Dal venezuela all'Argentina la bancarotta sudamericana



L'Fmi ha fallito, le riforme non sono bastate
non si vedono ricette per la salvezza

di MAURIZIO RICCI http://www.repubblica.it


Non è più solo l'Argentina, prigioniera di una crisi senza sbocco: è
l'America latina che affonda. Le monete del continente colano a picco, a
cominciare dalla più importante, il real brasiliano, nonostante la debolezza
del dollaro. In Uruguay, l'unico modo di frenare la fuga dei depositi è
stato la chiusura delle banche. Perù, Paraguay, Bolivia, Ecuador, Venezuela
vedono ripartire l'inflazione, mentre lo sviluppo perde colpi. In parte, è
l'effetto contagio della crisi argentina, che fa fuggire i capitali esteri
da tutto quello che si trova a sud del Rio Grande. Ma la crisi viene da più
lontano: nel 2000 l'economia del continente era cresciuta del 3,8 per cento,
un ritmo già abbastanza basso per economie in sviluppo. Nel 2001, la
crescita è rallentata sotto l'1 per cento e, quest'anno, andrà probabilmente
peggio. Non è la prima volta che il continente traballa, dalla grande crisi
del debito degli anni '80.

La novità è che nessuno sembra avere la ricetta della salvezza. "Negli anni
'70 - dice Riordan Roett, economista alla Johns Hopkins University di
Washington - c'era una risposta pronta: la democrazia. Negli anni '80, la
risposta era: riforme di mercato. Adesso, abbiamo esaurito le risposte".
Quella del Fondo monetario internazionale non ha funzionato. I suoi
economisti sono stati smentiti per l'ennesima volta: avevano scritto che le
riforme degli anni '90 - bilanci pubblici più austeri, abbattimento delle
barriere doganali e delle politiche stataliste - avrebbero consentito ai
tassi di cambio delle monete di "assorbire parte di qualsiasi choc esterno"
e, dunque, "fornire una piattaforma su cui può essere costruita una ripresa
forte e duratura". Sta avvenendo il contrario e il risultato è che la
tempesta non solo investe le economie, ma sta ridisegnando anche la mappa
politica di un continente storicamente irrequieto.

Il cosiddetto "Washington Consensus" è un insieme di ricette di politica
economica, fondato su tre comandamenti fondamentali: austerità di bilancio,
privatizzazioni, liberalizzazione del movimento di capitali e di merci.
Anche se, poi, Fmi e Tesoro americano lo hanno applicato indiscriminatamente
in tutto il mondo, a cominciare dall'Asia, fu pensato, alla fine degli anni
'80, per l'America latina, con i suoi paesi soffocati da deficit di
bilancio, imprese statali decotte, inflazione rampante. E, a sud del Rio
Grande, ha anche funzionato, nella prima metà degli anni '90, risanando
bilanci, domando l'inflazione, rilanciando lo sviluppo. In parte, era
illusione ottica: i bilanci, come in Argentina, si risanavano grazie agli
introiti irripetibili delle privatizzazioni.

Ma c'erano benefici concreti: in Perù, prima delle privatizzazioni, mettere
un telefono costava 1.500 dollari e si potevano aspettare anche anni. Oggi,
costa 50 dollari e bastano un paio di giorni. Lo stesso è, almeno in parte
avvenuto per l'elettricità, le fogne, l'acqua potabile. Ma la
modernizzazione si è fermata, spesso, ai confini dei quartieri residenziali.
"Se sei un povero contadino - ammette l'ex presidente boliviano, Jorge
Quiroga - e noi hai né acqua, né fogna, il fatto di avere tre distinte
compagnie per le telefonate interurbane e tu non hai il telefono non fa
chiaramente un briciolo di differenza".

Soprattutto, le riforme non hanno modificato la debolezza storica del
continente, rispetto, ad esempio, all'Asia: l'incapacità dei guadagni
provenienti dalle esportazioni e del risparmio (interno, chi può porta i
suoi soldi all'estero) di diminuire la dipendenza dell'economia del
continente dal capitale straniero. Quando la fonte si è inaridita (fra il
1999 e il 2001, gli investimenti esteri sono scesi da 105 miliardi a 80
miliardi di dollari), lo sviluppo si è fermato.

Anche se ci sono differenze fra paese e paese, il 44 per cento dei
latinoamericani è, esattamente come dieci anni fa, sotto la linea di povertà
(2 dollari al giorno): come numero assoluto, sono meno del 1990, ma più del
1987. I disoccupati, nello stesso periodo, sono raddoppiati. Al netto
dell'inflazione, il reddito medio che entra nelle famiglie, fra il 1996 e il
2000, è diminuito. Il risultato è che la politica delle riforme di mercato
non solo sembra esaurita, ma viene apertamente contestata. Non sono più solo
Chavez in Venezuela e Duhalde in Argentina gli unici leader che sembrano
pronti a ripercorrere le ricette populiste di venti anni fa. In Brasile, in
testa ai sondaggi, c'è un vecchio leader no global come Ignacio Lula da
Silva. In Bolivia, l'astro emergente è Evo Morales, capo dei cocaleros, i
coltivatori di coca. In Perù, il centrista Alejando Toledo ha licenziato il
ministro delle Finanze vicino a Wall Street, Pedro Kusczinski. E' il frutto
di una protesta popolare che monta e scende nelle strade: le dimostrazioni
di piazza hanno portato al blocco della privatizzazione di due compagnie
elettriche in Perù, di una compagnia telefonica in Paraguay, di 17 società
elettriche in Ecuador.

Ma a scendere per strada a contestare il modello neoliberale non sono solo i
poveri. L'anno scorso, un sondaggio condotto in 17 paesi ha mostrato che il
63 per cento dei latinoamericani non pensa che le privatizzazioni abbiano
portato benefici. Difficile concludere che si trattasse solo di contadini
poveri. La novità è che la grande disillusione sulle politiche di
modernizzazione coinvolge quelle classi medie che ne dovrebbero essere le
principali beneficiarie e le prime sostenitrici. Sono loro, non i poveri,
che, in Argentina, andavano a fare la spesa nei supermercati e nei centri
commerciali, dove, in un anno, gli incassi sono diminuiti fra il 25 e il 30
per cento.

Sono i pochi, fortunati, salariati dell'economia uscita dal "sommerso" i
destinatari del blocco dei licenziamenti imposto da Chavez in Venezuela.
Sono i professionisti, gli impiegati, i tecnici quelli che stanno ritirando
i depositi dalle pericolanti banche di Montevideo. Fra il 1992 e il 1998,
dicono gli indici degli economisti, gli squilibri di reddito fra ricchi e
poveri, in America latina, sono aumentati: può essere la spia di uno
svuotamento delle classi medie, divise fra i pochi che hanno fatto il salto
fra i ricchi e i molti ridiscesi al confine della povertà. Ad Arequipa, in
Perù, nelle dimostrazioni contro le privatizzazioni, si sono risentiti gli
slogan marxisti degli anni '60. I politici sudamericani hanno fiutato questo
clima di radicalizzazione populista. Da Bogotà a Buenos Aires, indici di
borsa e tassi di cambio mostrano ormai lo stato di salute non solo del
sistema finanziario, ma anche del grande esperimento delle "riforme di
mercato", in atto da dieci anni.


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