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Sent: Tuesday, April 18, 2006 6:25 AM
Subject: Un po' di giustizia per l'Honduras
da "il manifesto" del 15 Aprile 2006
TERRA TERRA Un po' di giustizia per l'Honduras
LUCA MARTINELLI Le spiagge
dell'Honduras fanno gola a molti (vedi Terraterra
del 23 aprile 2005), e Alfredo Lopez ha pagato cara, sulla propria pelle, la
lotta per la difesa della Costa atlantica del Paese dagli interessi
speculativi del capitale nazionale e internazionale. Quasi sette anni di
carcere, tra il 27 aprile del 1997 e l'ottobre del 2003. Un incarceramento
preventivo: Alfredo non è mai stato condannato (anzi: l'accusa di detenzione
e traffico di sostanze stupefacenti a suo carico, montata ad hoc, era
decaduta già un anno dopo il suo ingresso in prigione). Un incarceramento
arbitrario e illegale, secondo quanto stabilito finalmente dalla Corte
interamericana per i diritti umani(Cidh), che il primo marzo del 2006 ha
condannato lo Stato di Honduras per il trattamento ricevuto da Alfredo
mentre questi era in carcere. Alfredo Lopez è un leader garifuna nella
comunità di Triunfo de la Cruz - i garifuna, negri di Honduras, sono
centocinquantamila, il 2% della popolazione nazionale secondo le statistiche
ufficiali; cinque o seicentomila, compresi quelli che vivono all'estero,
principalmente negli Stati Uniti d'America, secondo i dirigenti di Ofraneh,
l'Organización fraternal de los negros de Honduras che lavora dagli anni
settanta in una trentina di comunità, dislocate lungo tutta la Costa
atlantica del Paese. Fu incarcerato perché era il promotore delle proteste
contro il progetto Marbella, un complesso residenziale da costruirsi lungo
una striscia di sabbia di tre km, dal villaggio fino alla riserva naturale
di Punta Izopo. Di Marbella si iniziò a parlare nel 1992: ville con
giardino in riva al mare, piscine e belle mura in cemento armato. Per
aggirare la legislazione nazionale, che protegge l'inalienabilità delle
terre comunitarie, difese dalla Costituzione (oltre che dalla Convezione n.
169 dell'Organizzazione internazionale del lavoro, ratificata
dall'Honduras), il Governo municipale di Tela deliberò che il territorio di
Triunfo de la Cruz apparteneva al centro urbano della città. Seduto
nella veranda della sua casa di Triunfo de la Cruz, davanti a un ricco
piatto di pesce e banane fritte cucinato dalla moglie Teresa, Alfredo
ripercorre con me tutta la vicenda: «Mi hanno preso una prima volta nel
1995. Due paramilitari. Mi ha interrogato l'intelligence: mi chiedevano se
sapevo quali interessi ci fossero in gioco con il progetto. Lì ho capito che
stavamo toccando interessi forti», ricorda. Passano un paio d'anni e il 27
aprile del 1997 viene arrestato, nella città di Tela, distante circa 10 km
dalla comunità. «Quattro giorni dopo il mio arresto in un ristorante venne
ucciso Jesus Alverez, un altro dei leader di Triunfo», continua Alfredo. «Il
movimento perdeva due persone importanti in un colpo solo. L'organizzazione
era a terra e tutti i progetti collettivi si fermarono». Dal carcere,
Alfredo riusciva comunque a comunicare con la sua gente grazie alla radio
comunitaria; ben presto il Comitato rinacque guidato da sua moglie, Teresa
Reyes. L'opposizione infine ha fermato Marbella: sono state costruite solo
una decina di ville, più una mezza dozzina di scheletri rimasti incompleti
vicino alla spiaggia. A tre anni dall'arresto, Alfredo ricevé un'offerta
allettante: soldi in cambio dell'accordo a far entrare il progetto nelle
comunità. La rispedì al mittente e venne trasferito nel carcere di Puerto
Cortés, a più di 200 km da Triunfo de la Cruz: «Dopo cinque anni senza un
processo era chiaro che ero un prigioniero politico. Presentammo il caso
alla Commissione Interamericana di Diritti Umani perché lo riesaminasse.
Alla fine sono uscito, dopo quasi sette anni, ma senza che fosse fatta
giustizia». Ho incontrato Alfredo nel novembre del 2005, e il suo era un
sorriso amaro. Ora la sentenza della Corte interamericana arriva a far
giustizia: lo Stato è condannato per aver violato i suoi diritti di
detenuto. Alfredo era costretto a dormire per terra e a dividere la cella
con detenuti condannati in via definitiva; non gli portavano il cibo né
l'acqua; soprattutto, gli era impedito di parlare in garifuna, violando - lo
ha stabilito la Corte - la sua identità e libertà d'espressione.
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