problema non era chi aveva ragione e chi torto, ma se la guerra potesse essere considerata una risposta.”…In tutte le città coinvolte, guardando al di sopra della marea umana, la scritta che appariva più spesso era composta da una sola parola: «No».
Sicuramente, come si è visto, le proteste nulla hanno potuto contro la guerra, che a distanza di 8 anni continua cruenta ancora oggi. Tuttavia esprimevano un sentire comune, se non dei governanti, quanto meno dei governati. Esprimevano un sentimento che riuscì anche solo per un breve, anche se inutile momento, ad uscire dalle pance e a riversarsi nelle strade.
Guardando indietro con gli occhi di oggi, guardando oggi da questa Europa folle che, nel tentativo di contrastare “l’unilateralismo missionario” dell’interventismo statunitense di allora, riesce oggi ad essere soltanto una ridicola caricatura di se stessa, vediamo tuttavia che, l’ottimismo di alcuni intellettuali dovuto allora alla contemporaneità di quelle moltitudinarie proteste contro la guerra, appare oggi sicuramente esagerato. Junger Habermas e Jacques Derida nel loro appello dal titolo: Il 15 febbraio: ovvero, ciò che unisce gli europei auspicavano, credendola possibile, “la nascita di un’opinione pubblica europea” proprio a partire da quelle grandi e sentite manifestazioni di pacifismo, le “più grandi dalla fine della seconda guerra mondiale”. Oggi, rispetto ad allora, resta simile soltanto la spaccatura europea rispetto al ruolo della politica estera del continente. E all’interno dei singoli Stati le spaccature sulle posizioni da tenere, rendono tutto il gioco guerrafondaio ancora più sguaiato e meschino. Ai rumori della guerra fa eco il chiasso della politica e tutto intorno il silenzio…
Spostando la visuale, infatti, guardandoci da fuori, noi “persone comuni” del 2003, dove siamo oggi? Dove sta la nostra rabbia contro la guerra? Dove sono i nostri giovani?
Io lo so e il saperlo mi riempie di tristezza e inquietudine. I nostri giovani stanno tutti al pc. Seguendo giorno per giorno gli avvenimenti. Certo, partecipando, scrivendo (come sto facendo io stessa in questo momento), dibattendo, insultando questo o quel politico, Berlusconi come Sarkozy, Obama come Cameron, manifestando dissenso e rabbia, esponendo foto e scritte come si fa con gli striscioni in piazza.
Io non credo che sia casuale tutto questo. Io credo, sono fermamente convinta, che la rete sia una grande conquista della comunicazione, che sia una grande opportunità di crescita e di condivisione, di comunicazione e di scambio, di esperienze, di lotte, di battaglie e di informazioni. Credo però anche che sia mancato uno studio serio e intelligente degli effetti che questo mezzo avrebbe potuto avere sulla militanza, sulla protesta, sul dissenso. E questo ci ha fr
egati.
Abbiamo pensato, nelle lunghe giornate d’inverno, o al fresco delle nostre case nelle estati assolate e torride, che fare e produrre informazione comodamente seduti davanti ad un monitor fosse in qualche modo costruttivo. Abbiamo pensato che scrivere, e scrivere, e condividere notizie, e produrre dibattito, fosse una maniera diversa e più acculturata di apportare il nostro contributo alle cause in cui credevamo e crediamo. Abbiamo pensato che far girare e condividere in migliaia di siti le orrende foto degli eccidi israeliani al fosforo bianco sui bambini palestinesi volesse dire contribuire in quale maniera a quella causa. Abbiamo pensato che mettere la bandiera della pace nelle nostre pagine web o nei nostri avatar fos
se come
mettercele addosso o esporle alle nostre finestre.
Sbagliavamo. Le piazze si sono svuotate, i cortei si sono fatti più silenziosi e noiosi, i colori sono lentamente sfumati. Nessuno grida più, nessuno torna a casa la sera stanco, sudato e senza voce dopo un corteo, tutti appaiono stanchi invece di tanto sbraitare e urlarsi addosso rabbia virtuale nei social forum.
Il potere ha vinto. La fantasia non è riuscita a dominarlo. In passato soffocata da tonnellate di droghe gettate addosso alle menti migliori, quelle più fervide e ribelli, poi livellata con il ventennio uniforme e squallido dell’avvento delle televisioni commerciali (che ha dato il colpo di grazia a cultura e originalità), così oggi, i centri di potere, dandoci l’illusione della libertà di espressione, facendoci credere di ess
ere
tutti partecipativi nella creazione globale dell’informazione, con quel mezzo diabolico e terribilmente geniale e seducente che è internet, hanno controllato, con meno morti e meno diffusione di malattie, ogni velleità rivoluzionaria dei giovani.
In piazza a Roma la settimana scorsa contro la guerra hanno manifestato una cinquantina di persone, il gruppo in Facebook Fuori l’Italia dalla Guerra in Libia conta 697 persone, il gruppo No alla guerra in Libia piace a 150 persone, No alla guerra contro la Libia piace a 300 persone, Io non voglio la Guerra in Libia piace a 792 persone e così via…
Paradossalmente proprio questi mezzi, internet e i suoi social Forum Facebook e Twitter, proprio quelli che hanno contribuito a creare adesione e consenso intorno a tanti militanti di alcuni paesi lontani da noi sia geograficamente che culturalmente , sono stati quelli che li hanno maggiormente isolati, chiudendoli dentro le maglie repressive della rete.
La rete, quella è la vera piazza oggi. Questa è la vera sconfitta. La nostra e del pacifismo, violento o non violento che sia, più educato e rispettoso o sguaiato e rabbioso, non importa il modo o la forma. E’ la sostanza che manca, la grande
assente. Questa, signori, è la sonora e scottante sconfitta della militanza.
Annalisa Melandri
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