L’11 aprile 2002, la confindustria locale, i vertici
della chiesa cattolica, le televisioni, l’esercito venezuelano con
l’appoggio materiale e l’indirizzo politico del governo degli Stati Uniti
di George Bush, della Spagna di José María Aznar e del Fondo Monetario
Internazionale realizzavano un sanguinoso colpo di stato a Caracas ponendo
a capo della dittatura il capo della Confindustria Pedro Carmona Estanga e
mettendo, secondo loro, fine all’esperienza bolivariana. Il golpe doveva
restaurare il dominio del fondomonetarismo in America latina e mantenere
col sangue il cosiddetto “Consenso di Washington” neoliberale. Non
avevano fatto i conti con il popolo venezuelano. Questo si mobilitò a
milioni, passandosi la parola di bocca in bocca e di casa in casa, scese
in piazza, affrontò le pallottole dei sicari e degli squadroni della
morte, pagando spesso con il sangue il proprio diritto a vivere in pace
finché il 13 aprile riportò a Miraflores il presidente legittimo Hugo
Chávez Frías. Chávez è inizialmente sconfitto dal golpe. Il palazzo di
Miraflores, sede del governo a Caracas, viene preso, iniziano i
rastrellamenti e le violazioni di diritti umani. Ma è il terrore della
restaurazione del neoliberismo più crudele che 13 anni prima aveva portato
al Caracazo, le stragi ordinate dal presidente Carlos Andrés Pérez (del
quale fu complice come Ministro del Fomento l’oggi grande editorialista
del Sole24Ore e dell’Espresso Moisés Naím) a mobilitare le masse. I
bolivariani, oltre il golpe, vedono il vuoto assoluto. Niente più scuole
né ospedali. I quasi trent'anni che separano l’11 aprile venezuelano
dall’11 settembre cileno hanno distrutto la fiducia di classe nelle
strutture organizzate, di derivazione europea, liquefatte dal
neoliberismo. In Venezuela il ruolo di partiti e sindacati è marginale;
sono i movimenti sociali e le unità di base a contare, riprendersi dallo
sbandamento, autoconvocarsi e sconfiggere il golpismo. È la reazione
popolare ad animare parte dell’esercito a difendere la Costituzione
bolivariana. Tutto quello che viene dopo, compreso Hugo Chávez, che è
figlio della ribellione e non uomo della provvidenza, è possibile perché
quel golpe fu sconfitto dal basso. Il popolo venezuelano può offrire, alla
prova del golpe, il meglio di sé sulla base di una partecipazione popolare
che è altra rispetto al Novecento europeo dei partiti. Il governo e la
stessa Costituzione fungono da strumenti delle organizzazioni sociali. La
bassa società civile, (1) si autoconvoca per difendere entrambi e, senza
la mediazione di quadri tanto indecisi come quelli allendisti del 1973,
cambia la storia. Quel golpe, ma soprattutto la sconfitta dello stesso,
fu fondamentale perché il già florido movimento popolare latinoamericano
del XXI secolo acquisisse la coscienza di poter prendere nelle mani il
proprio destino. Da allora verranno molte vittorie, servizi pubblici
essenziali privatizzati durante la notte neoliberale sono tornati pubblici
e l’abominio dell’ALCA, il mercato comune delle Americhe che doveva
consegnare centinaia di milioni di lavoratori a una condizione semischiava
per alimentare la competizione portata dagli Stati Uniti alla Cina, è
stato sconfitto e l’America latina cammina sicura verso un cammino
d’integrazione e di riduzione in pace e democrazia delle terribili
disuguaglianze moltiplicate dal neoliberismo. Per tutto ciò oggi i media
mainstream tergiversano l’importanza dei fatti di Caracas dell’aprile 2002
fino addirittura a negarne l’esistenza. Noi invece pensiamo sia
indispensabile ricordarlo.
(1) L’opposizione a Chávez si
autodefinisce, senza un filo d’ironia, “alta società civile”. Nelle
televisioni commerciali compromesse con il golpismo, i democratici sono
sprezzantemente definiti “lumpen” o direttamente “negros”. L’elemento
razzista creolo è parte integrante di un classismo arcaico che ritroviamo
sia in Cile che in Argentina, dove i peronisti di origine non europea sono
chiamati cabecitas negras, testoline negre.
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