Fw: [latinoamerica] Cosa sta succedendo all'Avana



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Sent: Monday, April 28, 2003 5:16 PM
Subject: [latinoamerica] LATINOAMERICA





LA SINDROME DELL'ASSEDIO
di Gianni Minà


Un editoriale Wayne Smith, ex responsabile dell'Ufficio di interessi degli
Stati Uniti all'Avana durante la presidenza di Jimmy Carter, che ha scritto
recentemente sul Boston Sentinel per denunciare il maldestro tentativo del
governo di Washington di indicare Cuba come un paese terrorista, mi spinge a
scrivere per raccontare una storia che aiuterà molti a capire cosa sta
effettivamente succedendo in questo momento nell'isola e, forse, spingerà i
più critici ad avere una maggiore onestà intellettuale nel giudicare. Il
saggio uscirà fra qualche giorno nel n. 82 della rivista Latinoamerica.
Wayne Smith, ora docente universitario, non era solo il secondo segretario
dell'ambasciata Usa quando John F. Kennedy decretò, nel '62, l'embargo a
Cuba -mai più annullato- ma, alla fine degli anni '70 era il diplomatico che
condusse, per conto del presidente Jimmy Carter, l'unico tentativo di
pacificazione tra Washington e l'Avana in 40 anni. <<Eravamo vicini allo
storico accordo -mi ha rivelato Wayne in una recente intervista-  ma poi
Reagan, con l'aiuto di George Bush sr., battè alle elezioni Carter e tutto
sfumò. Peccato, avremmo evitato 25 anni di ulteriori tensioni>>.
Wayne Smith non ha mezze misure nel denunciare l'ambigua politica messa in
atto dal nuovo presidente degli Stati Uniti nel tentativo di creare disagio
politico dentro Cuba o, addirittura, giustificare in futuro uno sciagurato
intervento: <<Uno dei pilastri su cui si fonda la politica cubana dell'
amministrazione Bush -spiega l'ex diplomatico-  è l'asserzione che quello
della "Revolucion" è uno Stato terrorista che serba intenzioni ostili nei
nostri confronti. Altrimenti, perché dovremmo non avere relazioni con Cuba,
come li abbiamo con la Cina, il Vietnam ed altri Stati non democratici? Il
problema è che il nostro Governo attuale non riesce a trovare nemmeno un
briciolo di prova credibile, per dimostrare la sua tesi. (.) Bush non ha
nessun interesse a un dialogo con Cuba, che senza discussioni ha sempre
combattuto il terrorismo. Perché questo potrebbe offendere gli esiliati
della Florida, che sostengono la linea dura contro l'Avana, e tutto ciò
potrebbe far perdere voti al fratello del presidente nelle elezioni alla
carica di governatore dello Stato. (.) Ma sostenere che Cuba è uno Stato
terrorista mina la nostra credibilità, laddove ne abbiamo più bisogno, nella
lotta contro i veri terroristi>>.
Quella che voglio raccontare quindi è proprio una storia che spiega questo
clima, una storia di quelle che però faticano a trovare spazio sui giornali
perché, nell'epoca della guerra "continua" o "preventiva", non concede
alcuna giustificazione alla politica dell'attuale governo degli Stati Uniti.
Solo pochi giorni fa, all'inizio di aprile, è stato sospeso il carcere
spietato, quello che si sconta ne "el hueco" (il buco, "la cassa", come lo
chiamano i detenuti latinoamericani) a cinque cubani arrestati negli Stati
Uniti per cospirazione e condannati a pene tombali come quella di Gerardo
Hernandez, un grafico e vignettista, ritenuto il capo del gruppo che
dovrebbe scontare nel carcere di Lompok, in California, una pena pari a due
ergastoli più 15 anni.
Dopo 33 mesi di attesa per il giudizio, 17 dei quali in isolamento e un mese
di "hueco", il ritorno dei cinque cubani ad una cella normale è avvenuto
grazie ad una campagna internazionale alla quale hanno partecipato molti
liberals nordamericani, perfino diversi deputati laburisti inglesi e Nadine
Gordimer, scrittrice sudafricana, premio Nobel per la letteratura, ma nessun
rappresentante di partiti progressisti italiani.
L'"hueco", per spiegare meglio, è un buco di due metri per due dove bisogna
stare senza scarpe, in mutande e maglietta; non si sa quando è giorno o
notte, perché la luce è accesa ventiquattrore su ventiquattro; non si ha
nessun contatto umano, neppure con i carcerieri e bisogna sopportare le
grida continue di chi è recluso in quel braccio, riservato ai prigionieri
molto aggressivi. Non era questo certo il caso di Gerardo Hernandez che, con
i suoi compagni, si era solo rifiutato, nel processo tenutosi a Miami alla
fine del 2001, di "collaborare" con la Corte. Aveva ammesso, come gli altri,
alla vigilia del dibattimento, di essere un agente dell'intelligence cubana,
da anni in Florida per scoprire chi organizzava gli atti terroristici contro
il suo Paese. Ma l'Fbi voleva, in cambio della libertà promessa, che
facessero dichiarazioni contro Cuba, sostenendo che il loro paese era un
pericolo per gli Stati Uniti e che si erano infiltrati per ottenere, in
realtà, informazioni sulla sicurezza nazionale Usa. Tutti autonomamente
avevano deciso a quel punto di non collaborare e la loro fermezza aveva
spiazzato la giuria. <<Perché -spiegarono- dovremmo contribuire a far del
male al nostro Paese dopo che per anni abbiamo lasciato i nostri affetti, la
nostra vita, per cercare di difenderlo?">>
Gerardo Hernandez, Antonio Guerriero, René Gonzales, Fernando Gonzales e
Joaquin Mendez, si erano infiltrati negli anni '90 nelle organizzazioni
paramilitari degli anticastristi di Miami che, dalla Florida, da tempo,
organizzavano attentati contro Cuba per boicottare il turismo, vero motore
della ripresa economica dell'Isola.
La novità clamorosa e inquietante consisteva nel fatto che gli Stati Uniti
(pronti a giustificare qualunque azione in nome della lotta al terrorismo
per la sicurezza interna) nascondessero, nelle pieghe più oscure della loro
società, dei criminali pronti a esportare attentati in paesi come Cuba, per
giunta definiti "stati canaglia" o addirittura conniventi con il terrorismo.
In uno di questi attentati (dopo che le vittime erano state pescatori,
contadini, agenti della guardia costiera, militari di leva) era  morto, il 4
settembre del '97 all'Hotel Copacabana dell'Avana, anche un cittadino
italiano, il giovane imprenditore Fabio Di Celmo, per una carica esplosiva
messa da un tal Cruz, un salvadoregno ingaggiato da Luis Posada Carriles
(vecchio specialista di operazioni sporche) al servizio, come il suo amico
Orlando Bosh, della Fondazione cubano-americana di Miami. Questi due compari
erano stati coinvolti anche nell'abbattimento dell'aereo di linea cubano nel
1976, al largo delle Barbados e nell'attentato al cancelliere cileno
Letellier, a Washington, senza che nessun giudice nordamericano li avesse
mai disturbati. E' facile pensare, a questo punto, cosa sarebbe successo se
questa trama avesse avuto un percorso inverso, cioè se qualcuno, dall'isola,
si fosse messo a organizzare azioni delittuose negli Stati Uniti. Suscita
quindi disagio constatare la precarietà con la quale, da quarant'anni, deve
convivere Cuba, non solo per l'immorale embargo economico, condannato nel
novembre scorso per la decima volta consecutiva dall'Onu (unici voti
contrari, quelli degli Stati Uniti, Israele e delle Isole Marshall), ma
anche per il blocco mediatico che minimizza queste storie e le elude.
Cinicamente infatti si passa sopra al fatto imbarazzante che un piccolo
paese, per anni, abbia dovuto preparare alcuni cittadini a rinunciare alla
propria esistenza, per assicurare la sopravvivenza a tutti e, se nel caso,
vivere un'altra vita, con un altro nome, un'altra casa, altri amici,
tagliando per chissà quanto tempo (a volte per sempre) ogni legame con le
proprie radici, con il proprio passato e i propri affetti.
Una storia di questo tipo, un po' pirandelliana, è quella, per esempio, di
René Gonzales, uno dei cinque cubani condannati, che aveva anche il
passaporto nordamericano essendo nato negli Stati Uniti, figlio di un
operaio metallurgico emigrato a Chicago e di una madre cubana, la cui
famiglia veniva dal Nord Virginia. I nonni ed anche i genitori, forse per
spirito patriottico, decisero di tornare a casa dopo lo sbarco fallito, nel
'61, alla Baia dei Porci da parte degli anticastristi sostenuti dalla mafia,
ma abbandonati, all'ultimo momento, dal governo di John Kennedy. Forse
quella decisione costò anche la vita al presidente della Nuova Frontiera. Ma
questa è un'altra storia.
René, cresciuto nei miti della Rivoluzione, diventa pilota d'aereo e
istruttore di volo, mentre suo fratello Roberto si laurea in Legge. Ma un
giorno, a sorpresa per tutti, René lascia la moglie e la figlioletta,
dirotta un aereo addetto alla fumigazione dei campi e se ne va negli Stati
Uniti dove viene accolto come un eroe perché ha lasciato dietro le spalle il
comunismo di Fidel.
A Miami, come per gli altri quattro compagni arrivati in Florida nei modi
più disparati, comincia una nuova vita. Si infiltrano nelle organizzazioni
terroristiche, in particolare in quella degli "Hermanos al rescate"
("Fratelli per il riscatto") che ufficialmente si dedicavano al recupero dei
"balzeros" (i profughi) ma, in realtà, organizzavano attentati di cui il
loro capo, Josè Basurto, spesso si vantava anche pubblicamente e mettevano
in atto provocazioni come quella di violare continuamente lo spazio aereo
cubano con piccoli velivoli da turismo dai quali lanciavano, a bassa quota,
volantini che incitavano alla sommossa. Proprio sulla pericolosità di queste
azioni, il Governo dell'Avana, messo all'erta dalle informative proprio di
René e del suo gruppo, aveva inviato al Governo degli Stati Uniti ben 23
note diplomatiche, prima che accadesse l'incidente dell'abbattimento di due
di questi veicoli da parte della contraerea cubana. I "Fratelli per il
riscatto" non solo violavano ormai in modo plateale lo spazio aereo, ma
avevano cominciato ad inserirsi anche nelle frequenze radio delle torri di
controllo degli aeroporti di L'Avana e Varadero, mettendo in serio pericolo
le manovre di decollo e atterraggio degli aerei di linea. Al processo,
militari degli Stati Uniti come il col. Eugene Carol e funzionari dell'
amministrazione Clinton come Richard Nunzio, convocati dalla difesa, avevano
testimoniato di aver avvisato Basurto che, come ha affermato uno di loro, "i
cubani avevano perso la pazienza". Dal dialogo con la torre di controllo
dell'aeroporto di Opaloca non risulta invece che Basurto avesse avvisato i
due compagni di avventura, poi abbattuti nell'ultima incursione, della
pericolosità alla quale la situazione era arrivata.
Dopo sei anni di questo delicato lavoro, René, intanto, era riuscito a farsi
raggiungere dalla famiglia. E così, dopo dodici anni, aveva messo al mondo
un'altra figlia. Ma è quella anche l'epoca in cui Fidel Castro e Bill
Clinton, preoccupati, avevano cercato e trovato un dialogo diplomatico per
una comune lotta al terrorismo.
Così il governo dell'Avana, nel giugno del '98, aveva trasmesso alla Fbi i
resoconti avuti dal gruppo che agiva in Florida per disinnescare il
terrorismo. Ma, a sorpresa, qualche mese dopo, quei documenti serviranno per
far arrestare le cinque fonti dell'Intelligence cubana.
Il primo processo, un po' kafkiano, alla fine del 2001, si è svolto a Miami
dove ben 17 avvocati designati dalla Corte hanno rifiutato l'incarico
temendo le ripercussioni che poteva avere sul loro lavoro il fatto di aver
difeso "una spia cubana" proprio nello stato dove la comunità anticastrista
è più numerosa e aggressiva. <<Già per questo antefatto -ha sottolineato
Paul McKenna, l'avvocato d'ufficio di Gerardo Hernandez- il giudizio secondo
le nostre leggi non si sarebbe potuto svolgere a Miami.>>
Nel corso del dibattimento poi, lo stesso pubblico ministero aveva dovuto
riconoscere che i cinque cubani non avevano avuto accesso all'informazione
sulla sicurezza nazionale, tanto che non aveva potuto accusarli di
spionaggio, ma di "cospirazione al fine di commettere spionaggio", cioè li
aveva incolpati di avere intenzione di commettere un reato. Malgrado questo
aborto giuridico, la giuria li ha condannati a pene tombali come mandanti
dell'abbattimento dei due velivoli dei "Fratelli per il riscatto", un'azione
decisa dalla contraerea cubana in risposta alle provocazioni.
Ora, il processo di appello si farà ad Atlanta. Leonard Weinglass,
prestigioso difensore dei diritti civili, che ha assunto la difesa di
Antonio Guerrero, ha dichiarato: <<Il governo degli Stati Uniti li ha
sottoposti a giudizio, perché si stavano avvicinando troppo al mondo dei
suoi terroristi>>. E, riguardo alla condizione carceraria dei cinque cubani,
ha aggiunto che erano le peggiori che avesse mai visto. Più brutte di quelle
del suo vecchio cliente, Mumia Abu Jamal, il giornalista e leader nero di
Chicago che aspetta ancora di conoscere la sua sorte in un braccio della
morte.
Ora, Direttore, ho voluto raccontare questa storia perché, mi sembra,
spieghi con chiarezza il clima della politica decisa da George Bush jr.
verso Cuba e che ha fatto reagire il governo di l'Avana, purtroppo, con la
ben nota sindrome dell'isola assediata. Ma 3 dirottamenti di velivoli in
pochi giorni, il tentativo violento di deviare il corso del ferryboat in
servizio nella baia di l'Avana risoltosi, dopo molte ore di paura, con la
cattura e la condanna a morte degli autori del gesto, sono segnali di una
strategia che ha a che fare non tanto con la dissidenza cubana, ma molto con
i piani che Bush e il suo gabinetto hanno, in un prossimo futuro, anche per
Cuba.
Poiché sono contro la pena di morte, non posso accettare le condanne alla
pena capitale degli autori del sequestro del ferryboat di Regla, ma è anche,
sicuramente, inaccettabile la scelta di una strategia della tensione fatta
da Bush jr. con l'invio all'Avana di un responsabile dell'Ufficio di
interessi, James Cason, che non ha l'etica di un vecchio diplomatico
democratico come Wayne Smith.
Cason è andato a Cuba con l'intento dichiarato (in imbarazzanti conferenze
stampa) di sovvertire e di creare una situazione di scontro nel Paese. E ha
fatto anche di più: ha incominciato a gestire, dal suo ufficio, "un traffico
di dissidenti" comprando coscienze a basso prezzo: un computer, un po' di
dollari in contanti, qualche radio ricetrasmittente che hanno rivelato i
suoi veri obiettivi. Un'operazione inquietante perché ha messo in crisi
anche i dissidenti sinceri, quelli che non hanno avuto bisogno dei dollari
per fare delle scelte. Ma, più che altro, questo aggressivo funzionario dell
'amministrazione Bush, ha la responsabilità di aver scatenato, purtroppo,
una reazione durissima da parte dello stato cubano. A quale obiettivo mira?
La democrazia, si sa, non si afferma comprando le persone.
Per questo mi ha colpito negativamente quella sinistra italiana, che si
autodefinisce riformista e che legittimamente non dà tregua ai comportamenti
della rivoluzione cubana e li stigmatizza quando questa eccede in decisioni
illiberali, ma tace sempre su questi attacchi subiti da Cuba, su questi
attentati al diritto di autodeterminazione dei popoli. Questi riformisti
dimenticano anche quello che sta facendo l'attuale governo degli Stati Uniti
che, in meno di un anno e mezzo (come ha sottolineato Noam Chomsky) si è
negato a firmare più di dieci trattati di tutela dei diritti civili e umani
che hanno trovato d'accordo, invece, la maggior parte dei paesi del pianeta.
Non hanno nemmeno denunciato la preoccupante abolizione, di fatto, dell'
istituto dell'habeas corpus, che ha condannato alla galera, finora negli
Stati Uniti, più di duemila persone senza un'accusa specifica e senza che né
parenti, né avvocati riescano a sapere nulla della loro sorte. Sono stati
giudicati? Come? Quando? Perché? Sono state forse giustiziati, conformemente
alla norma, alla "licenza di uccidere" voluta da Bush jr. subito dopo l'11
settembre?
Per riuscire ad essere credibili nelle nostre richieste di maggior
democrazia a Fidel Castro, non possiamo dimenticare questa crudele realtà e
nemmeno le violazioni sistematiche dei diritti umani in paesi come la
Colombia, il Guatemala, il Perù, la Bolivia, lo stesso Messico e altri paesi
latinoamericani o asiatici (Birmania, Indonesia), dove noi facciamo finta di
credere sia tornata la democrazia solo perché si vota, o sono nazioni
convenienti alle nostre economie.
Gianni Minà