La questione indigena in Perú
La questione indigena in Perú – una vecchia storia Il
giornalista peruviano Ismael León Arías, in un articolo scritto proprio
nei primi giorni di giugno, durante la dura repressione contro le
legittime proteste del movimento indigeno che ha causato in Perù circa
50 morti fra nativi (ma che secondo alcune fonti, come vedremo,
sarebbero molti di più) ed effettivi di polizia, ricorda ai suoi
lettori un episodio avvenuto agli inizi degli anni ‘20 nel suo paese.
Accadde nella zona de La Chorrera, nel Caquetà, allora territorio peruviano oggi appartenente alla Colombia. Julio
César Arana, proprietario della Peruvian Amazon Comp. Limited, che si
occupava della lavorazione del caucciù, dette ordine ai suoi uomini di
far prigionieri venti indigeni che lavoravano nella sua impresa, di
chiuderli dentro sacchi di iuta e di bruciarli vivi, come monito e
avvertimento per tutti gli altri loro compagni che stavano protestando
per le misere e indegne condizioni di vita e di lavoro.
Allora
era presidente del paese Augusto Leguía, il quale, appoggiando la
campagna per l’elezione a senatore della Repubblica di Julio César
Arana, dichiarò alla stampa: “la foresta amazzonica è molto importante
ma ha bisogno di essere civilizzata a qualsiasi costo e questo è quello
che farò durante il mio governo”.
Suona familiare? Si chiede Ismael León Arías.
Il
giornalista ricorda che in Perù, da quando il paese è una Repubblica,
“nessuno ha mai fatto un censimento degli indigeni assassinati
nell’Amazzonia”. “Si calcola soltanto - scrive - che siano stati decine
di migliaia. Ieri uccisi per il caucciù e il legno, oggi per il
petrolio, per l’industria estrattiva, ancora per il legno e per il
narcotraffico. Chi oggi li accusa di essere selvaggi, ieri si
sbracciava per esaltare il loro coraggio nella difesa del Perú durante
la guerra con l’Ecuador. E tutti nel 2005 si riempivano la bocca
chiedendogli il voto e offrendogli il paradiso in Terra”.
E’,
infatti, una storia vecchia quella della repressione o della
manipolazione, a seconda delle convenienze, degli indigeni peruviani.
E’
la storia della lotta che essi portano avanti per la rivendicazione del
diritto sulle loro terre e che nasce innanzitutto dal conflitto in
essere fra due visioni completamente differenti tra loro, e quindi
inconciliabili, del concetto di proprietà: “per la società occidentale
– si legge sul sito dell’AIDESEP, l’associazione che comprende le oltre
65 nazionalità indigene presenti nel paese, - la terra è di qualcuno
quando ha un titolo di proprietà inscritto nei Pubblici Registri. Per
gli indigeni il proprietario è la “madre della terra”. Per il mercato
(la terra) ha importanza economica ed è negoziabile. Per noi indigeni
ha importanza spirituale ed è sacra”.
Come si concilia tutto
ciò con le politiche neoliberiste di svendita alle imprese private
nazionali e straniere delle immense risorse di cui questa terra è così
ricca?
“L’Amazzonia va civilizzata ad ogni costo” disse il
presidente Leguía negli anni 20, durante la sua “dittatura
progressista” in cui “una valanga di investimenti e prestiti
nordamericani accelerava il processo di espansione dell’economia e
delle opere pubbliche, fino a raggiungere un ritmo frenetico”.
Tuttavia
nella Costituzione che egli promulgò nel 1920 venne dato riconoscimento
giuridico alle comunità indigene e lo Stato si impegnò formalmente alla
loro protezione. Ma non si trattava allora, come non lo è adesso,
di una questione di razzismo: gli enormi interessi in gioco erano e
sono ancora quelli che determinano l’agire del Potere.
Paradossalmente
il governo di Leguía dovette scontrarsi anche su questi temi con
l’allora nascente movimento fondato da Víctor Raúl Haya de la Torre,
l’APRA (Alianza Popular Revolucionaria Americana), lo stesso partito di
Alan García, (di cui lui rappresenta l’unico candidato politico che ha
ottenuto la presidenza). L’ APRA, tuttavia, resta la grande delusione
di ogni peruviano di sinistra, in quanto da tempo ormai ha perso le
caratteristiche peculiari che lo fecero uno dei più importanti
movimenti progressisti latinoamericani: l’anti imperialismo, la lotta
per l’unità della regione, la nazionalizzazione delle risorse del
paese, la riforma agraria.
Alan García e la sindrome del cane dell’ortolano. Dove inizia questa storia. La
storia, almeno quella delle proteste più recenti, ha inizio con la
firma del Trattato di Libero Commercio stipulato con gli Stati Uniti.
Nonostante le mobilitazioni della società civile in quanto approvato
senza nessuna consultazione popolare, contrariamente a quanto avvenuto
per esempio recentemente in Costa Rica, fu sottoscritto l’8 dicembre
del 2005 a Washington e negli anni immediatamente successivi (2006 e
2007) venne poi ratificato dai due paesi.
Ha inizio così la
svendita da parte del governo di Alan García delle risorse naturali del
suo paese, sfociata in questi giorni nella maggior crisi di governo del
Perú da anni a questa parte. Crisi che ha determinato, proprio mentre
si rincorrevano le notizie della sanguinosa repressione del movimento
indigeno peruviano alla Curva del Diablo, un drastico calo della
popolarità del presidente, ormai ai minimi storici dall’inizio del suo
mandato, raggiungendo dati significativi nelle zone meno urbanizzate
del paese.
Scrive il presidente in un suo lungo articolo pubblicato sul quotidiano El Comercio il 28 ottobre del 2007: “ci
sono milioni di ettari da destinare allo sfruttamento del legno che non
sono utilizzati, altrettanti milioni di ettari che le comunità e le
loro associazioni non hanno coltivato né coltiveranno mai... ma la
demagogia e le menzogne dicono che queste terre sono oggetti sacri e
che questa organizzazione comunitaria è quella originaria del Perú...
questo avviene in tutto il paese, terre incolte perchè il proprietario
non ha formazione né risorse economiche e pertanto la sua è una
proprietà apparente. Questa stessa terra venduta in grandi lotti
porterebbe tecnologia della quale beneficerebbe anche l’indigeno delle
comunità”.
Probabilmente l’aggressione di García alle
comunità indigene e all’Amazzonia comincia formalmente da qui. In
questo suo manifesto del neoliberalismo in salsa peruviana dal titolo “El sindrome del Perro del Ortolano”
(parafrasando il titolo di una commedia di Lope de Vega) che, come dice
l’antico detto “non mangia ma nemmeno lascia mangiare gli altri”,
riferendosi al fatto che il cane dell’ortolano non mangia (perchè non
gradisce le verdure) ma nemmeno lascia mangiare gli altri.
I cani in questo senso sarebbero gli indigeni, secondo il presidente Alan García che infatti scrive: “ci
sono molte risorse che non sono cedibili, che non ricevono investimenti
e che non generano lavoro. E tutto ciò per il tabù di ideologie
superate, per pigrizia, per indolenza e per la legge del cane
dell’ortolano che dice: se non lo faccio io che non lo faccia nessuno.
La prima di queste risorse è l’Amazzonia. Ha 63 milioni di ettari e
pioggia abbondante. Si potrebbe coltivare per la produzione del
legname, specialmente negli 8 milioni di ettari incolti, ma per fare
questo c’è bisogno della proprietà, cioè un terreno sicuro di almeno
5mila, 10mila o 20mila ettari, perchè in quantità minore non c’è
investimento formale a lungo termine e di alta tecnologia”.
I
signori sono serviti. Gli indigeni e le loro belle parole sulla Madre
Terra e la proprietà comunitaria. Decenni di lotte e di conquiste. Gli
indigeni come cani, gli indigeni inetti, oziosi e incapaci. E
soprattutto poveri. Perchè continua il presidente García : “abbiamo
commesso l’errore di dare piccoli appezzamenti di terra a famiglie
povere che non hanno nemmeno un centesimo da investire e quindi a parte
la Terra dovrebbero chiedere allo Stato fertilizzanti, semi, tecnologia
e prezzi protetti”.
E propone quindi la sua ricetta: creare
grandi latifondi dove le imprese possano investire enormi quantità di
denaro e offrire migliaia di posti di lavoro. Con grandi, enormi,
guadagni soltanto per pochi. Se è vero che il cane dell’ortolano non
mangia e non vuol far mangiare gli altri, il cane di García è invece un
ingordo e divora tutto quanto...
Elucubrazioni presidenziali a
parte, l’Esecutivo aveva bisogno a questo punto di poter disporre di
maggior libertà per legiferare su alcuni temi specifici in modo da
favorire e semplificare l’applicazione del Trattato di Libero
Commercio.
La legge 29157 e i 99 decreti (la Ley de la Selva) Nel
dicembre 2007 fu così presentata la legge 29157 che sarebbe entrata in
vigore il 1 gennaio 2008 e che per un periodo di sei mesi (01.01.08 -
01.06.08) autorizzava il governo ad emettere Decreti Legislativi su
materie relative al TLC. Venne così redatto un pacchetto di 99 Decreti,
definiti generalmente “Ley de la Selva”, Legge della Foresta (dal n.
994 al n. 1092), proposti per semplificare la realizzazione del TLC e
per (si legge nel testo) “fornire un miglior campo giuridico per
sviluppare la competitività del paese”.
In realtà, come fa
notare Luis Vittor della CAOI (Coordinadora Andina de Organizaciones
Indígenas ) i “Decreti Legislativi del governo aprista di Alan García
costituiscono un nuovo pacchetto di riforme per garantire non solo
l’applicazione del TLC ma anche fondamentalmente per consolidare il
modello liberale ed eliminare l’opposizione sociale che ostacola la
libera circolazione del capitale privato. I Decreti Legislativi segnano
una nuova pietra miliare, comparabile soltanto con le riforme
realizzate dal governo Fujimori all’inizio degli anni ’90 su
raccomandazione del Fondo Monetario Internazionale e della Banca
Mondiale”.
Tutti i Decreti Legislativi, sono fin dal principio
accusati di essere incostituzionali dalla Defensoría del Pueblo e dalla
Commissione della Costituzione del Congresso, nonché dall’AIDESEP in
quanto la Costituzione del Perú emessa nel 1993 protegge
particolarmente i territori dell’Amazzonia e soprattutto nei suoi
articoli 66, 101 e 104 stabilisce che “le risorse naturali, rinnovabili
e non rinnovabili sono patrimonio della Nazione” e che qualsiasi
disposizione che riguardi il loro sfruttamento debba avvenire tramite
una nuova Legge e non tramite Decreti Legislativi.
Inoltre i
Decreti violano apertamente la Convenzione 169 dell’OIT (Organizzazione
Internazionale del Lavoro) del 1969, ratificata dal Perú, che
stabilisce che sia osservato “il rispetto delle culture, delle forme di
vita e delle tradizioni dei popoli indigeni” e che gli Stati devono
“consultare i popoli interessati tramite procedimenti appropriati e in
particolare tramite le loro istituzioni rappresentative, ogni volta che
si prevedono misure legislative o amministrative che possano
riguardarli direttamente “.
I Decreti Legislativi più
controversi sono: il 994, 1015, 1020, 1064, 1073, 1080, 1081, 1083,
1089 y 1090 e la legge 9933 sulle Risorse Idriche
Il DL 994
promuove gli investimenti privati in progetti di irrigazione di terre
incolte. Considera inoltre proprietà dello stato le terre incolte e
quelle potenzialmente agricole non sfruttate per eccesso o per mancanza
di acqua, a meno che non siano iscritte nei Registri Pubblici.
Ricordiamo che l’iscrizione nei Pubblici Registri delle proprietà
soprattutto in Amazzonia (dove più di 100 comunità contadine non
possiedono titolo di proprietà) è una pratica prevista dalla legge ma
spesso non applicata e quindi i registri vengono considerati da alcuni
enti e organizzazioni praticamente inaffidabili. Il presidente
della regione San Martín, César Villanueva, per esempio ha dichiarato
che “ in alcune zone non si sa nemmeno con esattezza quali siano le
terre di proprietà dello stato, o quelle che per usufrutto sono di
proprietà delle persone che le abitano”. “Inoltre - ha aggiunto, sono
territori occupati da persone che vivono lì da moltissimo tempo, senza
nessun documento regolarmente inscritto negli uffici catastali e che
quindi appaiono disabitate mentre così non è in realtà. Tutte le altre
terre che invece sarebbero libere in realtà sono, secondo la
Costituzione peruviana, patrimonio forestale dello Stato e quindi non
in vendita”.
Il DL 1015 unisce
invece i procedimenti delle comunità contadine e indigene della sierra
e della selva con quelle della costa e dispone che per vendere le terre
comunitarie sarà necessario il voto a favore di almeno il 50% dei
membri dell’assemblea (indipendentemente dal numero dei membri della
comunità), mentre prima dovevano essere almeno i 2/3 (66%) dei membri
della comunità. Questo Decreto in pratica favorisce la parcellizzazione
e la privatizzazione delle terre comunitarie.
Il DL 1020
promuove il credito agrario per quei soggetti che dispongano di
maggiori risorse economiche e possano dare maggior garanzia di
solvibilità. Crea inoltre delle figure giuridiche e legali che,
diversamente dagli Enti Associativi Agrari che operano attualmente in
questa materia, non darebbero garanzie sufficienti di tutela dei
diritti delle comunità.
Il DL 1064, di fatto
regola direttamente le attività delle comunità indigene sulle loro
terre, (come per esempio le attività estrattive che attualmente vengono
concordate con le stesse comunità).
La parlamentare del
Congresso, Marisol Espinoza ha affermato che con l’ attuazione di
questo Decreto si “violerebbe il diritto dei popoli indigeni a
partecipare alle decisioni che riguardano le loro terre. In questo caso
il modello di sviluppo viene imposto da Lima da coloro i quali decidono
dove fare le concessioni contro la facoltà delle popolazioni di
decidere dove sviluppare l’agricoltura e dove sviluppare invece le
attività estrattive”.
Il DL 1081 crea il
sistema nazionale di risorse idriche e in modo ambiguo apre una
possibilità rispetto alla gestione privata dell’acqua contro il diritto
delle comunità di gestire autonomamente le risorse presenti nel loro
territorio,
Il DL 1083 promuove lo
sfruttamento “efficiente” e la conservazione delle risorse idriche
mediante l’istituzione di un “certificato di efficienza” che andrebbe a
privilegiare gli utenti che disponendo di maggiori risorse economiche
potranno beneficiare quindi anche di maggiori approvvigionamenti idrici
come stabilisce il decreto.
Il DL 1089 è
sotto accusa in quanto stabilisce che il COFOPRI (l’ente già incaricato
per l’assegnazione delle proprietà urbane) per un periodo di quattro
anni sarà l’ente incaricato della formalizzazione delle proprietà
rurale, privilegiando criteri esclusivamente economici invece che
criteri agricoli come faceva il Ministero dell’Agricoltura,
precedentemente disposto a questo incarico. Fanno notare numerosi
analisti che si andrebbe verso un concetto individuale della proprietà,
invece di proteggere il concetto di proprietà comunitaria come
espressamente previsto dalla Costituzione del Perú.
Il DL 1090
approva invece la Legge Forestale e della Fauna Silvestre che riduce
drasticamente il patrimonio forestale del paese, protetto come abbiamo
detto dalla Costituzione, lasciando fuori da questa definizione ( e
quindi mettendolo a rischio) circa 45 milioni di ettari di terra, cioè
il 60% delle foreste del Perú. L’articolo 6 di questo Decreto
inoltre, permette che quando siano in gioco progetti di interesse
nazionale, possa applicarsi il cambio di destinazione d’uso delle
terre, passando da patrimonio forestale a terre destinabili a
“concessioni per iniziativa privata”.
Inoltre i DL 1059,1060 e 1080
(sulle sementi) invece sono sotto accusa perché, secondo alcuni
specialisti, aprirebbero le porte all’ingresso, senza nessun tipo di
controllo né regolamentazione delle specie transgeniche a discapito
delle coltivazioni specifiche e peculiari del paese.
Tuttavia
altri decreti sono stati messi sotto accusa da sindacati e associazioni
di lavoratori, in quanto non rappresentano soltanto il mezzo per
sviluppare nuovi investimenti nel settore agrario e forestale, ma anche
il tentativo di consolidare e potenziare un modello di sviluppo, quello
neoliberale, che affetta anche altri settori produttivi dell’economia
peruviana, e che non è per niente innovativo ma che anzi è considerato
da molti analisti ed economisti alla base della attuale crisi economica
globale.
Così è stato contestato per esempio il DL 1022
che modifica la Legge del Sistema Portuale Nazionale e che aprirebbe la
concessione dei porti peruviani ai capitali cileni. Molti lavoratori
hanno realizzato campagne in cui sono state lavate le bandiere
peruviane per protestare contro questo Decreto Legislativo. Si tratta
di forme di nazionalismo che in Perú è sempre molto sentito soprattutto
nelle questioni che riguardano i controversi rapporti con il confinante
Cile. E il DL 1031, che secondo l’Associazione di
produttori di latte del Perú, favorirebbe gli interessi del Gruppo
Gloria, che controlla circa l’80% del mercato del latte nel paese e
pregiudicherebbe gli interessi delle piccole e medie imprese,
permettendo tra l’altro l’uso di latte in polvere e sostituti vari per
la produzione del latte fresco.
Tuttavia, i DL 1015 e 1073,
sono stati abrogati il 20 agosto del 2008 dopo le numerose proteste
delle comunità indigene, guidate dal leader dell’AIDESEP Alberto
Pizango, che sono culminate con l’occupazione di due impianti
petroliferi del paese e con il sequestro di due ufficiali di polizia.
Alan García ha tentato di opporsi a questo procedimento di abrogazione
ma, la causa è stata vinta dal Congresso che pertanto ha confermato la
sua decisione.
“La foresta è di tutti” è stato pertanto il
principio guida di Alan García. Intendendo ovviamente dal suo punto di
vista che tutti (coloro che dispongono di maggiori risorse economiche)
possono sfruttarla come meglio credono, derogando dai principi
costituzionali e dalle convenzioni internazionali.
Praticamente
tutto verte, come abbiamo visto, intorno al concetto di proprietà. In
Perù esiste già una legge, la n. 28.852 che prevede che le terre
dell’Amazzonia possano essere sfruttate in regime di concessione per
lotti che non eccedano i diecimila ettari. Tuttavia il governo intende
sostituire la concessione con la proprietà, la parolina magica per la
quale si è scontrato fortemente con le comunità indigene presenti sul
territorio, che abbiamo visto si tramandano un concetto completamente
diverso di proprietà.
Scoppia la protesta – Incalzano gli eventi ma gli indigeni non sono soli. La
protesta delle comunità indigene, inizia formalmente il 9 aprile scorso
nella zona di Bagua Grande, nella parte settentrionale del paese, a
circa 1000 Km a nord di Lima, con la richiesta al governo da parte
delle comunità indigene dell’abrogazione degli altri decreti rimasti in
vigore.
Tra i partiti politici che hanno appoggiato le
proteste indigene e che hanno chiesto la revisione del Decreti Legge
sono stati il partito Perú Posible (PP) dell’ex presidente Alejandro
Toledo, il partito Nazionalista (PNP) dell’ex candidato Ollanta Humala
sconfitto al ballottaggio da Alan García e il Partito Popolare
Cristiano (PPC) di destra, di Lourdes Flores, altra ex candidata
presidenziale delle scorse elezioni.
Alcune commissioni ed
enti locali del paese, nonché i governi regionali delle aree
interessate hanno espresso inoltre preoccupazione rispetto agli
investimenti che potrebbero impiantarsi e ai danni che questi
potrebbero arrecare nelle zone interessate: sviluppo di nuove
coltivazioni non autoctone e quindi potenzialmente pericolose per il
delicato equilibrio dell’ecosistema della foresta, inquinamento,
scomparsa delle comunità indigene e quindi anche del patrimonio
culturale e umano, e via dicendo.
Il
governo in questo frangente si è caratterizzato per un’attitudine
irresponsabile ed evasiva. Di fronte alle richieste di revisione
presentate dall’ AIDESEP (Asociación Interétnica de Desarrollo de la
Selva Peruana) , ma anche dalla Defensoría del Pueblo e dalla
Commissione della Costituzione al Tribunale Costituzionale, il
Congresso e l’Esecutivo non hanno fatto altro che scaricarsi
reciprocamente responsabilità e competenze.
In questo clima di
incertezza, ma anche di rabbia crescente, a Puno, sul lago Titicaca,
gli ultimi giorni di maggio (29/30e 31) si è tenuto il IV vertice
internazionale dei Popoli Indigeni.
Riprendendo la conclusione
del vertice dell’anno precedente, si è confermato in questa sede ancora
una volta il concetto fondamentale per le comunità indigene di tutta
l’America latina secondo le quali “il territorio è tutto, non è
soltanto un’area geografica. E’ lo spazio della sua cultura e identità.
E’ lo spazio dove si sviluppa la sua tecnologia, dove si svolge
l’utilizzo equilibrato delle sue ricchezze naturali, la sua arte, la
sua forma di essere e di pensare, la sua cosmovisione, la sua stessa
vita”.
Evo
Morales, il presidente indigeno della Bolivia, nella sua lettera
inviata agli oltre 6000 delegati indigeni di tutta la regione presenti
sulle sponde del lago Titicaca, ha parlato di “conquista democratica
del potere per riuscire a garantire i nostri diritti e i diritti della
Madre Terra”. E quasi presagendo quello che sarebbe successo di lì a
poco ha scritto: “è il momento che tutti sappiano che la nostra lotta
non finisce qui, che dalla resistenza passiva siamo passati alla
ribellione e dalla ribellione alla rivoluzione”. Il vertice dei
Popoli Indigeni, nella sua relazione finale approva e sostiene “la
lotta dei popoli indigeni dell’Amazzonia del Perú contro le norme che
privatizzano i suoi territori e i suoi beni naturali” E conclude: “la
loro lotta è anche la nostra”. Gli indigeni dell’Amazzonia
peruviana non sono più soli, anche se è bastata questa lettera e questa
testimonianza di solidarietà per far parlare il presidente peruviano di
“complotto internazionale” organizzato contro il suo paese dalla
Bolivia e dal Venezuela.
La violenta repressione e la mattanza
di indigeni è scoppiata dopo 55 giorni di protesta pacifica,
all’altezza della curva del Diablo, dove, nella zona di Bagua Grande,
era stata bloccata alla circolazione una strada principale. Erano
in corso in quel momento le trattative tra i rappresentanti delle
comunità indigene e l’Esecutivo. Alan García e il Ministro degli
Interni, Mercedes Cabanillas senza aspettare l’esito delle mediazioni
hanno dato improvviso ordine di attaccare per “ristabilire l’ordine” e
per ripristinare la circolazione nella zona. All’alba del 6
giugno, corpi speciali di polizia e dell’esercito in assetto da guerra,
hanno circondato la strada bloccata e con elicotteri dall’alto hanno
iniziato a lanciare lacrimogeni sulla folla e a sparare. Alcune
persone che transitavano in zona o che semplicemente si trovavano a
guardare quello che accadeva, sono morti sotto i colpi delle armi da
fuoco sparati sulla folla, come avvenuto allo studente Ticlia Sanchez,
che si trovava a transitare a bordo del suo mototaxi o come nel caso di
un uomo che a Plaza de Armas è stato raggiunto da colpi di fucile al
torace e alla testa. Notizia confermata anche dalla radio locale La Voz
che ha denunciato che a Plaza de Armas sarebberro morti altri due
giovani e quattro bambini sarebbero rimasti feriti da colpi di fucili
sparati dagli elicotteri della polizia.
A questo punto è esplosa la reazione
violenta dei dimostranti e di tutta la popolazione che ha sequestrato
alcuni membri di polizia restituendo i loro cadaveri più tardi e ha
saccheggiato gli uffici delle istituzioni pubbliche presenti nella
zona.
Centinaia di feriti si sono riversati nell’unico
ospedale della città che era ovviamente impreparato ad accoglierli e
curarli tutti. Ore dopo, l’esercito ha fatto irruzione nei locali
dell’ospedale arrestando e portando via tutte le persone ferite.
E’stato
interdetto nella zona l’accesso ai mezzi di comunicazione sia nazionali
che internazionali per cui le uniche notizie erano quelle che
provenivano da fonti governative. E’ stata inoltre oscurata l’emittente
La Voz, l’unica che trasmetteva in tempo reale le notizie, con l’accusa
di incitare alla rivolta la gente. Carlos Flores, corrispondente di CNR
(Coordinadora Nacional de Radio) da Radio La Voz ha dichiarato che si è
trattato di una “tattica del governo per cercare capri espiatori per
snaturare il massacro contro i nostri fratelli nativi e per evitare le
responsabilità della morte dei nostri fratelli poliziotti caduti
durante questa azione”.
Molte istituzioni ed enti nazionali e
internazionali, anche per la difesa dei diritti umani hanno parlato di
genocidio e di massacro chiedendo che venga ritenuto responsabile Alan
García e il suo governo. La CAOI, organizzazione che rappresenta
gli indigeni di diversi paesi, come la Bolivia, il Perú, l’Ecuador, il
Cile, la Colombia e l’Argentina, ha parlato di “risposta dittatoriale
dopo 56 giorni di lotta pacifica indigena e di presunti dialoghi e
negoziazioni, che sono terminati con gli spari di sempre, gli stessi da
oltre 500 anni di oppressione”.
Sono
stati emessi ordini di cattura contro i principali leader del movimento
indigeno tra cui Alberto Pizango presidente dell’AISEDEP che l’8
giugno, dopo tre giorni di latitanza, è stato costretto a cercare asilo
politico presso l’ambasciata del Nicaragua a Lima. Di fronte alle
crescenti proteste della comunità internazionale, turbata anche
dalle immagini (video e fotografie) che hanno iniziato a circolare
prima in internet e poi anche sulla stampa straniera e che dimostravano
la violenza della repressione contro le comunità, il governo ha tentato
di denunciare un presunto complotto internazionale guidato dal
Venezuela e dalla Bolivia e un tentativo di destabilizzazione interno
messo in atto dal Partito Nazionalista di Ollanta Humala. Il
presidente del Consiglio dei Ministri, Yehude Simon, pur essendo un
uomo di sinistra, fondatore del Movimento Patria Libre, arrestato nel
1992 con l’accusa di terrorismo e condannato a 20 anni di carcere, dove
è rimasto 8 anni e mezzo, ha appoggiato senza indugi in questo
frangente la politica governativa, affermando anche in un’ intervista
televisiva che le proteste erano manipolate dal governo dell’Ecuador
per limitare la capacità petrolifera del Perú e quindi per evitare la
concorrenza con il vicino paese andino. Dimostrando pertanto di non
conoscere la realtà dell’Ecuador, dove pur avendo un governo senz’altro
più sensibile alle loro richieste, gli indigeni sono molto critici con
le politiche intraprese da Rafael Correa. Yehude Simon “è caduto alla
Curva del Diablo” si è detto in questi giorni in Perú volendo indicare
la perdita definitiva della fiducia tra i peruviani di sinistra che
avevano inizialmente sperato in lui come uomo nuovo del governo García.
Il Parlamento peruviano finalmente ritira i Decreti Legislativi. Si può parlare di “vittoria storica”? Il
19 giugno il Parlamento peruviano con 82 voti favorevoli e 12 contrari
ha ritirato due dei 12 Decreti contestati dal movimento indigeno. Si
tratta del n. 1090 e del 1064, sicuramente quelli più importanti e che
mettevano più a rischio le terre dell’Amazzonia. Le organizzazioni
indigene hanno parlato di “vittoria storica” e la notizia, accompagnata
da analisi frettolose e incomplete così è rimbalzata su tutti i media
internazionali.
Innanzitutto restano in vigore gli
altri decreti, quali per esempio quelli che aprono alla privatizzazione
delle risorse idriche, di cui l’Amazzonia è ricca e sulle quali le
comunità indigene reclamano la gestione. Restano anche in vigore i
decreti contestati da altri settori della società peruviana, come per
esempio quelli contestati dai lavoratori portuali. Anche gli addetti
del settore minerario erano scesi in sciopero alcune settimane fa. La
revoca dei due decreti principali inoltre non ha assolutamente messo in
discussione il Trattato di Libero Commercio con gli Stati Uniti che può
essere sempre applicato aggirando con altri cavilli legislativi gli
ostacoli che i Decreti Legislativi pretendevano semplificare.
Tutto lascia pensare pertanto, che tra sei mesi il Perú possa trovarsi di fronte ad una nuova crisi. Restano
tuttavia molti altri punti in sospeso. L’AIDESEP aveva posto come una
delle condizioni principali per la ripresa del dialogo il ritiro delle
accuse al leader Alberto Pizango che è riuscito ad ottenere il
salvacondotto per il Niocaragua e adesso sta beneficiando in quel paese
dell'asilo politico. Resta quindi ancora in sospeso la sua situazione
giudiziaria, così come è ancora indefinita quella di altri 20 leader
indigeni che si trovano attualmente reclusi nel carcere di massima
sicurezza di Huancas e dei quali non sono note le condizioni di
salute, né se è stato messo loro a disposizione un legale.
Vi sarebbero inoltre circa un
centinaio di persone denunciate per crimini gravissimi quali terrorismo
o apologia di terrorismo solo per aver offerto aiuto o assistenza
legale agli indigeni in difficoltà. Va inoltre fatta chiarezza
quanto prima possibile rispetto alla reale situazione dei morti e delle
persone scomparse. Si calcola che alla Curva del Diablo fino al 6
giugno fossero presenti circa 4mila indigeni. Risulta da fonti locali
che hanno fatto ritorno nelle loro case circa 2200 persone. Dove sono
tutti gli altri?
Alcuni testimoni parlano di centinaia
di cadaveri messi in sacchi neri e gettati nei fiumi Marañon o
Utcubamba, di fosse comuni presenti intorno alla Curva del Diablo o
intorno al Corral Quemado che però si trovano in zone molto controllate
e quindi impossibili da raggiungere.
Il coprifuoco e lo stato d’emergenza
non sono stati ancora revocati e la zona è fortemente militarizzata con
pesanti limitazioni di movimento della popolazione locale.
Si può parlare di vittoria storica?
Annalisa Melandri http://boicottaisraele.wordpress.com La rivoluzione è un fiore che non muore La revolución es una flor que no muere |