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Venezuela, casa nostra
- Subject: Venezuela, casa nostra
- From: "Nello Margiotta" <animarg at tin.it>
- Date: Sat, 13 Apr 2002 17:07:29 +0200
www.liberazione.it Il Venezuela non è il Cile: la sua ricchezza nazionale è una montagna di petrolio, e non di rame. Hugo Chavez è molto diverso da Salvador Allende: così come la figura di un moderno populista di sinistra è diversa da quella di un socialista (di un martire socialista). Eppure, la memoria corre subito a quei tragici giorni del settembre 1973, quando il golpe del generale Pinochet stroncò con ferocia l'esperienza di democrazia cilena, sulla quale si stavano innestando esperienze significative di democrazia alternativa e poder popular. Oggi come ieri - questa è la vera analogia - all'America Latina non è consentito di intraprendere una propria strada di autonomia dall'impero americano, in termini politici, nazionali, e di modello economico-sociale: neppure quando e se, come nel caso del Venezuela, si era manifestato un grande sostegno popolare, uno slancio di massa effettivo, un percorso di lotta costruito e articolato in tappe concrete. La democrazia non abita qui: è un lusso non consentito a quei Paesi, a quei popoli. Ma sbaglieremmo, e di molto, se, nel colpo di stato di Caracas, vedessimo la semplice ripetizione dello schema autoritario e golpista, così diffuso in quel continente e nei paesi del Sud del mondo. In realtà, tra il Cile di ieri e il Venezuela di oggi c'è una differenza molto concreta: questo è il primo golpe del neoliberismo. Dopo la deposizione di Chavez, il potere non è stato assunto dal "solito" generale, ma da Pedro Carmona, leader degli imprenditori e della Confindustria venezuelana, nonché capo indiscusso della "rivolta". Il capitale, appunto, opera ormai direttamente: si avvale del sostegno americano, certo, così come della complicità di sindacati complici, ed ha bisogno dell'intervento finale del potere militare. Ma per governare in prima persona: e per lanciare al resto del continente, e del mondo, un messaggio inequivocabile. I "poteri forti" non si toccano. Chi prova a metterli davvero in discussione ne pagherà tutte le conseguenze. E chi aveva sperato che l'America Latina fosse finalmente uscita dalla "minorità" non deve fare altro che ricredersi. Più che mai, dunque, nonostante si svolga a migliaia di chilometri di distanza, il Venezuela ci parla di noi, del futuro della civiltà occidentale, dei nostri destini politici. In un senso preciso, il golpe che si va consumando (e di cui, mentre scriviamo, non conosciamo gli esiti definitivi, anche se, purtroppo, sembra proprio che le cose volgano al peggio) è un'altra tappa di quella guerra infinita che l'amministrazione di Washington ha annunciato al pianeta dopo l'11 settembre. Giacché la guerra di cui si sta parlando non è combattuta solo con i B-52, come in Afghanistan ieri (e in Iraq domani), o con l'aggressione e la mobilitazione dell'esercito, come in Palestina: è una guerra permanente contro tutto ciò che si oppone alla globalizzazione e al dominio liberista; è la risposta dei poteri dominanti ad ogni tentativo di indirizzare il corso delle cose in una direzione diversa. Questo profondo grumo neo-autoritario è inscritto nei processi di globalizzazione, specie in una fase, come quella attuale, di crisi verticale delle sue illusioni e delle sue promesse. Per questo la sorte del Venezuela ci riguarda, ci interroga, è parte integrante delle nostre lotte.
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