Tegucigalpa. Honduras, ottobre. Il Premio Nobel per la Pace, elogiato da Fidel, lancia l'Operazione Condor 2 L'HONDURAS ALLA BATTAGLIA FINALE PER L'AMERICA LATINA tra fascisti e Resistenza, tra imperialismo e popoli
Nos tienen miedo por que no tenemos miedo - Hanno paura perché noi non abbiamo paura. (Slogan del Frente de la Resistencia contra el golpe de Estado) Tegucigalpa, ottobre.
Oggi la Resistenza si è concentrata alla UNAH, Università Nazionale
Autonoma dell’Honduras, cuore della lotta studentesca. Stradone di
entrata e uscita dalla capitale bloccata dai copertoni incendiati. I
poliziotti robocop e i militari bardati come per un assalto a Gaza
(sono ottimamente istruiti dai paramilitari colombiani e dai soliti
specialisti israeliani, a disposizione di ogni efferatezza fascista in
America Latina) stanno alla larga. Le migliaia accorse all’appello
degli studenti dai barrios e dalle colonias
(favelas) di questa città dalla cupola di merda e di dollari e dalla
base di rabbia e fame, sono troppe da bastonare, gassare, sparare,
intossicare con la chimica rossa al peperoncino. Ci sono stati altri
due morti ammazzati, in aggiunta alla ventina documentata (poi ci sono
i desaparecidos nelle carceri della tortura; anche qui, esperti
israeliani): Jairo Sanchez, sindacalista che una pallottola in faccia
ha ucciso dopo 21 giorni di agonia, ed Eliseo Hernandez, professore,
direttore della scuola El Mateo a Santa Barbara. Il conto per oggi,
ultracentesimo giorno del popolo in piazza contro il colpo di Stato,
parrebbe chiuso. Quei posapiano dell’Organizzazione degli Stati
Americani (OSA), terminale latinoamericano del travestimento
democratico Usa, potrebbero vedersi costretti ad arricciare il naso
sugli eccessi della dittatura del lumpendittatore Micheletti. Già hanno
dovuto dar retta a Lula, che gli ha intimato di porre un freno
all’assedio della sua ambasciata con dentro, dal 21 settembre, Mel
Zelaya, presidente deposto, impegnato in un dialogo che con la teppa
fascista golpista mai si sarebbe dovuto neanche concepire.
“Dialogo” tra assassini e assassinati Il
rinnegato di classe Mel Zelaya deve essere ammorbidirlo ulteriormente,
visto che, accettati tutti i punti dell’accordo-truffa di San José
(assemblea costituente alle calende greche, elezioni-farsa sotto
controllo militare il 29 novembre, cancellazione dei provvedimenti
sociali) suggerito da Washington al suo fantoccio costaricano Oscar
Arias, Premio Nobel per meriti Usa, insiste sull’ultimo punto: il
reinsediamento di Manuel Zelaya nella carica di presidente
dell’Honduras dalla quale la notte del 28 giugno fu strappato in
pigiama, con le pistole dei gorilla puntate alla testa, e sbattuto in
Nicaragua. Così, dopo i gas tossici sparati nelle tubature
dell’ambasciata, dopo l’ordigno dai suoni laceranti, entrambi fiori
tecnologici all’occhiello dei torturatori israeliani, ora si tratta di
praticare su presidente, famigliari, seguaci, personale brasiliano, il
tuttora irrinunciabile metodo Guantanamo: la privazione del sonno
attraverso fotoelettriche accecanti sparate nelle stanze
dell’ambasciata, fragorose esercitazioni da caserma notturne sotto le
finestre, strepitii di trombe, tuoni di tamburi e soprattutto
l’amplificazione micidiale di quella musica rock che ha fuso il
cervello dei detenuti nella base strappata a Cuba. E’ in queste
condizioni e in quelle quotidiane di irriducibili masse di donne,
bambini, uomini massacrati dalla repressione, che si “dialoga” tra un
presidente e la banda di delinquenti venduti al colonialismo gringo che
lo tiene rinchiuso nel proprio paese in un’ambasciata straniera. Del
resto, non aveva il rappresentante nell’OSA dell’ultrà Hillary Clinton
definito Zelaya un “imprudente idiota”? Così il rappresentante del Frente,
Juan Barahona, visto che lì, all’Hotel Clarion, sede del negoziato
propiziato dagli sciacquapanni dell’OSA, chi ciurlava nel manico, chi
faceva il pesce in barile, chi si calava i pantaloni (anche se solo
fino al ginocchio), ha sbattuto la porta ed è tornato in piazza. Dove
ormai, nella battaglia finale lanciata dagli Usa di Obama contro
l’America Latina in progress, a partire dall’anello ritenuto più debole, tutto si decide.
Studenti Parte
la marcia verso il centro. Sono migliaia, le eterne donne dagli assalti
verbali furibondi contro la teppa golpista, i quadri nati nel fuoco
dello scontro da cento e cento associazioni sindacali, socialiste, dei
diritti umani, di categoria, insegnanti in testa, i meticci e gli
indios (sono il 90% dei 7 milioni di honduregni e riempiono per intero
l’80% della povertà di questo paese che è al penultimo posto nella
graduatoria continentale, prima di Haiti), qualche rinnegato della
classe creola (i discendenti dei coloni spagnoli), gli studenti davanti
a tutti, i meno rassegnati al pacifismo integrale del Frente.
Tutti con la richiesta prioritaria su tutte: Zelaya al suo posto, e con
quella strategica, imprescindibile: assemblea nazionale costituente per
passare dalla Repubblica del Pentagono, di Chiquita, degli avvoltoi
minerari e del disboscamento, a una società come quella di Cuba, o di
Chavez, terrore dell’Impero. E’ stato tolto lo stato d’assedio che la
banda dei mercenari di Obama aveva proclamato a fine settembre, che
aveva provocato morti, feriti, arresti, torture, desaparecidos, ma che
non c’è stato giorno che la Resistenza non l’abbia sfidato. Sono stati
liberati due dei tanti media d’opposizione devastati e chiusi: Radio
Globo e Canale 36 (ma altri i gorilla delle dieci famiglie, in gran
parte ebree, che depredano paese e popolo, i Facussé, capocomici di
questo colpo di Stato, per primi, li tengono chiusi). E la marcia va a
festeggiare i compagni di Radio Globo che, alla faccia delle
attrezzature rubate e dei locali distrutti, hanno continuato a
diffondere la parola della Resistenza attraverso internet, sfuggendo
alla caccia degli sbirri, spostandosi di casa in casa, di giardino in
giardino, di anfratto in anfratto, come il nostro amico Pavel,
strepitoso protagonista di questa contesa tra guardie di menzogne e
ladri di verità.
Nonviolenza? A un certo punto ecco i cobras,
neanche un centinaio, con quelle mazze di legno spaccaossa, i mitra, i
lanciagranate CS, quelle facce che abbiamo visto a Genova, brutizzate
dall’addestramento alla protervia, alla ferocia. Davanti a quest’ ola
di entusiasmo e determinazione, i mercenari delle Dieci Famiglie, gli
ascari della Scuola delle Americhe, i pretoriani della gerarchia
cattolica ed evangelica, disorientati, sbigottiti, arretrano, si
limitano a seguire da lontano. Non è il momento di sparare, siamo
troppi e non conviene macchiare di sangue gli sparati di chi al Clarion
finge di negoziare pacificazioni. E’ bastato che un centinaio di
studenti, giorni prima, davanti al Clarion, per una volta reagissero al
fugone disordinato della folla aggredita, ponendosi in mezzo, a
copertura di donne, vecchi, deboli, ragazzini, perché la truculenza
impunita dello sbirrame della dittatura vacillasse. Nos tienen miedo por que no tenemos miedo.
Non è questione, ancora, di resistenza armata, come, chiamandola
“insurrezione” e “terrorismo”, la cricca dei golpisti la denuncia,
“scoprendo” ordigni esplosivi nei centri commerciali, o puntando il
dito su campi di addestramento in Nicaragua, allo scopo di liberarsi le
mani a una resa dei conti militarizzata, che sia giustificabile davanti
alla già collusa “comunità internazionale”. C’è qualcuno che dal grasso
Nord del mondo ha qui importato la burlesca fissa della “nonviolenza”
da agnelli sacrificali. E così ogni lotta, ogni manifestazione ha
subito lo stesso destino: botte da orbi, un omicido o due, gas
venefici, panico, dispersione disordinata, traumi e senso di sconfitta.
Forse da questi studenti, dai più consapevoli dei militanti sta uscendo
l’intuizione che nonviolenza è soprattutto la difesa dalla violenza dei
gorilla di Goriletti (detto anche Pinochetti). Che i deboli, gli
indifesi di un corteo vanno protetti con servizi d’ordine che sappiano,
anche a fuochi, pietrate e barricate, frenare gli attacchi della
repressione, organizzare e garantire via di fuga e di riordinamento,
costituire un contropotere di massa, evitare che si arrivi al punto di
non poterne più di prenderle, sempre prenderle e si finisca col restare
a casa. Lo hanno insegnato i boliviani, gli ecuadoriani, quando hanno
cacciato i loro di Micheletti. Forse sapranno rispondere al piano
repressivo che la dittatura, mostratasi irriducibile e magari domani
nascosta dietro elezioni “democratiche” alla Bush, già previste sotto
controllo delle Forze Armate, figurarsi, costruendo una rete
clandestina di resistenza. Rete che salvaguardi la direzione e il
tessuto del Fronte della Resistenza, condizione imprescindibile per
quella vittoria, domani, che la maturità politica espressa da questo
popolo saprà garantire a sé, facendone anche scudo ai fratelli sotto
tiro Cia in tutto il continente latinoamericano, da Cuba alla Bolivia,
dal Venezuela all’Ecuador, al Nicaragua, al Salvador, al Paraguay,
all’Uruguay, ai rivoluzionari e ai progressisti.
Oggi, intanto,
è festa e affermazione su una cricca di macellai fascisti che, abolito
formalmente lo stato d’assedio e la legge marziale, sconfitti dalla
disobbedienza di massa, vogliono perpetuarli nella sostanza
approfittando del sonnecchiare complice dei democratici e delle
sinistre di quasi tutto il mondo. Resta infatti praticata la
sospensione delle libertà e dei diritti all’inviolabilità del
domicilio, a manifestare, riunirsi, associarsi, comunicare in termini
non di regime Qui è successo e continua a succedere un Cile 1973,
quello per cui da noi i sindacati scioperavano, boicottavano, i
manifestanti assediavano le ambasciate, la stampa “perbene” strepitava
indignazione, Lotta Continua organizzava “Armi al MIR”
(l’organizzazione del martire Miguel Enriquez che, diversamente dal
PCC, non si rassegnò). Oggi silenzi e occultamenti, sparuti segnali dei
pochi cui è rimasto la consapevolezza che la battaglia
internazionalista contro fascismo e imperialismo è la chiave anche per
affrontare la propria macelleria sociale, la chiave di un futuro o da
fine del mondo, o di liberazione per tutti. Si attraversano i quartieri
delle casupole e delle baracche, con i cartelli delle parole d’ordine
tracciati da donne proletarie e sottoproletarie, incredibilmente
consapevoli, accolti dalle donne delle baraccopoli che dall’inedia del
dollaro al giorno riescono a estrarre pasti per chi resiste nelle
piazze. Veniamo infoltiti dalle vittime della sopravvivenza senza
lavoro, senza scuola, senza sanità, che da quattro mesi sfidano
lesioni, arresti, abusi e morte per arrivare a dire finalmente la loro
sul destino di questo paese. Ogni incontro, pure rinnovatosi tutti i
giorni, è avvolto in un’affettività che sprigiona calore da unità
d’intenti, un rete d’amore contrapposta alla gelida complicità di quei
quattro becchini della giustizia e della vita nascosti dietro ai loro
pretoriani. E gli studenti coronano la giornata accendendo nel buio
mille fiaccole, dando ulteriore nerbo alla resistenza con quell’enorme
falò che incenerisce il Micheletti-fantoccio vestito di bandiera Usa.
Sacrosanto falò di sostanze tossiche, di quelli che tanto scandalizzano
i tutori della “società civile” quando s’inceneriscono stelle di
Davide, pupazzi di mercenari o vessilli a stelle e strisce.
Genova 2001 ?Con
Marco, amico e collega telecineoperatore, abbiamo vissuto per due
settimane in un paese sotto stato d’assedio. Quel figlio della Grande
Meretrice nel Nord, Micheletti, dopo qualche giorno di sopracciglia
inarcate dei soci della “comunità internazionale”, aveva dichiarato
revocato il provvedimento e la legge marziale. Ma non aveva pubblicato
la revoca sulla Gazzetta Ufficiale, in modo da poter surrettiziamente
continuare a infierire sugli inermi: manifestanti, comunicatori,
associazioni. E così che ci trovammo coinvolti nel quotidiano assalto a
manifestanti che, correttamente, avevano individuato nell’Ambasciata
Usa, al di là delle fanfaluche sull' Obama buono messo alle strette dai
tagliagole del Pentagono e dalla virago Clinton, l’obiettivo cardine
della resistenza al golpe. Erano qualche centinaio a cantare – questa è
una lotta che canta, come tutte quelle che hanno un’anima
rivoluzionaria – ballare e lanciare slogan contro i gringos e i loro fantocci e per l’assemblea costituente. Lo schieramento di robot armati a difesa della sede dei neoconquistadores
intima di togliersi dai piedi. La folla rifiuta come un sol uomo, pur
avendo fatto quotidiana esperienza del modello Genova che ne sarebbe
seguito. Alle 12.15 scatta la carica. Prima una grandinata di mazzate
sulle prime file, spappolamenti, lacerazioni, sangue. Poi sulla
moltitudine in fuggi fuggi una scarica di gas tossici e acque
chimicizzate. Robaccia da accecare, rendere incapaci, lesionare e
danneggiare nel tempo. Marco, dalle lunghe gambe e da esperto
professionista, dietro a un albero si cura di mettere al riparo lo
strumento di lavoro e di verità, la telecamera, il Kalachnikov
dell’informatore onesto. Io, abbioccato dal gas, indugio tra marea in
fuga e squadroni di Mazinga all’inseguimento. Piovono granate come
castagne d’autunno. In quei momenti, accecato o non accecato,
asfissiato o respirante, al cronista viene l’urgenza di raccontare
subito, senza la mediazione del ricordo. Voglio dire qualcosa al
microfono di Marco per comunicare autenticità e immediatezza. Ma il
discorso “in camera”, quello che noi della tv chiamiamo stand up,
resta strozzato in gola da un attacco di tosse convulsa che mi piega in
due. Tutt’intorno altri polmoni si accartocciano, si rivedono le scene
dei gas sparati dagli iraniani sui curdi. E l’idea che questi allievi
di Negroponte e Netaniahu, specialisti di squadroni della morte su
entrambe i lati dell’oceano, possano sorvolare su chi si proclama “ prensa” o “ press”
e ha in mano gli attrezzi del mestiere, svapora quando il fotografo
restato indietro con me viene colpito in piena schiena e abbattuto da
una granata di quella roba tossica. Conviene unirsi ai fuggiaschi. Si
serpeggia tra mazze che ruotano sulle teste e si dribblano granate
saettanti tra i piedi. Ancora una volta va deprecata l’assenza di
qualsiasi ombra di servizio d’ordine che faccia barriera tra robocop
scatenati e inermi allo sbaraglio, che convogli verso ripari e
santuari, riorganizzi un minimo di risposta. Succedeva, ci raccontano
le immagini, nei primi tempi della rivolta contro i masnadieri
fascisti, ma poi prevalse la parola d’ordine della nonviolenza
sublimata in martirio. Guai se quelli lì trovano pretesti per darti del
violento, del teppista, del terrorista! Come se di pretesti avessero
bisogno! Canali televisivi e giornali non chiusi, tutti in mano alla
mafia oligarchica, ti davano comunque dell’insorto contro le leggi
dello Stato, del devastatore, del criminale, anche se ti presentavi
snocciolando rosari. Il confronto è tra il Cile, consegnato dal
pacifismo mitizzato a un ventennio di terrore e depredazione, e la
Bolivia, l’Ecuador, il Venezuela, dove masse insorte, nonviolente ma
non indifese, hanno invece saputo infliggere alla belva fascista danni
insostenibili. Anche perché se giorno dopo giorno protesti e poi lasci
la piazza, la città in mano ai “tutori dell’ordine”, non ti si fila
nessuno. S’è visto nell’abissale silenzio, nella cinica e complice
indifferenza con cui tutti i media del mondo, sinistre comprese (faccio
un’isolata eccezione per Geraldina Colotti, correttissima sul
“manifesto”), hanno accompagnato e affossato lo scontro tra l’80% di un
popolo e i matamoros rapinatori di libertà e di vite. Sarebbe
stato lo stesso se ragazzi avessero difeso pezzi della loro città con
le barricate incendiate, la paralisi del traffico e dei trasporti,
larghe zone di inagibilità dello Stato? Diritti umani sotto dittaturaIn
coda a uno spezzone della manifestazione, tra pestati, sanguinanti e
incazzati, arriviamo nel cuore della città, alla sede del COFADEH
(Comitato dei famigliari dei detenuti e desaparecidos in Honduras). Una
palazzina a due piani dove da decenni si lavora, e mai come in questi
mesi, alla ricerca, difesa, liberazione delle vittime della
repressione, all’inseguimento giuridico dei responsabili, degli
aggressori, degli assassini. Il comitato è presieduto da Bertha Oliva:
nel 1982, nel paese dell’eterna repressione oligarchico-coloniale, a
Bertha è stato fatto sparire suo marito. La sua silhouette tracciata
sulla porta della direzione ce lo presenta giovane, con panni e faccia
da ’68. Dal suo personale desaparecido questa donna ha tratto
la forza per costruire uno scudo a tutti i vessati, abusati, carcerati,
perseguitati del suo paese. Subito all’ingresso una bambina di 14 anni,
con la madre. Sulla nuca una larga fascia a copertura della ferita
procuratasi quando, accecata dai gas, è precipitata da un muretto. Più
o meno negli stessi giorni, la furia mirata degli sbirri aveva spaccato
il braccio a Carlos Reyes, segretario del più grande sindacato
honduregno e fino a poco fa credibilissimo candidato indipendente alla
presidenza della repubblica. Ci aveva detto, Reyes, che la sua
candidatura avrebbe retto solo nel caso del ritorno alla presidenza di
Manuela Zelaya e, quindi, di elezioni libere, trasparenti, non
manipolate dalla cricca di golpisti alla moda afghana. Quell’ipotesi
sembra caduta con la rottura del “negoziato” tra criminali e vittime,
sigillata dal rifiuto di tornare alla situazione istituzionale di prima
del 28 giugno. E pensare che nei sondaggi Reyes figurava in testa a
tutti. Con competitori come gli squallidoni Elvin e Pepe dei soliti
Partito Liberale e Partito Nazionale, che si alternano al potere
dall’eternità a difesa delle medesime rapine e obbedienze yankee come
se fossero dei PD e PDL qualsiasi, la partita non era difficile. Anche
per questo il golpe. Più avanti, nell’androne del Cofadeh, su un
divano, giace rannicchiato immobile un pallidissimo ragazzino sui 12
anni. Incapace di arrestare le lacrime, ormai più dolore che rabbia,
sua mamma racconta a Marco quello che gli hanno fatto: polmoni
bruciati, costole s paccate, terrore inseminato per chissà quanto. Carlos ReyesNel
vociare degli scampati alla caccia all’uomo che fanno registrare ai
volontari di Bertha gli abusi subiti o testimoniati, la presidente di
questo organismo eroico, minacciato, perseguitato e diffamato più di
coloro che difende, ci mostra la bozza del Segundo informe sobre
violaciones a derechos humanos en el marco del golpe de estato en
Honduras: Cifras Y Rostros de la Represion (Dati e volti della
repressione). Entriamo in uno scenario cileno di cui, per ragioni di
spazio, riferiamo solo le cifre essenziali. La musica dell’orrore ve la
dovete immaginare. Diritto alla vita: 21 assassinati
accertati al 20 ottobre (e ci si riferisce solo alle città, le campagne
devono essere indagate), 3 tentati omicidi, 108 minacce di morte; diritto all’integrità personale:
133 persone colpite da trattamento crudele, disumano e degradante, 21
da lesioni gravi, 453 feriti da mazzate e granate, 211 colpiti da armi
non convenzionali; diritto alla libertà: 3.033 detenzioni illegali, 2 tentativi di sequestro, 114 arresti politici; libertà d’espressione: 27 mezzi di comunicazione occupati, devastati e chiusi, 26 aggressioni a giornalisti; 3 organizzazioni sociali vietate; libertà di movimento:
52 fermi di polizia e militari senza imputazioni. Seguono le violazioni
di domicilio, del diritto di difendere i diritti umani, cioè i
provvedimenti contro dirigenti sociali e dei diritti umani… Spicca tra
la profusione di foto su tutte le pareti quella di una giovane di
gentile e volitivo aspetto: era Wendy Elizabeth Avila, 24 anni, uccisa
dai gas del despota scaturito dalla base Usa di Palmerola, mentre,
militante della Resistenza dal giorno del golpe, il 22 settembre in
mezzo a una folla immensa festeggiava davanti all’ambasciata brasiliana
il rocambolesco ritorno di Zelaya. Sono gas forniti da Israele, come
gli istruttori delle squadre degli assassini mirati, fin dai tempi
della caccia Contras al sandinista. Operazione Condor 2Del
resto, come mosche sul miele o, meglio, come rapaci lanciati da
falconieri, si sono avventati sull’Honduras da eviscerare gli stessi
cavalieri dell’apocalisse che avevano stritolato il paese e i suoi
vicini negli anni ’80, al tempo delle mattanze di Reagan e Bush padre
contro le forze di liberazione di Salvador, Guatemala, Nicaragua.
Centinaia di migliaia di morti ammazzati. Era la coda dell’Operazione
Condor, dittature militari, terrore e stragi in tutto il “cortile di
casa” Usa dai ’70 agli '80.Siamo all’Operazione Condor Due. Governava
la prima edizione Otto Reich, imprestato al Dipartimento di Stato dalla
mafia cubana di Miami, protettore dell’iperterrorista Posada Carriles.
Oggi, da sottosegretario della Clinton, torna a governare la versione
obamiana dell’uccisione di repubbliche che “delle banane” devono
restare. Era ambasciatore allora John Negroponte, padrino di tutti gli
squadroni della morte che hanno funestato l’Honduras, l’America
Centrale, successivamente l’Iraq. Negroponte, recuperato per tali
meriti dalla segretaria di Stato di Obama, è tornato a occuparsi di
Honduras e di squadroni della morte. Billy Joya di questi è il
campione, quello che ci tiene a sporcarsi direttamente le mani.
Specialista degli assassinii mirati e di torture ai prigionieri durante
gli anni del mattatoio reaganiano, uccideva personalmente i
prigionieri. E’ tornato pure lui e stavolta a incarico di altissimo
livello, ufficiale, visibile a tutti, così che tutti imparino:
consigliere per la sicurezza del lumpendiktator. Nientemeno. Il che ci fa capire cosa s’intende oggi quando, anche da noi, ci si parla di “sicurezza”. In Honduras lo chiamano el matarife,
il macellaio. Lo abbiamo colto al volo, col telefonino, all’aeroporto
di Tegucigalpa, andava a casa a farsi commissionare nuovi crimini. Se
ci avesse visto filmarlo avremmo tardato molto a rientrare. Scusate se
l’immagine, rubata, non è perfetta. Basta per ricordare una faccia. Billy Joya I predatori e il loro golpe
Se del paese da un secolo fanno man bassa la United Fruits, ora Chiquita, e la Dole,
già dei fratelli Vaccaro, dietro le quinte di ogni spettacolo
granguignolesco allestito in Centroamerica, non sono da meno, tutti del
Nord del mondo, i disboscatori e quelli delle miniere. L’Honduras è
tutto un saliscendi dal livello del mare ai quasi 2000 di La Esperanza,
cuore della maggioranza india Lenca, figli degli amerindi peregrinati
qui da Colombia e Venezuela e discepoli degli aztechi. Poverissimi tra
i poveri, resistenti tra i resistenti. Paesaggi come montagne russe, un
tempo fittamente rivestite da superfetazioni tropicali in basso e
sterminate foreste di pini in alto. In mezzo il prezioso mogano, ambìto
nelle magioni dei fissati di status ed esibizione.
Siguatepeque è una cittadina nel cuore del paese. Intorno ha ancora le
antiche foreste, rifugio di Lempira, grande capo indiano che
ripetutamente sconfisse i predecessori spagnoli dei genocidi yankee e,
consegnatosi dopo tre mesi di assedio, fu ovviamente trucidato dal
Billy Joya dell’epoca. Per arrivarci con la corriera tocca scivolare
con lo sguardo su una serie ininterrotta di montarozzi calvi, spennati
senza pietà. E’ la deforestazione, una distruzione dell’ambiente
corroborata dalla corruzione della classe dirigente, inflitta dal
commercio, fuorilegge ma multinazionale, del legname. Già nel 2004
(altre cifre non ci sono) il paese perdeva 1000 kmq di foresta
all’anno, un 2% della superficie boschiva nazionale. Disboscamento
significa erosione del suolo, impermeabilità del terreno, incendi,
inondazioni, valanghe di fango che, estremizzate anche dall’uragano
Mitch, hanno ucciso migliaia di persone. I pini forniscono il 96% del
legname del paese, metà abbattuto illegalmente. Del mogano fino all’80%
viene prodotto illegalmente: tre milioni di tasse evase, svalutazione
del valore sul mercato internazionale, incalcolabili danni all’ambiente
naturale. Ogni anno l’Honduras perde così un miliardo e mezzo di
dollari, la Terra un pezzo dei suoi polmoni. Gli Usa acquistano il 38%
di questo legname. I suoi burattini despoti locali chiudono gli occhi e
intascano la provvigione. Capisaldi della ResistenzaLungo
i tornanti della strada che si avvinghia alla montagna in crescita, il
loquacissimo per esuberanza rivoluzionaria compagno del Frente,
Ostilio (produce magliette della Resistenza di ottima qualità diffuse
tra la gente come margheritine sui prati primaverili), ci ferma dove
sorgono una serie di negozietti che nascondono un villaggio di recente
creazione, bello, lindo, ordinato e con tanto di bel campo sportivo. E,
insieme all’aumento del 60% del salario minimo, alle leggi per la
scolarizzazione, al sostegno alimentare ai più poveri, al controllo
sugli sciacalli delle industrie farmaceutiche e ad altri provvedimenti
che hanno permesso l’inserimento dell’Honduras nell’ALBA (Alleanza
Bolivariana dell’America Latina), una delle iniziative di Zelaya che
hanno mandato in bestia i padroni interni ed esterni del paese. Gente
che se ne stava rannicchiata in tuguri nascosti tra gli alberi ai lati
della strada e scendeva ai bordi per offrire agli automobilisti quanto
sottraevano alla propria bocca, frutti, pannocchie, sciroppi, ha
ottenuto l’incentivo finanziario e la formazione professionale per
trasformare la mendicità in attività produttiva e commerciale e
l’indigenza in modesto benessere. Coloratissime e sorridenti signore
indigene, con addosso il solito grappolo di frugolini, presidiano una
sfilata di botteghe artigianali con il frutto della loro evoluzione:
oggetti in ceramica, maschere, utensili domestici in versione
artistica, stoffe, oltre alla solita radiosa frutta. Un pezzo di vita
honduregna cambiata, un’esclusione senza dignità sostituita dal ruolo
sociale e, a giudicare dai manifesti della Resistenza, dalla coscienza
politica. I golpisti e i loro burattinai a Washington potranno pure
impedire il ritorno del presidente defenestrato, allungare il brodo
rancido del “dialogo” fino alle elezioni di fine novembre, manipolare
quelle per rimettere in capo al paese il solito bulimico verminaio,
predisporre questa base d’assalto dell’imperialismo in Centroamerica al
roll back latinoamericano di
Obama-Clinton-Pentagono-multinazionali-FMI, al recupero dei popoli e
delle risorse perse, alla liquidazione dei Chavez, Correa, Morales,
Ortega e, se non s’accucciano, anche di Brasile, Argentina, Salvador,
Guatemala, Paraguay, Uruguay e, naturalmente, Cuba. Ma quanto è nato,
cresciuto, maturato in questa gente nel corso di quattro incredibili
mesi di insanguinata ma irriducibile lotta a chi vorrebbe riportare
l’orologio ai tempi di Videla, Pinochet, Batista, Somoza, a me pare una
garanzia di vittoria. Non nell’immediato, forse, quell’occasione sembra
sfumata, ma a largo plazo, nel lungo termine di sicuro.
Proseguiamo scorrendo lungo il lunghissimo muro di cinta e di filo
spinato che occulta “Palmerola”, la più grande base militare Usa in
Centroamerica. Quella che ha alimentato nei decenni l’oceano di sangue
e di miseria che ha sommerso i paesi dell’Istmo e i Caraibi. Da qui
tutte le amministrazioni Usa dell’ultimo mezzo secolo hanno fatto
partire le loro spedizioni punitive contro Guatemala, Salvador,
Nicaragua, Cuba, Haiti, Panama, Grenada… Da qui sono stati rigurgitati
il boia Micheletti e i gorilla in uniforme, marchiati sul mazzo da
stelle e strisce e stelle di Davide, come vitelli. Capito cosa devono
ai resistenti honduregni i popoli della regione? Per la festa, non c’è tornado che tenga
A Siguatepeque la Scuola di Trinidad Sanchez, 40 anni, un entusiasmo che gli vibra negli occhi, dirigente del Frente de Resistencia,
è ancora immersa nei pini. L’Istituto per la Commercializzazione
Comunitaria Alternativa è una delle centinaia di tessere che compongono
il Fronte della Resistenza al Colpo di Stato, assieme a partiti di
sinistra, organizzazioni sociali, organizzazioni indigene, associazioni
per la difesa dei diritti umani, Via Campesina, sindacati, comitati di
quartiere e di villaggio, insomma tutto quello che di sano e di
contrasto si muove in una società che ha iniziato a rifiutare
esclusione e discriminazione. Mentre le mamme, volontarie, preparano la
cena, i ragazzi dell’Istituto, perlopiù campesinos
provenienti da tutta l’area e in parte qui alloggiati, mettono in scena
uno spettacolino che racconta in termini satirici la vicenda golpista e
si conclude, ovviamente, con la fortissima invocazione dell’Assemblea
Nazionale Costituente. Trinidad ci spiega che la scuola fa parte della Red Comal,
rete di strutture che propongono e attuano un programma di
produzione-commercializzazione, sempre nel quadro di un rigoroso
biologismo, che prescinda dai momenti di speculazione e estrazione di
plusvalore e colleghi direttamente il produttore organizzato con il
consumatore organizzato. Un modello già realizzato in Venezuela con le
cooperative agricole e i celebrati Mercal, un’altra spina nel
fianco della élite compradora e del capitalismo selvaggio inflitto
dalle multinazionali e dagli organismi finanziari a questo paese. Ma
c’è di più, nel compound della scuola di Trinidad. In una
casetta defilata, oltre il limitare del bosco stanno nascosti e
protetti Melissa, giovane fuggiasca, e i suoi tre piccoli figli. Sono
latitanti da S. Pedro Sula, l’altra grande città in rivolta, lei
violentata dagli sbirri, il marito ucciso. Ne sentirete il racconto,
rappresentativo della parte di violenza alle donne di questa dittatura,
nel documentario che stiamo montando. La sera un gruppo del Salvador sul palco della plaza central
stracolma, dà vita a un concerto straripante di energia
latinoamericana, di fuoco rivoluzionario, canzoni di lotta della
guerriglia d’un tempo, melodie fiorite dalla lotta di oggi, come da noi
nel ’45, o nel ’68. I ragazzi del gruppo leggono documenti di
solidarietà dei contadini salvadoregni, poesie, gridano serie di slogan
che culminano sempre con l’urlo “ Asamblea Nacional Constituyente”.
C’è mezzo paese in piazza e gli si abbatte addosso sul finale uno di
quegli sgrulloni che nei tropici marcano i giorni della stagione delle
piogge, ma da noi passerebbero per cicloni. Se non respiri col naso e
apri la bocca rischi il waterboarding naturale, tanto è il
Niagara che viene giù. Ma non si sposta quasi nessuno. I ragazzi sul
palco, inzaccherati, continuano a suonare e, giù, la gente s’è messa le
sedie in testa e a far trenini per la piazza. Uno sghignazzo di sfida
alla pioggia e a chi la manda a fermare il canto della Resistenza. La
Esperanza è un grosso paese più a nord, a pochi passi dal Salvador, a
1.800 metri di altitudine. E’ la capitale degli indigeni Lenca e
dell’organizzazione COPINH, Consiglio dei popoli indigeni
dell’Honduras. Ci ospitano i suoi militanti, alcuni stranieri, anche
italiani che qui hanno incontrato il sollievo di una speranza e di un
impegno per darle corpo. Ci hanno dato una grossa mano, la loro
generosità nella lotta e verso chi viene a conoscerla è impagabile. Non
ne facciamo i nomi: finchè c’è Goriletti non è consigliabile. Il centro
di La Esperanza è uno sfolgorio di luci e colori, in abbacinante
contrasto con un tessuto umano di scarnificata povertà, quello che la
domenica mattina si sparge per il centro. Sono i contadini Lenca di
sfolgoranti tinte vestiti, quasi solo donne, anziane che fuggono
l’obiettivo demoniaco, giovani già maturate al sorriso. Sono scese dai
villaggi sui monti con la fantasmagoria colorata dei loro prodotti,
frutta, verdura, formaggi, povero artigianato. 7 bambini su 10, di
quelli appesi alle vaste gonne delle madri, muoiono di patologie banali
prima dei 5 anni. Le baracche di legno delle loro microbotteghe furono
tutte bruciate nel Natale del 2006. C’entravano i Caltagirone del
posto. Speculatori volevano costruirci un megacentro commerciale. Ma i
venditori occuparono la piazza, resistettero a minacce, compromessi a
perdere, cariche, ricostruirono le loro baracche. Progetto palazzinaro
sconfitto. La Resistenza di oggi ha radici segrete, lontane, nasce
anche dal risveglio di una popolazione antichissima che non ha mai
perso la memoria di sé e che, diversamente da quanto elucubrano alcuni
settori indigeni del Cono Sud, ha imparato che la salvezza sta nella
classe, non nell’etnia. Come ti frego i media del padroneE
a questa gente dalla coscienza in crescita, via dal folclore turistico,
che si rivolge Rolando, diciottenne conduttore della radio del COPINH,
una di quelle che da noi si dicevano “libere”, che tutte hanno subito
le vessazioni della dittatura, ma che hanno resistito e, ostinate, sono
tornate a trasmettere, anche dopo irruzioni e furto di attrezzature.
Con i compagni ricercati o arrestati, il ragazzo Rolando ha tenuto in
piedi da solo la radio per 45 giorni: notiziari di lotta, voci dal
territorio, informazioni dal mondo, appuntamenti e mobilitazioni, 24
ore su 24 al microfono, a coprire le poche ore di sonno con una musica
che prende il sangue e mi ricorda quella di Lotta Continua. Melissa,
del Copinh e della formazione femminista che fa parte del Frente, parla
delle esperienze fatte in alcuni giri in Europa. Non sono esaltanti.
Incontri eminentemente con attivisti già convinti, pochi contatti con
il pubblico generico, persone rimaste solo colpite dal racconto delle
condizioni di tremendo sfruttamento umano nelle maquilas, le
fabbriche dove operaie schiavizzate cuciono vestiario con tessuti
importanti dal Nord. Modello Benetton su scala terzomondiale. Ha
l’impressione che da noi il terreno non sia preparato, che si rimanga
appesi a quello che chiama “folclore politico”. Perché? Perché s’è
perso il concetto, la consapevolezza, la pratica
dell’internazionalismo, quella componente della coscienza di classe che
unifica condizioni e lotte, individua il nemico comune, sempre quello.
E’ l’assenza di un disegno strategico comune. Ci vedono sempre come
mondi diversi, distanti, chiude Melissa, mentre fa le valigie per un'altra spedizione in Slovenia e Italia. Que le vaya bien,
come dicono qui. E’ una vita che da queste pagine si strepita sul
burinismo localista e particolarista delle nostre sinistre “radicali”,
sulla perdita, davvero letale, della quadra internazionalista. Passando
con un taxi per le strade di La Esperanza impariamo un altro dettaglio
dell’oppressione di classe che si copre di razzismo, come insegna
Maroni: le vie della parte di città abitata dai creoli, dai bianchi, è
lastricata alla perfezione, asfaltata; poi c’è una cesura netta e
inizia la parte indigena: strade sterrate, marciapiedi frantumati,
polvere quando c’è il sole, paludi e fango quando piove, come ora.
Miseria, abbandono, sottosviluppo, sfruttamento che non hanno impedito
che da questo segmento di popolo nascesse il Copinh, una grande forze
sovversiva e di emancipazione, oggi la componente politicamente forse
più matura della grande coalizione contro il golpe e per il
rinnovamento di Stato, società, paese. Nessuno ha saputo informare
meglio nel dettaglio e nei significati profondi quello che qui è stato
vissuto a partire dal 28 giugno. Traditori di classe ed ecoassassiniMarco
ed io siamo ospiti della famiglia Zelaya, cugini del presidente e come
lui, più di lui, traditori della propria classe d’origine e impegnati
in prima persona nella Resistenza. Lorena è membro della direzione del Frente
ed è grazie a lei che siamo capitati sempre nel posto giusto al momento
giusto. La vedete in bianco, qui sotto, fronteggiare un battaglione di
sbirri. La mamma-nonna, Estella, ha 86 anni, è vispa e combattiva come
un gatto infuriato, ha una memoria da generale di battaglie
napoleoniche, sa tutto dello scontro in corso e s’incazza sui golpisti
in tv manco li avesse sotto le mani. Una donna da innamorarsene. Il suo
amico Fidel le disse: “ Mai ti vorrei avere come nemica !” Una sua foto con la mano sulla gamba del gigante cubano troneggia in salotto. Chissà cosa pensa del fideliano “ bene hanno fatto a dare il Nobel a Obama” che ha sbigottito la sinistra in tutte le Americhe… L’altra figlia, Sandra, ci fatto da autista e guida per mezzo Honduras. Un
giorno finiamo nel dipartimento di Olancho, tre ore a Ovest, verso il
Caribe, dove apre le sue voragini e avvelena ambiente e gente la GoldCorp,
multinazionale mineraria canadese che imperversa intossicando,
devastando e rubando, sulle vene d’oro di mezzo mondo. Dopo essere
sfilati lungo giganteschi depositi di legname, grossi tronchi
accatastati e strappati dai deforestatori yankee alla salute del
territorio, su una spianata ribollente di acque termali incontriamo
Martin Herazo, sopracciglia come tettoie, barbetta di capra, occhi
trapananti, una specie di Pan, presidente del Comitato Ambiente della
regione e combattente irriducibile contro i predatori dell’oro. Le
bolle incandescenti delle acque che servirebbero a sanare una
moltitudine di patologie, ci dice, sono tutte contaminate da cianuro,
arsenico, metalli pesanti utilizzati nell’estrazione e lavorazione
dell’oro. Le donne che, in basso, sciacquano i panni nel torrente, sono
costrette a farlo a dispetto dell’inquinamento. L’acqua non è potabile
da nessuna di queste parti, ma la bevono lo stesso. Altra non ce n’è.
E’ un ennesima neoplasia che l’economia di rapina del Nord coltiva sul
suolo e tra le vite dell’Honduras. Tutta l’area è contaminata, denuncia
Martin. Gli effetti dell’arsenico su una popolazione che ha un tasso di
mortalità superiore a qualunque altro territorio del Centroamerica sono
cancro a vescica, polmoni, pelle, reni, naso, fegato e prostata. Negli
animali aumenta la mortalità, produce sterilità, moltiplica gli aborti
spontanei e distrugge i globuli rossi. Nel 2008 il presidente Zelaya
eliminò la GoldCorp dallo “ Jantzi Social Index”, un elenco di società che godono di ampi privilegi fiscali e all’export. Spiega Martin:
Fu il frutto della forte opposizione indigena alle miniere in
Guatemala, che noi abbiamo ripreso, e la risposta all’incuria della
società nei confronti dei problemi sanitari delle comunità honduregne e
dei danni all’ambiente. Raggiungiamo l’ingresso della
miniera, irto di guardioni armati, dopo essere passati accanto a una
specie di ambiente desertificato: catene di colline circondate da filo
spinato formate dalla terra di riporto della miniera. Ci mettono sopra
dieci centimetri di terra e ci coltivano avocado, ovviamente tossici,
spiega Martin. All’avvicinarci ai guardioni dell’oro rubato per
Citybank e First Ladies deve nascondersi tra i sedili. E’ a
rischio l’incolumità e la libertà di chi si oppone ai magnati dell’oro.
Non pochi ci hanno rimesso la pelle per ogni parte dell’America Latina,
ma dai collier il sangue che cola non si vede. Sandra s’impegna in un
lungo negoziato con il capobastone all’ingresso. Dice che siamo
giornalisti che vorrebbero vedere la miniera per un reportage sullo
sviluppo dell’Honduras. Ci chiedono nomi, dati, patrocini, passaporti.
Telefonano di qua e di là. Alla fine, come è ovvio, non si passa. Il
crimine non va mostrato, neppure a reporter “benevoli”. E’ l’ora del
cambio turno. Tra i tanti che escono da questa fucina di patologie,
sentiamo una giovane donna, madre di due ragazzi. Il contratto? E’ mensile. E poi? Forse lo rinnovano per un altro mese. Quanto prendi? 8 dollari per dieci ore. Trasporti ? No, a piedi, il villaggio dista solo quattro chilometri.
Quattro all’alba e quattro alle due del pomeriggio. Ci manderesti a
lavorare i tuoi figli? Si volta verso l’ingresso, poi aggiunge
sottovoce: Mai!Golpe continuo
All’Hotel Clarion, non più assediato dai militanti del Frente
che ha optato per disseminare le mobilitazioni nelle città, nei
barrios, nei villaggi di tutto il paese, ormai in previsione di una
lotta di lunga durata, si trascina a vuoto un negoziato morto, che
avrebbe dovuto concludersi entro il 15 ottobre, che i carnefici del
paese avevano già fatto partire morto e che, probabilmente, non avrebbe
mai dovuto essere accettato senza che fossero prima ristabiliti la
legalità istituzionale e i diritti costituzionali. I bonari delegati
dell’OSA sono lontani, emettono qualche pigolìo dalla loro sede
all’ombra della Casa Bianca. Il silenzio della “comunità
internazionale” è assordante. L’informazione e la solidarietà di media
e forze politiche europee ai minimi termini. Non fosse per Chavez e i
suoi compagni sudamericani, che nel vertice dell’ALBA a Cochabamba,
Bolivia, hanno ribadito la rottura di ogni relazione e sanzioni ai
golpisti, l’Honduras sarebbe solo. Juan Barahona, leader della
Resistenza sul campo e membro della delegazione di Zelaya, ha sbattuto
la porta. I socialdemocratici del Partito dell'Unione Democratica si
sono già ritirati dalla farsa. Carlos Reyes ha scritto al Tribunale
Elettorale che, senza il ripristino delle condizioni ante 28 giugno,
avrebbe ritirato la candidatura a presidente e tutto il movimento
popolare ha deciso per il boicottaggio di elezioni che, sotto controllo
degli eversori fascisti e delle loro soldataglie, avrebbero fatto
impallidire valvassini e narcofantocci come Karzai in Afghanistan,
Thaci in Kosovo, Al Maliki in Iraq, Abu Mazen in Palestina. Lo scopo
delle fasulle trattative sull’accordo a perdere di Oscar Arias e di
Washington era appunto quello: guadagnare tempo per guadagnare
assuefazione internazionale e una nuova vernice di legittimità
attraverso “elezioni democratiche” che ponessero drasticamente fine
alla trasformazione del paese da repubblica delle banane in membro
della catena di Stati emancipati latinoamericani. Quel mondo che si
avvia a un totale rovesciamento dei rapporti di forza tra masse
subalterne in rivolta per la democrazia e la giustizia sociale e
l’infima minoranza di licantropi, il cui scheletro ha per spina dorsale
le dieci famiglie ispano-ebree, le sue articolazioni politico-militari
nelle forze armate, nell’Opus Dei, nei consulenti e operatori necrogeni
del Mossad e, per testa, i revanscisti del colonialismo di Washington e
Bruxelles. L’ultimo trucco escogitato era che il ritorno di Zelaya
avrebbe dovuto essere sancito dalla Corte Suprema di Giustizia,
quell’organismo infeudato ai buttafuori di Micheletti, tipo quelli che
da noi vanno a cena da Berlusconi, che già aveva sancito la
“legittimità del golpe”! Di fronte allo stallo imposto dal lumpendiktator
Micheletti a trattative per le quali si era impegnato di fronte all’OSA
al termine ultimo del 15 ottobre, l’organizzazione dei famigli di Obama
non ha saputo che esprimere voti che il negoziato riprenda “presto o
tardi”. Tali sono le pressioni delle “democrazie” perché si ponga fine
a questa sanguinaria pinochettata. Forse in un soprassalto di ipocrisia
torneranno a esigere il ripristino di Zelaya, forse la camarilla
accetterà in extremis, ma sarà comunque uno Zelaya guscio
vuoto quello che potrà tornare a sedersi sullo scranno più alto della
repubblica, l’assemblea nazionale se l’è giocata, affidata “alla forza
del popolo quando sarà il momento” e le elezioni manipolate dai
golpisti faranno finta che l’Honduras ucciso stia uscendo dalla sala di
rianimazione. La rianimazione vera la faranno queste masse che per
quattro mesi nessuna brutalità, nessun terrorismo di Stato, nessuna
lusinga ha saputo far retrocedere di un centimetro dall’obiettivo del
cambio radicale. Resistenza oggi e domani
Alla
Resistenza, forse presto votata alla clandestinità, non resta che
accingersi a una lunga guerra che contesti sistematicamente a tutti i
livelli la strategia reazionaria. Guerra che, volente o nolente, potrà
dover assumere tutte le forme e accettare tutti i sacrifici che nella
storia dei popoli sono state imposti dalla violenza dei tiranni e
dell’imperialismo. E non ci dovrà essere nessun santone della
liberazione dei popoli a dovergli dettare le forme che stanno bene a
lui. Gli honduregni sanno benissimo che in questa fase rappresentano,
con i palestinesi, gli iracheni, gli afghani, i fratelli
latinoamericani, l’avanguardia della lotta di liberazione dal nuovo
colonialismo e per l’autodeterminazione, la sovranità, il potere delle
classi emarginate. Hanno la consapevolezza, che manca a tanta parte
delle sinistre mondiali, italiane in testa, di essere il primo capitolo
di un libro che il recupero capitalista capeggiato da Obama sta
scrivendo e che dovrebbe vedere nel suo epilogo un’America latina
tornata carogna alla mercè degli avvoltoi liberisti. In Honduras,
aprendo anche qui le ostilità contro il Venezuela bolivariano, la
Bolivia di Morales, tutte le forze antagoniste del continente, gli
Stati Uniti intendono inviare un messaggio di intimidazione-estorsione
a chiunque nella famiglia umana pensi di sottrarsi al dominio e al
saccheggio dei genocidi capitalisti disperatamente, sanguinariamente
alla ricerca di un’uscita dal loro collasso. E’ una prova di forza
all’apice dell’agonia del sistema. In Honduras, in America Latina tutto
questo si sa, si prova sulla pelle. Da noi, no. Premio Nobel
In
Honduras, in America Latina si è sentito sbigottiti l’elogio del
comandante in capo, Fidel Castro, a coloro che hanno premiato col Nobel
per la pace il massimo strumento di guerra e di morte. “Operazione
positiva”, ha detto il costruttore di Cuba socialista e
antimperialista. Unico nel mondo della sinistra vera, dei popoli
aggrediti che con queste parole si sono visti presentare la figura di
un terrorista planetario, seppure di narcotizzante pelle nera, che
avanza marciando su stermini, distruzione, corruzione, narcobusiness e
che, da queste parti, ha ripreso a roteare la spada dei Nixon,
Kissinger, Reagan, Bush. La spada che dovrebbe falciare i campi della
vita riconquistata e difendere il solco dei nuovi Pinochet. Ma come,
riconoscimenti di pace a chi allestisce colpi di Stato, piazza sette
nuove basi nel narcostato vassallo Colombia per assaltare il resto del
Continente e garantirsi l’usufrutto della cocaina, istiga la Cia a
destabilizzare paesi usciti dall’orbita facendo leva su settori
reazionari e imbecilli della popolazione nativa (succede oggi in
Ecuador, Bolivia e Venezuela), puntando sulla complicità dell’acritica
e non sempre innocente mitizzazione degli indios, immancabilmente puri
e giusti, da parte di tante Ong? Massimo premio di pace al massimo
assassino di massa, a colui che, calpestando diritto internazionale e
autodeterminazione, costringe governi asserviti a lanciare armate
genocide contro la propria popolazione (Afghanistan, Pakistan),
complotta per destabilizzare un paese dopo l’altro, dall’Iran alla
Somalia, dalla Cina alla Russia, usando il bisturi dell’inganno, del
raggiro umanitario, del sostegno a circoli di rinnegati fatti passare
per vindici della democrazia. Il Premio di Nelson Mandela e Arafat dato
a uno che a casa sua sta spostando ulteriori ricchezze nelle tasche di
chi lo ha inventato e finanziato, a scapito di milioni di disoccupati e
di decine di milioni votati alla fame, rafforzando con il testé
proclamato “Stato d’emergenza” in tutto il paese il bushiano “Patriot
Act”, prodromo di Stato di polizia, per coltivare la gigatruffa della
pandemia H1N1 a fini dell’ illimitato potere finanziario e politico di
Big Pharma e di controllo fascistoide della popolazione. Arriveremo a
masse poste in quarantena, magari negli stadi. Si farà in modo che la
più innocua di tutte le influenze recenti diventi letale e, nel
frattempo, rafforzi il massimo strumento del potere morente: la paura. Forse
Fidel pensava ai Cinque eroi sequestrati da dieci anni negli Usa, o al
cinquantennale blocco di Cuba e che benemerenze come il plauso al
premiato nella scia di serialkiller come Peres, Begin, Kissinger, il
Dalai Lama, potessero favorire un atteggiamento benevolo della belva.
Ha calcolato giusto? E, soprattutto, si è posto a fianco di coloro che
da Obama subiscono il terrore fascista, le stragi dai droni in
Pakistan, le armi militari e politiche per la pulizia etnica
israeliana, lo squartamento di pezzi d’Africa, l’impoverimento e la
cancellazione del futuro a fronte della complicità con la criminalità
organizzata di Wall Street e del narcotraffico che, oggi, intende fare
dell’Ecuador l’ hub continentale per gli stupefacenti fatti
coltivare in Colombia e Perù? Ne è valsa la pena, Fidel? Forse no, come
non è valsa la pena biasimare le FARC colombiane e la loro lotta.
Quelle FARC cui altra scelta se non la resistenza armata è stata
concessa, dopo il massacro della loro opzione politico-parlamentare
anni fa, e alle quali tu hai chiesto di rilasciare senza condizioni i
propri prigionieri, dimentico delle centinaia di loro compagni
torturati nelle carceri del narcopresidente Uribe. Siamo stati nelle colonias appese sui colli più alti e spellati della capitale, le più torturate dalla fame e dalle intemperie, Villa Nueva, Los Pinos, Alto de Bella Oriente.
Nomi grotteschi, dati da chissà chi a coprire abissi urbani che celano
una fatiscenza sociale peggiore delle favelas d Rio. Da lì, da baracche
in cui su fornelli di pietra al centro di pavimenti in terra si cucina
per far reggere ai manifestanti le giornate di marcia, lotta e botte,
scendono i flutti più forti e più decisi della resistenza, al pari di
quelli che arrivano dalle università. Gruppi di poverissimi, tappi
galleggianti su giornate risolte con espedienti, ma che si sono uniti e
sono diventati militanti della resistenza e oppongono organizzazione e
coscienza sia alla delinquenza endemica nelle riserve indiane
dell’esclusione sociale, sia ai gorilla di Pinochetti. Gente che non ha
niente da perdere e che sa mettere in gioco i suoi sforacchiati
brandelli di vita. Donne giovani, lì nate, o lì sospinte da bambine
come detriti di risacca, ma che dei golpisti e delle ragioni della
lotta hanno capito tutto. Avanguardie della Resistenza sotto tetti di
plastica e tra pareti di tavole rimediate tra i rifiuti. Lorena Zelaya
Myrta
Kennedy, presidente del movimento femminista integrato nel Frente e sua
componente particolarmente combattiva, è stata, nella Casa della Mujer
a Tegucigalpa, la nostra ultima intervistata. Femministe che non
mettono al posto della lotta all’imperialismo e al dominio di classe,
oscurandoli, il tema GBLQT, o la guerra di genere, ma li vedono come
inscindibili articolazioni di uno scontro globale tra dominatori e
dominati, tra chi aggredisce e chi si difende. Di Myrta riportiamo un appello che ci ha pregato di riportare in Italia:
Alle organizzazioni delle donne in tutto il mondo chiediamo un appoggio
deciso perché il nostro popolo possa riconquistare il suo diritto a
vivere in pace, libertà e giustizia. Incrinerà questo grido, anche
a nome delle tante donne uccise, ferite, carcerate, violate
nell’Honduras del joker statunitense, la lastra di ghiaccio del nostro
silenzio? Delle donne e di tutti?
(Tutto il resto nel documentario che uscirà fra un mese).
Annalisa Melandri http://boicottaisraele.wordpress.com La rivoluzione è un fiore che non
muore La revolución es una flor que no muere |