| “I cosacchi abbevereranno i loro cavalli nelle acque 
      dell’Orinoco” strilla la propaganda antilatinoamericana. Ma la visita del 
      primo ministro russo Vladimir Putin a Caracas e gli accordi tra Venezuela 
      e Russia, osteggiati e addirittura irrisi con poco rispetto dell’etichetta 
      diplomatica dalla Casa Bianca, sono una dimostrazione della progressiva 
      irrilevanza del “consenso di Washington” sia in campo militare, ma 
      soprattutto, ed è quello che duole, in materia economica ed 
      energetica.Moltiplicare in pochi anni il proprio interscambio 
      regionale facendosi allo stesso tempo protagonisti del multilateralismo 
      del XXI secolo con aree del pianeta con le quali il sistema neocoloniale 
      fondomonetarista non prevedeva che l’America latina dovesse avere rapporti 
      (dalla Cina all’Africa, dai paesi musulmani al mondo russofono); è questa 
      la grande colpa dell’America latina integrazionista, che si tratti di 
      Venezuela, Argentina, Bolivia, Cuba o Brasile ed è per questo che va 
      demonizzata, criminalizzata, denigrata, dileggiata.
 Tutto è ammesso, 
      perfino l’uso del golpe (a giorni saranno 8 anni da quello dell’11 aprile 
      2002 a Caracas) pur di evitare di riconoscere nei fatti quello che già con 
      difficoltà si ammette a parole: la sovranità dell’America latina sul 
      proprio destino e la fine della dottrina Monroe che, al tempo di quando in 
      Roma regnava papa Pio VII, stabiliva la sudditanza del continente agli 
      interessi del Nord.
 Nel caso del Venezuela poi vi sono in gioco le 
      favolose riserve petrolifere dell’Orinoco dove, secondo lo USGS (servizio 
      geologico statunitense), ci sarebbe addirittura il doppio del petrolio che 
      giace sotto l’Arabia Saudita, con 513 miliardi di barili contro 266, il 
      doppio di quello che gli stessi venezuelani (ufficialmente) calcolano. In 
      quest’ambito, quello di differenziare clienti e fornitori e puntare ad un 
      progresso anche nelle tecnologie di punta, incluso quello delle 
      comunicazioni, vanno visti gli accordi che hanno spinto per la prima volta 
      a Caracas il primo ministro russo Vladimir Putin. Questi, dimostrando che 
      Washington ben poco ha fatto tesoro dei fallimenti dell’era Bush, hanno 
      spinto la Casa Bianca all’ennesima isterica ingerenza: “il Venezuela è 
      meglio che si occupi di questioni terrestri e non extraterrestri”. A 
      prescindere dall’ulcera coltivata dal governo degli Stati Uniti l’America 
      latina, il Venezuela, il Brasile e gli altri paesi integrazionisti 
      latinoamericani continuano in un cammino di progresso che passa anche per 
      il recupero e lo sviluppo di tecnologie militari che Washington, con la 
      sua attitudine aggressiva e d’ingerenza, rinuncia a voler offrire.
 Così 
      se si firmano accordi per 20 miliardi di dollari in cooperazione 
      petrolifera, precisamente per lo sfruttamento congiunto delle difficili ma 
      ricchissime riserve del campo Junin 6 dell’Orinoco, il complesso mediatico 
      concentra i propri piani di demonizzazione del Venezuela denunciando che 
      nello stesso ambito vi siano accordi di cooperazione militare per il 10% 
      di questa cifra. Allo stesso tempo sottaciono, o ridicolizzano, altri 
      accordi nel campo delle comunicazioni, sia aeree che satellitari, oppure 
      il processo che porterà a fabbricare in Venezuela automobili con 
      tecnologia russa. Né Mosca, né Caracas, neanche l’Avana, né altri paesi 
      sotto il mirino sono antistatunitensi: il problema è e resta la sovranità 
      economica e politica. Fino a quando una riunione tra due capi di stato per 
      firmare accordi bilaterali verrà vista come un abuso e presentata come una 
      minaccia alla pace all’opinione pubblica mondiale, gli Stati Uniti 
      continueranno a perdersi nel loro labirinto di ossessioni dal quale Barack 
      Obama non sembra in grado di tirarli 
fuori.
 
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