Sembravano un’anomalia destinata ad essere riassorbita
dal modello capitalista. Erano le fabbriche, soprattutto argentine,
destinate alla chiusura da imprenditori rapaci pronti a scappare con la
cassa al momento del crollo del modello neoliberale nel 2001. Per una
breve stagione furono molto di moda anche da noi, soprattutto seguendo il
caso della Zanón, una fabbrica di ceramiche che dà lavoro a circa 1.500
persone a Neuquén,
oggi felicemente FaSinPat (Fabbrica
Senza Padroni). Ma ora che anche qui sta crollando tutto,
non sembrano un’opzione percorribile in Italia. Invece a dodici anni di
distanza dalla prima fabbrica recuperata, molteplici studi, tra i quali
uno di Raúl Zibechi, ci mostra che non solo le fabbriche recuperate non
erano una stramba utopia frutto della disperazione ma che, liberandosi dei
padroni, danno lavoro e stanno perfino sul mercato.
Nel maggio del 1998, quando il neoliberismo sembrava
scritto dal padreterno nella pietra delle tavole dei dieci
comandamenti il recupero dell’IMPA, Industria Metalúrgica y
Plástica Argentina, una fabbrica di alluminio, sembrava una
stravaganza.
Gli studi argentini (molte info possono essere
rintracciati qui: http://www.recuperadasdoc.com.ar/)
mostrano invece numeri straordinariamente interessanti che
testimoniano che non solo le imprese recuperate non sono scomparse ma si
sono consolidate.
Ad ottobre del 2010 nel paese ci sono 205 imprese
recuperate (nel Novecento si sarebbe detto collettivizzate) che danno
lavoro a circa 10.000 lavoratori. Poco più di un lustro fa, nel 2004,
quando la loro esperienza era già dimenticata da noi, erano 160, con meno
di 7.000 lavoratori impiegati. Nei tre quarti dei casi è stato necessario
occupare la fabbrica, quasi sempre con l’aiuto dei lavoratori di altre
industrie. Il dato straordinario è che ben il 90% delle imprese che hanno
intrapreso la via del recupero da parte dei lavoratori è sopravvissuto,
con una mortalità quindi infinitamente inferiore a quella delle imprese
gestite da un padrone. In due terzi dei casi, con battaglie legali con
tratti spesso epici, hanno ottenuto decreti di esproprio favorevoli,
regolarizzando quindi a tutti i fini la loro situazione. Nella metà dei
casi le cooperative, a dimostrarne la buona gestione, hanno avuto la
necessità di assumere nuovi lavoratori.
Vari studiosi, tra i quali Andrés Ruggieri, ricordano che
dopo il Cordobazo del 1968 le esperienze di autogestione delle fabbriche
durarono al più poche settimane e che i dieci anni attuali implicano
l’essere entrati in una esperienza stabile e nuova. Andando sull’altra
riva del grande fiume, anche nel ben più piccolo Uruguay, le proporzioni
sono identiche (circa il 10% di quelle argentine, come per la
popolazione). Imprese come la fabbrica di pneumatici FUNSA dà lavoro,
sotto il controllo dei sindacati, a ben 226 lavoratori, una dimensione
grande nel paese.
Le fabbriche recuperate vanno spesso ben al di là del tema
del lavoro, cambiando l’approccio alla politica e alla vita sociale in
tanti quartieri popolari. Nell’88% dei casi si tengono assemblee regolari,
una palestra alla vita politica che rompe il modello sociale vigente. In
tre fabbriche su quattro tutti i lavoratori ricevono lo stesso salario,
indipendentemente dal tipo di lavoro realizzato. Non basta: almeno una
fabbrica su tre ospita eventi culturali e attività educative per tutta la
comunità, sono in grado di fare donazioni e partecipano attivamente alla
vita delle organizzazioni popolari della zona. Il caso simbolo è proprio
quello dell’IMPA, la prima fabbrica recuperata. Oggi la fabbrica è solo un
pezzo di una piccola holding cooperativa industrial-culturale. Nella
fabbrica continuano a produrre alluminio 58 operai, nel centro culturale e
di salute lavorano in 30 e nella scuola popolare in 43. Dopo una crisi
profonda nell’agosto 2009, quando la fabbrica è stata di nuovo vicina allo
sgombero in un conflitto che appare senza fine, c’è stato il rilancio con
l’idea di un’università dei lavoratori. All’inaugurazione sono state
cantati in sequenza l’inno argentino, l’Internazionale e la marcha
peronista.
Cambia, todo cambia, direbbe la negra Sosa. Ma alcune cose
rimangono. Per esempio i lavoratori delle fabbriche recuperate non hanno
buttato a mare il modello organizzativo taylorista/fordista delle
fabbriche novecentesche che (incomprensibilmente per molti premi Nobel
dell’economia) qui continua a funzionare. Integrano però un gran numero di
incontri informali durante l’orario di lavoro (Marchionne ne morrebbe) e
di decisioni collettive. Sono invece scomparsi i controlli obbligatori
all’uscita, che supponevano che l’impresa considerasse i lavoratori
irresponsabili del bene della stessa e tutti potenziali ladri, sulla via
della costruzione di un soggetto collettivo capace di assumere le proprie
responsabilità.
Tutto rosa? Molti problemi permangono, primo fra tutti una
divisione del lavoro che rimane netta tra mansioni produttive e mansioni
tecnico-amministrative. Inoltre la redditività tende ad essere ben più
bassa, quindi spesso gli stipendi sono più bassi e mancano gli strumenti
tipici delle imprese capitaliste, primo fra tutti il licenziamento, per
superare le crisi. Tuttavia è falso che le imprese recuperate sono uno
strumento di consenso politico finanziato dallo Stato: appena l’8%
beneficia di commesse pubbliche.
Simbolico, soprattutto per le imprese che meglio
funzionano, e quindi hanno avuto la possibilità di
assorbire nuovo personale, è che in oltre il 40% dei casi alla fine
quest’ultimo non è divenuto socio della cooperativa con pari diritti, ma
salariato della stessa.
Al di là dei problemi, ad oggi, i lavoratori argentini
sanno che recuperare le fabbriche è uno strumento efficace non solo di
lotta al momento della contrattazione, ma anche una risorsa di resistenza
al momento della crisi. Oggi in Argentina il fallimento (dei padroni) fa
meno paura e, se lo si fabbrica giorno per giorno, un altro mondo, e un
altro lavoro, è davvero
possibile. |