Kissinger: In politica estera le regole sono cambiate



da: http://www.lastampa.it/edicola/sitoweb/Esteri/art4.asp


Kissinger: In politica estera le regole sono cambiate

Waltraud Kaserer
8/5/2003

HENRY Kissinger, lei è d¹accordo con il grande filosofo tedesco Jürgen
Habermas, quando dice che gli Stati Uniti, con il loro attacco preventivo
all¹Iraq, hanno perso l¹autorevolezza per dettare legge al mondo?

«Rispetto profondamente Habermas, ma le sue critiche non tengono conto di un
fatto essenziale: il passaggio dal sistema internazionale creato nel 1648
dal Trattato di Westfalia a un nuovo sistema ancora in gestazione. I
princìpi di Westfalia fondavano l¹ordine mondiale sulla sovranità degli
Stati e definivano l¹aggressione come l¹attraversamento di confini
internazionali da parte di eserciti organizzati. L¹11 settembre ha portato
una nuova sfida, lanciata dalla privatizzazione della politica estera nelle
mani di gruppi non governativi, tacitamente o direttamente appoggiati da
Stati tradizionali. Con la minaccia di devastazione globale portata dalla
proliferazione delle armi di distruzione di massa».

Ma qual è il legame con l¹Iraq?

«Secondo chi aveva la responsabilità delle decisioni, il problema delle armi
si è fuso con quello del terrorismo nella regione dalla quale sono partiti
gli attacchi dell¹11 settembre. Intellettualmente, io concordo. Entrambi i
problemi richiedono in qualche misura una soluzione preventiva, nel senso
che non si può aspettare che l¹aggressione avvenga effettivamente».

Lei intende un attacco preventivo?

«Solo nel senso che la minaccia dev¹essere affrontata prima che diventi
reale. Non sono invece d¹accordo sul fatto che, alla lunga, una nazione
possa definire da sola la natura della minaccia e l¹intensità dell¹attacco
preventivo. Per questo occorre un¹ampia discussione tra l¹America, i suoi
alleati e altri Paesi coinvolti per stabilire quando un attacco preventivo è
giustificato e plausibile. Nel caso dell¹Iraq, si trattava di una situazione
di emergenza che aveva una lunga storia e richiedeva una risposta a breve
termine. Per questo ho appoggiato l¹Amministrazione Bush, mentre non
appoggerei questo principio come regola generale, senza ulteriori sforzi per
dargli un fondamento internazionale».

Lei ritiene che si possa portare la pace con la guerra?

«Dipende da che cosa s¹intende per pace. L¹idea che possa esistere pace
senza tensione è una costruzione filosofica che non è mai esistita nella
storia. Ci sono stati, comunque, periodi di pace prodotti dalle guerre. Ad
esempio, dopo Napoleone per cent¹anni non ci sono state grandi guerre. La
guerra può risolvere tutti i problemi? Certamente no. La guerra dev¹essere
la prima opzione? No. La guerra può risolvere qualunque cosa? Nel bene e nel
male, le guerre portano sempre cambiamenti».

Pensa che avessero ragione gli Stati Uniti a iniziare la guerra all¹Iraq
senza mandato Onu?

«La maggior parte delle crisi della Guerra Fredda sono state gestite senza
mandato Onu. Solo due delle guerre scoppiate dalla fine della II guerra
mondiale hanno avuto un mandato del Consiglio di Sicurezza».
Se l¹Amministrazione americana era così sicura che in Iraq c¹erano armi di
distruzione di massa, perché Colin Powell ha presentato al Consiglio di
Sicurezza informazioni che poi si sono rivelate infondate?
«Quella era certamente l¹onesta opinione di Colin Powell».

Allora l¹errore sta nei servizi segreti...

«Non accetto la sua premessa».

Che cosa succederà se gli ispettori mandati dagli Stati Uniti non troveranno
quelle armi?

«Non credo che accadrà».

Quando andrebbero tolte le sanzioni all¹Iraq? Subito?

«Poiché erano state imposte a Saddam, e Saddam non è più in carica e chi
governerà dopo di lui non ha più i mezzi per costruirle, che senso ha
mantenere ancora la sanzioni?
Uno degli obiettivi principali della sua politica estera, era quello di
avere «Paesi stabili» più che democrazie.
«E¹ una semplificazione grossolana. Ci sono limiti ai cambiamenti che un
Paese può indurre nel mondo. Soprattutto nelle situazioni interne di altri
Stati. Ci sono però situazioni estreme nelle quali è un dovere intervenire,
come in Bosnia o in Ruanda. D¹altro canto non può esserci un vero progresso
senza stabilità. Quanto più l¹ordine viene distrutto, tanta più forza
occorrerà per ristabilirlo. Non vedo stabilità e progresso come elementi
opposti, ma piuttosto come condizioni reciprocamente necessarie. Una cosa è
certa: siamo in un periodo di cambiamenti globali straordinari».

Questo implica un nuovo ordine mondiale?

«C¹è sempre un sistema internazionale che rappresenta una sorta di ordine
mondiale. Il mondo ora sta costruendo un nuovo ordine mondiale a partire dal
crollo del comunismo, dalla disponibilità di armi di distruzione di massa,
dalla privatizzazione della politica estera, dalla globalizzazione
dell¹economia e dal solco tra la globalizzazione economica e politica. Tutti
questi sono problemi enormi. Non era mai successo prima che la politica
estera dovesse essere gestita su base globale. E neppure era mai capitato
che la gente potesse osservare qualunque cosa nel momento in cui accade.
Abbiamo un enorme bisogno di un pensiero a largo raggio, che però è limitato
dalle pressioni della politica interna e dalla natura della comunicazione
moderna».

Che cosa intende per «privatizzazione della politica estera»?

«I gruppi terroristi sono essenzialmente gruppi privati e non governativi.
Vengono finanziati da Stati reali, ma i loro scopi non coincidono con quelli
dei loro finanziatori. Alcuni degli attuali princìpi di politica estera per
loro non valgono. La deterrenza non funziona con gruppi che non hanno nulla
da difendere. Perciò i princìpi del sistema Westfalia non possono funzionare
quando di fronte hai o gruppi privati che fanno una politica estera
rivoluzionaria o una minaccia di grandezza tale che non puoi permetterti di
aspettare che diventi reale. Questo è un problema che il mondo si troverà
davanti con la Corea del Nord e quasi certamente con altri Stati».

In che modo il nuovo ordine mondiale influenza la politica estera degli
Stati Uniti?

«Nei prossimi cinque anni noi, come tutti gli altri Paesi, ne discuteremo
molto. In Europa, soprattutto in Germania e in Francia, c¹è l¹idea che
l¹America abbia una sorta di governo illegittimo, un governo con il quale
non si riesce a comunicare. Questo è sbagliato, occorre dialogare con le
persone che fanno la politica estera americana, cioè con il presidente».

A cominciare da Francia e Germania?

«Dopo quanto è successo, penso che aiuterebbe, se il primo sforzo - almeno
simbolico - lo facessero la Francia e la Germania. Gli Stati Uniti
dovrebbero poi rispondere in modo costruttivo e magnanimo. L¹alleanza verrà
distrutta, se non ci sarà uno sforzo. Il mondo occidentale, che può vantare
grandi conquiste di civiltà, registra però anche un fallimento organico: si
è autodistrutto attraverso le rivalità interne. La domanda è: la civiltà
occidentale riuscirà a trovare una definizione comune del suo mondo, ma
anche delle opportunità e dei pericoli che deve affrontare?».

E la risposta qual è?

«Io spero che, nonostante i casi recenti, riusciremo a tessere un dialogo su
temi come la proliferazione delle armi di distruzione di massa, la
globalizzazione, il terrorismo. Dobbiamo arrivare a posizioni comuni. La mia
generazione credeva nel mondo atlantico, oggi gran parte della politica
europea si definisce come sfida agli Stati Uniti».
E¹ solo un problema di comunicazione, o anche di filosofia?
«In parte è un problema di filosofia. Si è insistito troppo su opinioni a
breve termine. Ora, più si enfatizzano i punti di vista diversi, più sarà
difficile ritrovare la strada per una relazione costruttiva. Entrambe le
parti devono decidere se cinquant¹anni di legami stretti debbano essere
gettati via, concentrandosi sugli errori altrui. Io spero che troveremo una
base per dialogare in modo più conciliante, senza dogmatismi né da una parte
né dall¹altra». Copyright Welt am Sonntag