Aids: l'intervento di Chiara Castellani su Missioni Consolata (febbraio 2006)



Una voce dal Congo: l’esperienza di un medico italiano

AMORE CONTRO I MULINI A VENTO

Dati alla mano, frutto della sua ricca esperienza di medico in missione, la dottoressa Chiara Castellani ci racconta la sua lotta quotidiana contro l’Aids nella Repubblica Democratica del Congo. Povertà, scarsezza di risorse e anche qualche retaggio culturale da “purificare” sono alla base di questo racconto molto umano. Una voce in difesa di una generazione che sta scomparendo. Ed un rimedio extra-medico che sempre causa beneficio: l’amore umano.

di Chiara Castellani

A partire dall’inizio degli anni ‘80, quando i primi casi di Aids furono rilevati nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc), la situazione epidemiologica non ha cessato di evolversi, fino a diventare oggi un vero e proprio problema della società. Ciò risulta chiaro, quando si considerano la sua enorme diffusione nel paese e il suo impatto sugli individui, le famiglie e le comunità; per non parlare di quello sul vissuto della sessualità e della maternità/paternità. In particolare, la situazione congolese in merito alla distribuzione e utilizzo di reattivi per il sangue sicuro (per trasfusioni e operazioni) appare anarchica ed inefficiente. Questo, nonostante i paesi dell’Unione Europea stiano intervenendo più specificamente nel settore della prevenzione, compiendo peraltro il grosso errore culturale di focalizzare la prevenzione sul solo uso del preservativo. In assenza di un programma nazionale di trattamento antivirale, si è obbligati a utilizzare la diagnosi sierologica (che, oltretutto, sta risultando sensibile ma poco specifica) unicamente per identificare i sieropositivi fra i donatori di sangue. Mentre la prise en charge del malato si limita al solo trattamento palliativo. Negando di fatto l’accesso alle terapie antiretrovirali e, pertanto, ripetendo lo stesso errore compiuto per quasi un ventennio con i nuovi trattamenti tubercolostatici short cours, che erano “privilegio” delle forme resistenti fino al 1996 ed ancora a pagamento nel 2003. Come per la tubercolosi, negare l’accesso al farmaco efficace, benché non curativo, rischia di avere un effetto boomerang sulla diffusione del virus. Infatti, non solo il trattamento riduce la contagiosità, ma anche e soprattutto - come conferma l’Oms. (Organizzazione mondiale della sanità) per tutti i paesi interessati dalla pandemia - il malato condannato a morte a cui viene svelata la diagnosi, ma negato il trattamento, rischia di assumere un atteggiamento di rivalsa che ne accentuerà il comportamento a rischio (diretto deliberatamente contro la prevenzione e verso la propagazione del contagio). Senza contare che l’essere umano, di tutte le razze e culture, a cui viene negato un futuro che ad altri, più ricchi, è viceversa garantito per legge, cercherà prima di tutto di “eternizzarsi”, mettendo al mondo un figlio che personifichi il futuro negato.

Con le cifre non si scherza
Attualmente, sono rimasti cinque dei quattordici “posti-sentinella” per i rilevamenti di casi Hiv-Aids, istituiti nel 1992 nell’ambito di un progetto Unaids: Kinshasa, Karawa (Provincia Equatore), Mikalay (Kasai occidentale), Kibondo (Kasai orientale) e Sendwe (Katanga). Ma indagini più approfondite in tutto il paese sono auspicate da molto tempo. Statistiche a livello nazionale, realizzate attraverso il sistema di informazione sanitario, stimano meno di 10 mila i nuovi casi di Hiv nel 2004. Ma i responsabili del “Programma di lotta all’Aids” della cooperazione italiana (attualmente sospeso per mancanza di fondi) e della cooperazione tedesca (Gtz) commentano: “Sarebbe un caso unico in cui un’epidemia è entrata da sola nella fase discendente della sua curva, senza alcun intervento né preventivo né curativo”. Infatti, chi analizza l’evidenza delle circostanze vissute nella Rdc negli ultimi 10 anni, stima che i tassi relativi alla prevalenza nel paese, siano molto più elevati rispetto al 5% ufficialmente dichiarato dalle autorità politico-sanitarie. In effetti tale percentuale esprimerebbe una riduzione della prevalenza, rispetto alle ultime statistiche veramente affidabili realizzate dal Prof. Peter Piot, verso la fine degli anni ‘80. Riduzione da considerarsi inspiegabile e non reale, se si considera che nessuna azione preventiva su larga scala è stata lanciata, e che i preservativi (relativamente costosi, difficilmente reperibili e culturalmente poco accettati, soprattutto nelle zone rurali) sono disponibili solo a pagamento ed esclusivamente sul mercato della capitale. Infatti, i molteplici movimenti di truppe e i flussi migratori, sia all’interno del paese che verso e da paesi confinanti, con tassi di prevalenza di Hiv-Aids molto alti, hanno esposto il Congo all’esplosione e all’ampia diffusione del virus, tanto nelle zone urbane, come nelle rurali (rapporto Oms/Unicef, luglio 2001). Ma esistono anche cifre reali ben differenti, basate sulle informazioni raccolte attraverso gli osservatori regionali. Da recenti indagini condotte tra famiglie apparentemente sane e donatrici di sangue in Kalemie (Katanga settentrionale), un terzo dei donatori è risultato positivo all’Hiv. Inoltre, da uno studio di pazienti presso il General Hospital, a Bukavu, è emersa una prevalenza del 32% tra gli uomini adulti, il 54% tra le donne adulte e il 26,5% tra i bambini. Nel Bandundu, dove la presenza di truppe è stata limitata nel tempo e geograficamente, il problema sembra meno eclatante, ma a Tembo, cittadina nota per il traffico dei diamanti ai confini con l’Angola, la prevalenza dei sieropositivi fra i donatori di sangue nel primo semestre del 2005 arrivava al 18%, benché si tratti di zona rurale. In tutto il paese si parla di 173 mila nuovi casi all’anno, con un totale di circa 1,3 milioni di adulti e bambini già affetti da Hiv. Nel caso specifico delle strutture sanitarie della diocesi di Kenge, in assenza di terapie combinate antiretrovirali (disponibili solo a Kinshasa nel quadro di un “progetto pilota”, ma a tariffe talmente elevate da essere comunque accessibili solo a pochi privilegiati), ed anche della profilassi alla Nevirapina per le partorienti (anch’essa disponibile solo nei grandi ospedali di Kinshasa, e sconosciuta negli ospedali dell’interno), gli unici interventi possibili sarebbero l’uso del preservativo e il “test rapido per l’Hiv”. L’utilizzo del primo è pressoché inesistente nonché culturalmente rifiutato perché, nell’immaginario collettivo, viene associato a un vissuto di imposizione politica del controllo delle nascite e, quindi, tacciato di provocare la sterilità. Il secondo è reperibile in modo irregolare, solo a pagamento e in quantità talmente esigue che diviene obbligatorio limitarne l’uso alle sole trasfusioni. Nel caso di positività del donatore, poi, conformemente agli orientamenti dell’Oms, ci si deve limitare a dire che il sangue è risultato essere “incompatibile” e scartarlo. Di fatto gli ospedali della diocesi di Kenge (e in genere le strutture sanitarie dell’interno del paese) non dispongono di una struttura di counselling capace di far fronte alla tempesta psicoemotiva che fa seguito alla diagnosi di sieropositività (che in assenza di trattamento costituisce una vera e propria sentenza di condanna a morte) e di evitare che il malato presenti una reazione paradossale di incremento del comportamento a rischio. A Kimbau, il personale ha cominciato a rifiutare il dono di sangue perché terrorizzato dall’ipotesi di trovarsi di fronte a una positività del test. La gente comune non viene neanche informata sul fatto che il test viene realizzato, per evitare che, in caso di emergenza, rifiuti di donare il sangue. I donatori volontari che hanno accettato coscientemente di sottomettersi al test non sono che due per tutta la zona sanitaria di Kimbau: parlare di “Banca del Sangue” è ancora un’utopia! Anche le attività di educazione sanitaria sembrano essere piuttosto limitate, a causa della mancanza di attrezzatura di base: fanno eccezione i coordinamenti delle scuole cattoliche, protestanti e kimbangwiste, che dal 1998 stanno portando avanti un’azione di educazione sanitaria nelle scuole che, pur ammettendo l’uso del preservativo, preconizza l’astinenza per i giovanissimi e la fedeltà all’interno della coppia per i giovani già sessualmente attivi. Nel 1999, dopo sei mesi di “progetto pilota” nella sola parrocchia di Kimbau, il programma educativo è stato adottato anche nelle scuole cattoliche della diocesi di Kenge. Inoltre, nell’anno scolastico 2003-2004, si sono svolti a Kenge seminari di formazione per gli insegnanti di scuola primaria e secondaria, con distribuzione di materiale destinato alle classi superiori, prodotto con sostegno scientifico e finanziario di Medicine Sans Frontière. Con il sostegno della Ong italiana “Aifo” è prevista la conduzione di seminari diretti alla “formazione dei formatori” (presidi, direttori di scuole primarie e insegnanti selezionati) sui temi vari, quali: Aids e malattie sessualmente trasmissibili, lebbra, tubercolosi, tabagismo, alcolismo, nutrizione ed altri temi prioritari di educazione sanitaria e prevenzione. Purtroppo, nel frattempo, chi è ammalato di Aids, dovrà scegliere fra il negarlo a se stesso e agli altri e il crollare nella disperazione perché, al momento, non gli può essere garantito alcun trattamento. Alcuni, magari, cercheranno disperatamente di generare ancora un figlio prima di morire, senza considerare le possibili, drammatiche, conseguenze.


Vite travolte dall’Aids
La storia di Albert Kikanda è esemplare di questa tragedia che si sta consumando in Congo. Alto, slanciato, prestante, campione di calcio, innamoratissimo di sua moglie Aimedò Mambanzi e legatissimo ai cinque figli, Kikanda presenta i primi sintomi della sua sieropositività appena diplomato infermiere specializzato e nominato “supervisore per casi di lebbra e tubercolosi”. Non fa nemmeno in tempo a installarsi nel suo nuovo ruolo, che comincia a vivere su se stesso il dramma dell’autodiagnosi progressiva. È il mese di giugno del 1999 e Kikanda scopre il bacillo di Koch nei suoi stessi polmoni. “Tu sei sempre a contatto con i malati, per forza sei esposto. Ñon fumi, non bevi, ma forse hai sudato troppo durante l’ultima partita; puoi aver preso freddo”. Poi, gli parlo di un noto campione di calcio italiano degli anni ‘70, che ha sofferto di tubercolosi, ma poi è diventato più forte di prima. Mi sorride amaro, pensa a quella sua fidanzata a Kenge, quando lui aveva ancora 20 anni, prima di conoscere Aimedò. Era bella, ma poi si è ammalata di tubercolosi, è guarita, ma è morta lo stesso, misteriosamente. Anche Kikanda guarisce, grazie alla cura che cerca di avere per se stesso. Dopo qualche mese ricomincia a giocare a calcio; intanto, impara ad operare, mentre continua a seguire i malati di tubercolosi. Sta bene fino al luglio 2001, poi ricomincia la febbre. Un giorno mi chiama in disparte, nel retrobottega della farmacia “ho delle bollicine sul pene”, mi dice. Mi basta un’occhiata per fare la diagnosi, che lui, d’altronde, già conosce fin troppo bene: “È un herpes Zoster”. Glielo nomino chiaro e tondo, col nome scientifico, sapendo cosa significa avere il “fuoco di sant’Antonio” per qualcuno che ha già sofferto di tubercolosi. Non pronunciare il vero nome, mi sembrerebbe di offendere la sua intelligenza. Ho un campione di Aciclovir e glielo dò. Guarisce, ma il gonfiore delle ghiandole linfatiche all’inguine non scompare. Dopo un po’ le scopre sul collo, sotto le ascelle... La febbre ricomincia, associata a dolore addominale e a diarrea intermittente. “Non ti sarai mica beccato il tifo?”, gli chiedo. Sarà, ancora una volta, il trattamento tubercolostatico a ottenere la fine dei sintomi. Quando viene a Kimbau il coordinatore provinciale di “lebbra e tubercolosi”, trovandolo di nuovo malato, mi chiede perché Albert non ha mai subito il test di Dupont (Hiv-check). Gli spiego che qui a Kimbau abbiamo chiamato quest’esame “test Mambanzi” perché la sola persona autorizzata a praticarlo è papà Mambanzi, il decano degli infermieri, ma anche il padre di Aimedò, suocero, quindi, di Kikanda. Non può certo essere lui a porre una diagnosi del genere a suo genero e, forse, subito dopo, anche a sua figlia, e ai figli di sua figlia, specialmente il più piccolo che è spesso malato... Partiamo assieme alla volta di Kinshasa nell’agosto 2001. Compiamo un viaggio rocambolesco, su un camion che cade per tre volte in panne in 500 Km. Lo accompagno all’Istituto Nazionale di Ricerca Biologica (Inrb) per prelevare il test, che ci costa un occhio della testa: fortuna che è venuto Salvatore per darci una mano. Ci danno appuntamento per cinque giorni dopo, ma il giorno stabilito, Kikanda, non si presenta all’appuntamento che ci siamo dati presso l’Inrb. Inutilmente l’aspetterò per più di un’ora: non verrà, ha troppa paura. Benché io sia medico curante, non ho diritto di ritirare quel test a nome suo. Ci metterò un anno per convincerlo che non devo essere io a ritirare il test, ma deve essere lui, in persona. Nell’ottobre 2002, siamo di nuovo assieme all’Inrb, ma quando chiediamo di ricevere la risposta di un esame vecchio di oltre un anno ci mandano letteralmente al diavolo: “Non potevate ritirarla a suo tempo? Adesso dove la troviamo?”. Insisto, dicendo che con quello che avevamo pagato potevano ben conservarci la risposta. Alla fine li mando al diavolo anch’io: possibile che non capiscano la tragedia umana di chi, come Kikanda, percepisce il test positivo come una condanna a morte e, quindi si resiste a ritirarlo? Per convincerlo a rifare il test ci vorranno altri 6 mesi; Kikanda è sempre più magro, sempre più malato. Quando andiamo assieme a ritirare il test, Kikanda stavolta si fa trovare puntuale all’appuntamento, ma trema come una foglia, terrorizzato. Anch’io tremo: è evidente che entrambi non siamo assolutamente pronti a un verdetto mortale, purtroppo molto probabile. Quando l’infermiera viene per darci la risposta, ci guarda in faccia un po’ perplessa ed esitante; rientra in laboratorio, esce di nuovo, entra nell’ufficio del medico, il dottor Kabeya. Alla fine ci dice: “Tornate martedì”. Allora capisco che il test è positivo. Forse lo intuisce anche Kikanda. Ma entrambi preferiamo far finta di non capire e continuare a mentire a noi stessi, reciprocamente, una realtà troppo pesante per essere accettata. Il martedì, anziché la stessa infermiera, è lo stesso dr. Kabeya a riceverci. L’avevo conosciuto all’epoca del mio primo stage all’Ospedale St. Joseph, nel 1991. Padre di 8 figli, si distingueva già allora dagli altri colleghi medici per la sua umanità; sono contenta di scoprire che adesso è lui ad occuparsi dei malati di Aids e, in generale, di tutti coloro il cui test risulta positivo. Ci riceve con un largo sorriso sul volto amico, come per farci coraggio, perché sa che anche il test di Kikanda è positivo. Quando il medico ci comunica il risultato, Kikanda reagisce in un modo “fisiologico”: scoppia in un pianto inconsolabile. Lo lasciamo fare, anche perché ho tanta voglia di piangere anch’io. Kikanda, fra le lacrime, implora che io possa far venire sua moglie da Kimbau, con i bambini. Maman Aimedò è sposata con Kikanda da 12 anni; che speranza c’è che lei e i suoi figli siano sieronegativi? Farla venire a Kinshasa sarà un’occasione per eseguire il test anche su di lei e, se positivo, anche sui figli più piccoli.


Più della paura poté l’amore
Mentre Kikanda procede con altri controlli, tutti carissimi e interamente a nostro carico, io, dopo aver cercato inutilmente fondi per gli antiretrovirali (non posso certo spendere per lui ciò che è destinato al progetto), torno a Kimbau. Nel successivo viaggio alla capitale, vengono con me Aimedò e il bimbo più piccolo, l’unico che ha un rischio eventuale di venir contagiato, perché prende ancora il latte materno. Entrambi sono spesso (troppo spesso!) malati. Ma dopo i fatidici cinque giorni, abbiamo una sorpresa: il test di Aimedò è negativo! Il dr. Kabeya mi chiede di parlarne ad entrambi, perché occorre, d’ora in poi, proteggere Aimedò e il bambino dal rispettivo marito e padre, divenuto, paradossalmente, una minaccia per la loro salute. Quando li riunisco per dirglielo, ho un’altra sorpresa: Kikanda reagisce male alla notizia: “Mia moglie mi abbandonerà”. La profezia è destinata ad avverarsi: appena viene messa al corrente Aimedò prende con sé il bambino e riparte subito per Kimbau. Da allora in poi, rifiuterà di rivedere il marito, che implorerà insistentemente, ma invano, la sua presenza vicino a lui. Grazie al mio aiuto e a quello di alcuni amici italiani, Kikanda inizierà un costosissimo trattamento antivirale, anche se continua a ripetere che molti malati nella sua condizione possono convivere con il partner discordante ed avere relazioni grazie al preservativo. Ma sua moglie si irrigidisce: non vuole proprio più sentirne di tornare dal marito! Non mi ci vuole molto a capire l’origine delle sue paure: nonostante le mie raccomandazioni, Kikanda ha avuto con lei, almeno una volta, una relazione sessuale senza utilizzare il preservativo; ciò, prima che lei realizzasse il test e, in quel modo, potesse sapere la verità sulla sua sieronegatività, mentre lui già sapeva di aver contratto il virus! “Perché l’hai fatto, Kikanda? Non capisci che è proprio questo il motivo del rifiuto di Aimedò di vivere assieme a te?”. Mi risponde singhiozzando e tremando come una foglia. “Lo so, ho sbagliato, perdonami, ma io volevo generare un altro figlio, prima di morire”. Passano altri due anni di separazione. Aimedò è a Kimbau: l’ho assunta in accettazione per sostituire suo marito. Adesso Kikanda sta meglio fisicamente e lavora a Kinshasa, in un centro medico privato. Con quello che guadagna si paga da solo gli anti-retrovirali. Riceve ancora l’aiuto irregolare di amici italiani, che non hanno il coraggio di tagliargli il trattamento, anche se mi chiedono, forse giustamente, se non sto commettendo un privilegio: “Perché a lui sì e a tutti gli altri no? Perché aiuti un singolo e non la collettività?”. Non so più che rispondere, salvo dar loro ragione; ma continuo a inviare in Italia le lettere disperate di Kikanda, in cui lui continua a implorare, non solo di non abbandonarlo, ma di consentirgli il ricongiungimento familiare, giurando che applicherà tutte le dovute precauzioni per proteggere sua moglie. Aimedò continua a rifiutare e io, ovviamente, le dò ragione, anzi la incoraggio a non partire, a proteggere se stessa e il suo futuro: Kikanda cerca un figlio, per possedere un briciolo di eternità, non utilizzerà il preservativo e lei, che in fondo lo ama, teme che non riuscirà a resistergli. Finché, nel mese di settembre 2005 ci arriva una notizia: chi conosce le vie del Signore? Il messaggio radiofonico ci informa che Kikanda ha avuto un incidente stradale e si è fratturato il femore. È sotto trazione al centro medico privato dove prima lavorava, abbandonato a se stesso, incapace di pagare le cure e ormai nei debiti fino al collo. E Aimedò viene da me, i grandi occhi allarmati e pieni di lacrime e di paura: “Se lo raggiungo adesso, cosa rischio?”. Stavolta la tranquillizzo: finché lui sarà immobilizzato sotto trazione, lei non rischia nulla! Allora Aimedò parte per Kinshasa, con i figli, per occuparsi del marito. E capisco finalmente che Aimedò l’ama ancora. L’amore perfetto vince la paura.


Fonte: http://www.missioniconsolataonlus.it/