Venezuela,tra violenza e petrolio



CHAVEZ: NON MOLLO

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FRANCESCO ROMANETTI
«In fondo non pensano a Chavez, ma all'industria petrolifera». Parola di
Hugo Chavez, presidente di un Venezuela che rischia di scivolare verso la
guerra civile e dove torna a incombere lo spettro di un golpe. Chavez - dice
Chavez - è un pretesto. La posta in gioco è altra. Il presidente
«bolivariano» ha ieri ribadito che non intende cedere alle pressioni della
piazza (che conta - ha detto - «su connessioni esterne») ed ha decapitato
mezzo vertice della Pdvsa, l'azienda petrolifera di Stato. Ma, a ben vedere,
la posta in gioco va anche al di là del pur strategico petrolio venezuelano
(2,2 milioni di barili al giorno, nel Paese che è il quinto esportatore
mondiale e dove attingono per il 12,5% del loro fabbisogno i potenti vicini
statunitensi). Se sono le strade di Caracas che in questi giorni tornano a
tingersi di sangue, il drammatico braccio di ferro in corso in Venezuela
segna anche il punto alto di un duro e decisivo conflitto che attraversa
tutta l'America Latina. Lo scontro è sul neoliberismo e sul sistema di
potere e di alleanze internazionali che per circa un ventennio ne è stato il
corollario. Da questo punto di vista, è senza dubbio la vittoria elettorale
in Brasile della sinistra «no-global» di Lula da Silva che ha aperto scenari
indediti nel subcontinente latinoamericano, indicando la possibilità di un'
alternativa reale al modello neoliberista.
Fatti i dovuti distinguo, l'affermarsi delle leadership di Chavez in
Venezuela nel 2000, di Lula in Brasile nel novembre scorso e qualche
settimana dopo in Ecuador di Lucio Gutierrez (l'ex colonnello che già due
anni fa aveva guidato un tentativo insurrezionale, appoggiato dalle comunità
indigene, da settori dell'esercito e anche della Chiesa locale) traggono
origine da uno stesso fallimento sociale e politico. Le due successive
«decadas perdidas», decenni perduti, hanno segnato pressocché tutta l'
America Latina, che ha conosciuto aumento della povertà, disoccupazione e
decomposizione delle garanzie sociali.
Ma la critica del neoliberismo non corrisponde al suo superamento. In questo
senso il conflitto in atto in Venezuela va oltre Chavez ed ha a che fare con
la ridefinizione di blocchi e alleanze sociali. Non a caso il golpe che nell
'aprile scorso esautorò Hugo Chavez per sole 48 ore venne attuato quando il
presidente annunciò che stava per attuare due riforme dal contenuto davvero
rivoluzionario: la riforma agraria e la nazionalizzazione di ampi settori
dell'industria petrolifera. Né è un caso che l'unico governo al mondo che
riconobbe la giunta golpista (formata dai vertici della Confindustria e da
settori delle forze armate) furono gli Stati Uniti di George Bush.
In realtà nel magma latinoamericano un ruolo decisivo continuano a svolgerlo
gli Stati Uniti, che avvertono il rischio di perdere influenza nell'area che
continuano a considerare il loro «cortile di casa». Se il primo ospite
straniero cui rese visita Bush dopo la sua elezione alla presidenza fu
Vicente Fox, presidente messicano ultraliberista, ora gli Usa rischiano di
avere a che fare con interlocutori sempre meno disposti ad accettare la
versione statunitense dell'Alca (l'area di libero scambio delle Americhe),
la dollarizzazione dell'economia (attuata in Ecuador dai predecessori di
Gutierrez e ampiamente sperimentata nell'Argentina di Menem) e, in fin dei
conti, un rapporto di tradizionale dipendenza. All'indomani della vittoria
di Lula in Brasile, negli Stati Uniti ci fu persino chi scrisse che stava
sorgendo un nuovo «asse del male» in America Latina, che andrebbe da Lula a
Chavez, per arrivare attraverso Gutierrez al solito Fidel Castro. Un teorema
che negli Usa del dopo 11 settembre potrebbe anche affermarsi.


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Nello

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