Venezuela, casa nostra



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Il Venezuela non è il Cile: la sua ricchezza nazionale è una montagna di
petrolio, e non di rame. Hugo Chavez è molto diverso da Salvador Allende:
così come la figura di un moderno populista di sinistra è diversa da quella
di un socialista (di un martire socialista). Eppure, la memoria corre subito
a quei tragici giorni del settembre 1973, quando il golpe del generale
Pinochet stroncò con ferocia l'esperienza di democrazia cilena, sulla quale
si stavano innestando esperienze significative di democrazia alternativa e
poder popular. Oggi come ieri - questa è la vera analogia - all'America
Latina non è consentito di intraprendere una propria strada di autonomia
dall'impero americano, in termini politici, nazionali, e di modello
economico-sociale: neppure quando e se, come nel caso del Venezuela, si era
manifestato un grande sostegno popolare, uno slancio di massa effettivo, un
percorso di lotta costruito e articolato in tappe concrete. La democrazia
non abita qui: è un lusso non consentito a quei Paesi, a quei popoli.


Ma sbaglieremmo, e di molto, se, nel colpo di stato di Caracas, vedessimo la
semplice ripetizione dello schema autoritario e golpista, così diffuso in
quel continente e nei paesi del Sud del mondo. In realtà, tra il Cile di
ieri e il Venezuela di oggi c'è una differenza molto concreta: questo è il
primo golpe del neoliberismo. Dopo la deposizione di Chavez, il potere non è
stato assunto dal "solito" generale, ma da Pedro Carmona, leader degli
imprenditori e della Confindustria venezuelana, nonché capo indiscusso della
"rivolta". Il capitale, appunto, opera ormai direttamente: si avvale del
sostegno americano, certo, così come della complicità di sindacati complici,
ed ha bisogno dell'intervento finale del potere militare. Ma per governare
in prima persona: e per lanciare al resto del continente, e del mondo, un
messaggio inequivocabile. I "poteri forti" non si toccano. Chi prova a
metterli davvero in discussione ne pagherà tutte le conseguenze. E chi aveva
sperato che l'America Latina fosse finalmente uscita dalla "minorità" non
deve fare altro che ricredersi.


Più che mai, dunque, nonostante si svolga a migliaia di chilometri di
distanza, il Venezuela ci parla di noi, del futuro della civiltà
occidentale, dei nostri destini politici. In un senso preciso, il golpe che
si va consumando (e di cui, mentre scriviamo, non conosciamo gli esiti
definitivi, anche se, purtroppo, sembra proprio che le cose volgano al
peggio) è un'altra tappa di quella guerra infinita che l'amministrazione di
Washington ha annunciato al pianeta dopo l'11 settembre. Giacché la guerra
di cui si sta parlando non è combattuta solo con i B-52, come in Afghanistan
ieri (e in Iraq domani), o con l'aggressione e la mobilitazione
dell'esercito, come in Palestina: è una guerra permanente contro tutto ciò
che si oppone alla globalizzazione e al dominio liberista; è la risposta dei
poteri dominanti ad ogni tentativo di indirizzare il corso delle cose in una
direzione diversa. Questo profondo grumo neo-autoritario è inscritto nei
processi di globalizzazione, specie in una fase, come quella attuale, di
crisi verticale delle sue illusioni e delle sue promesse. Per questo la
sorte del Venezuela ci riguarda, ci interroga, è parte integrante delle
nostre lotte.