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Turoldo, Balducci, Bello
Ho avuto molte richieste del testo del mio intervento al convegno
nazionale della Rete Radiè Resch (Rimini, 12-14 aprile). E' qui
sotto.
Un caro saluto
Ettore
----------------
Mi avete chiesto di ricordare qui padre
David Maria Turoldo (padre Davide come noi amici lo chiamavamo) e padre
Ernesto Balducci, nel decimo anniversario della loro morte.
Raccontò una volta padre Balducci che, quand’era piccino, credeva che la
notte, dopo che tutti erano andati a dormire, nelle cucine delle case
venissero i morti a riscaldarsi con le ultime braci dei focolari.
Preparando questo discorso, io ho avuto la sensazione di
capovolgere quella favola. e di essere io, vivo, a chiedere a quei
due morti un po’ del fuoco che di loro conserviamo. Credo che
questa espressione “del fuoco che di loro conserviamo” non sia retorica,
perché di ciascuno di loro possiamo dire, senza enfasi e quasi sottovoce,
come certo desidererebbero, quello che i due discepoli di Emmaus, di cui
parla la liturgia di domani, dissero del Cristo: e cioè che “ci ardeva il
cuore nel petto mentre conversava con noi e ci spiegava le
Scritture”. Dio sa quanto in questi terribili giorni avremmo bisogno di
quel calore.
Voi però non mi avete affidato questo discorso perché io parli di
una nostra orfananza. Per quelli di noi che si professano cristiani non
esiste più, dopo la resurrezione di Gesù di Nazareth, una invalicabile
barriera fra i vivi e i morti. La fedeltà dell’amore reciproco, nato
dalle comuni speranze e dalle lotte comuni, fa tendere insieme gli uni e
gli altri verso il compimento della Creazione. E se alcune parole di chi
se n’è andato possono svanire nel tempo o sbiadire nei significati
contingenti di fronte all’irruzione di realtà impreviste, così non è per
le testimonianze in cui parole e azioni si comprovarono a vicenda. Allora
il ricordo dei morti rimane vivo e questa realtà è colta intimamente
anche da chi si rifiuta di dirsi cristiano: tutti avvertiamo,
infatti, cristiani o no, che nelle nostre vicende vi sono state
esperienze e incontri che hanno avuto (o potrebbero avere avuto)
dimensioni radicali, un mutamento di orizzonti che ha dato (o avrebbe
potuto dare) una nuova qualità alla nostra vita; e questo è avvenuto non
perché abbiamo incontrato guru o taumaturghi ma perché accanto a noi, e
un poco avanti a noi, si muovevano uomini e donne che, talvolta
incespicando e talvolta balbettando, ci mostravano la bellezza di un
cammino verso una società fraterna, solidale e giusta, ostinatamente
creduta possibile e ostinatamente perseguita - e conferivano così un
senso drammatico, ma anche gioioso, alla nostra esistenza costantemente
aggredita dai poveri miti egoistici del successo e del consumo. Cristiani
o no, sentiamo che questi uomini e queste donne, anche se morti,
continuano a vivere almeno nei nostri più vitali ricordi.
Per addentrarmi un poco nella loro storia, nella nostra storia,
così come anch’essi l’hanno costruita, io partirò quest’oggi da un testo
quasi inedito di padre Balducci. Vi entrerò come in una casa che è
anche nostra, e ne uscirò di tanto in tanto per qualche considerazione
che a me sembra pertinente. Un modo certamente ingenuo e meccanico,
ma attento, ve lo assicuro, a ridare voce ai nostri grandi
amici.
Morto padre Davide, due mesi e 19 giorni prima di lui, dunque,
elaborando quello che fu probabilmente, uno dei suoi ultimi dolori,
Balducci scrisse: “Quando penso alla grazia di Dio che ci salva, non
penso più, come mi avveniva con vani sforzi della mente, a una potenza
invisibile e indiscernibile, penso sempre a volti di carne, a presenze
umane che, per quanto mi riguarda, hanno dato trasparenza ed efficacia
all’invisibile regno di Dio. La Grazia ha, insomma, nomi e cognomi. Ne ho
di riservatissimi, ma alcuni posso dirli perché di comune dominio:
Giorgio La Pira, Primo Mazzolari, Lorenzo Milani. Ora ne aggiungo un
altro: David Maria Turoldo”
E’ in questa prospettiva di fede, che può anche essere fede laica
(basta sostituire alla parola Grazia la parola Storia, ma con la S
maiuscola; e in tutti i casi è fede nella preziosità dell’uomo) è in
questa prospettiva che noi aggiungiamo oggi ai nomi che conserviamo come
determinanti nella nostra storia individuale e in quella della Rete Radiè
Resch (che non a caso porta un nome non astratto ma dolorosamente
personale), i nomi di padre Davide e di padre Balducci, ricordando gli
incontri avuti con loro sulle piazze dei nostri sogni e nell’intimo delle
nostre ferite consapevolezze. Noi sappiamo di essere stati amati da loro:
come gruppo di tanti individui che gli furono accanto, nel caso di padre
Davide, come Rete, più specificatamente, nel caso di Balducci: il quale
parlò di noi come di una delle “tante dimore della mia
speranza”, e, cito: “come una prefigurazione di quella
cittadinanza planetaria, senza la quale io cadrei per la vertigine, per
la perdita totale del mio vivere quotidiano e del mio vivere
storico”
Ma ritorno al testo balducciano, che continua così “I volti sono
rivelativi, ha scritto Levinas. Nella “communio sanctorum”, che è il
segreto tessuto di cui si nutrono le grandi amicizie nate dalla comune
fede, padre David Maria Turoldo è stato un
“volto rivelativo”; la nostra solidarietà è stata il tramite umanissimo
con cui Dio ha tenuto viva la mia fedeltà, anzi, oso dirlo, la
nostra fedeltà”.
La solidarietà come forza necessaria e talvolta risolutiva dell’essere
fedeli alla nostra identità e insieme fedeli alle imprevedibili richieste
del futuro, ecco una lezione che Davide ed Ernesto ci hanno impartito ma
che la storia stessa continua a insegnarci: o si è popolo in cammino (e
magari in sciopero generale o in corteo o in girotondo, ma senza essere
massa, e cioé guardandoci l’un l’altro negli occhi e stringendoci le mani
e aprendo le nostre fila a chi è diverso da noi (e, tanto per parlare
chiaro, più povero di noi), o si rimane gli eredi non già dei grandi
movimenti storici ma di un opaco, ottuso funzionariato politico che li
contornò e li inquinò, e che appesta ancora oggi la vita nazionale con la
vergogna di un apparente buonsenso che è in realtà smania di omologazione
da parte dei potenti e desiderio di raccoglierne le briciole; o si è
comunità fraterna, non soltanto proclamata ma vissuta nella realtà
concreta (affetti, aiuto reciproco e gratuito, soldi, scambio di
informazioni etc.), oppure, nonostante i bla-bla-bla
interminabili di certe serate di cosiddetta amicizia, si rimane
rinserrati nella fredda penombra di una solitudine personale o
famigliare, che non riesce più a dare vera gioia perché non riesce più a
vedere se la vita abbia un senso e, se sì, quale.
La necessità di isole di affetto solidale nasce non soltanto dall’intima
esigenza della socialità della persona, che i poteri forti cercano di
ridurre a individuo oppure a pulviscolo, ad atomo di folla, ma anche da
un fatto che non pochi di noi (e certamente Turoldo e Balducci) hanno
provato sulla loro pelle. Chi si pone in dialettica con il sistema nel
quale siamo costretti a vivere - un sistema che spinge al conformismo e
alla sottomissione - non è destinato a una facile esistenza. Su Turoldo
gravò una decisione presa dai gerarchi più evangelicamente mediocri della
Chiesa pacelliana: se ne andasse dove voleva ma non si fermasse mai a
lungo in qualche luogo, non potesse, come fu detto, “quagliare”.
Balducci fu esiliato da Firenze, a Frascati, poi in una parrocchia della
periferia borghese romana, poi a Fiesole come in un ridicolo confino di
polizia, per volere di un ridicolo cardinale di Santa Romana Chiesa
A moltissimi altri, alcuni dei quali stanno in questa sala, non mancarono
dolori, stroncamenti di carriere, eccetera; ed è un’esperienza che
purtroppo con i tempi che stiamo vivendo sembra profilarsi all’orizzonte
di altre vite: “Credere ha scritto una volta padre
Davide è entrare in conflitto”.
Resistere non è facile neppure se, in piena consonanza con
Saverio Borrelli, ne gridiamo tre volte la necessità. La nostra
resistenza ha bisogno non soltanto di forme politiche organizzate ma
anche di isole di solidarietà nelle quali sentirci sostenuti dalla comune
progettualità e anche da quella tenerezza reciproca che deve essere
l’anima di ogni stare insieme. Allora, se si portano i pesi di tutti, ma
anche di tutti si spartiscono gioie e speranze, la comunità diventa forza
di imprevedibile entità, garanzia reciproca, reciproca convalida di
fedeltà agli ideali, a una qualità della vita che nasce dall’incontro
amoroso con l’altro e genera pace e vitalità. Possiamo chiamare tutto
questo “convivialità” per dire spezzare insieme il pane e godere dello
stesso vino, il pane e il vino del lavoro dell’uomo, ma anche quelli
della speranza e persino quelli mutati in strumento, in sacramento di
salvezza. Per molti di noi “Rete” ha sempre significato anche questo. E
abbiamo così scoperto che l’impegno che prendevamo nei confronti dei
poveri non generava soltanto dolorosa consapevolezza ma anche
imprevedibili occasioni di gioia, feste semplici nella loro gratuità e
creatività, ma pur sempre indimenticabili. Vi sono stati momenti in cui
avremmo potuto dire, come padre Davide, figlio di vignaioli:
- Amici, mi sento
- un tino bollente
- di mosto dopo
- felice vendemmia:
- in attesa del travaso.
Torno al testo di Balducci su padre Davide, che così continua:
“Anche lui, come me, come molti della mia età, è entrato nel tirocinio
di monaco e di sacerdote venendo dal mondo degli ultimi, dell’umile gente
che abitava nelle Beatitudini con naturalezza, come si abita in campagna
o in montagna. E’ questa la prima fedeltà di Turoldo: la fedeltà delle
origini”. E Balducci traccia, senza saperlo, quello che è
anche. un autoritratto, a pochi giorni dalla propria morte: “Dietro il
suo piglio apparentemente aggressivo, c’è sempre stato il continente
della tenerezza, quella tenerezza fertile di sogni che è il grande
patrimonio dei poveri. Da quel continente vasto come il mondo dei poveri
(i quattro quinti dell’umanità), egli non si è mai staccato, convinto che
quello è il mondo di Dio. Era questo il suo modo di restare uomo anche
essendo un monaco, un prete, un intellettuale, un poeta.
“ Noi preti scrisse ancora Balducci -
non amiamo dircelo, ma il nostro compito faticoso, appena usciti
dal periodo di formazione, è spesso quello di ritornare uomini,
liberandoci dalla frattura fra la nostra genuinità umana e le forme
impresse in noi dall’impegno ascetico a imitare i modelli. Il miracolo
spirituale di Turoldo è stata la sua umanità originaria, retaggio
dell’umile gente, che gli ha reso impossibile guardare il mondo
dall’altra parte, dalla parte di coloro, si tratti pure di ecclesiastici,
che si sono integrati nella società. Il mondo egli lo ha sempre visto con
gli occhi dei poveri, che sono insieme ecco una verità
importante occhi disperati e festosi”.
L’amore per il mondo dei poveri, il mondo visto con gli occhi dei
poveri fu per Davide e per Ernesto non soltanto fedeltà alle radici ma
profezia. Profezia, spiegarono più volte, non vuol dire conoscere il
futuro ma sapere che il futuro non può rimanere incatenato al presente,
che l’uomo è vivo in proporzione della sua capacità di volere un futuro
diverso, in cui gli “ultimi” vedano riconosciuti i loro diritti e la pace
sia la festa dei poveri che hanno avuto giustizia: “L’uomo
vero disse Balducci a un nostro convegno, aprile 1978
l’uomo vero è quello che rifiuta il presente e aspetta un’altra
società, un mondo diverso”. Nessuna conquista religiosa, nessuna
affermazione sociale della Chiesa fu mai importante per Turoldo e per
Balducci, e neppure sacra, quanto la realizzazione della giustizia, lo
schiodamento dei poveri dalle croci erette dal sistema dell’imperialismo
capitalista. Davide griderà che la sua fedeltà alla povera gente dalla
quale è venuto esige una giustizia senza la quale neppure il paradiso gli
sarebbe bene accetto: Dirà in una sua poesia:
- …
nulla che
non fosse male
mi rimase estraneo.
Ma fierezza mi conforta
fino a credere che mi perdonerà.
La fedeltà mantenuta,
l'istinto, Dio, di te non tradito
l'aver mai tagliato
con le radici, mai rotto
con l'umile gente
o sceso a patti con l'Epulone, mai!
Prima ragione dei miei
amari conflitti
pur con la chiesa:
ragione
che mi rende difficile
accettare perfino
una sorte felice:
che mia madre
e la madre e il padre di Rigoberta
e l'ultimo campesino e il negro di
Soweto
siano
in un paradiso dove
giustizia non sia fatta...
Quanto a Balducci, ci
spalancherà davanti ad ogni omelia il quadro della Terra ferita. Aveva
confidato una volta, in un altro suo testo poco noto, di avere visto nel
noviziato delle Piccole Sorelle, a Assisi, “un grande planisferio che
occupava quasi tutta la parete. Come meglio esprimere l’idea, che è poi
il programma dei figli del padre De Focauld, che la contemplazione va
vissuta lungo le vie del mondo? Da allora anch’io ho tolto dalla parete
della mia stanza da letto le immagini dei santi. Vi campeggia una grande
carta geografica, in modo che quando mi sveglio, ho sotto gli occhi tutti
i continenti. Evito così il pericolo di tenere troppo in su la mia anima
e l’avvezzo a camminare con i piedi per terra”. E Balducci aggiungeva
che andava “superata la stagione del cristianesimo intimista
che ha abituato troppi credenti a ritenersi universali solo perché,
chiudendo devotamente gli occhi, sentono di voler bene a tutti gli
uomini, ricchi e poveri, bianchi e neri, sfruttatori e sfruttati, a
tutti, insomma. Obbligati dalla fede ad affermare l’armonia e la pace,
(…) saltano asceticamente le contraddizioni della storia vissuta e si
rifugiano nel regno dei Cieli, dove Dio sarà tutto in tutto”.
Vivere il vangelo nella storia, significava per Turoldo e per
Balducci accettare di contaminarsi e vedere nella Chiesa un strumento
messianico di servizio ai poveri, dunque una comunità costretta non
solo a rinunziare ad ogni pretesa di potere mondano. ma anche a
rinunziare a ogni pretesa di neutralità silenziosa. Balducci guardava al
suo maestro, Gesù di Nazareth, ricordando che egli “ha manifestato
l’amore dall’interno delle contraddizioni del mondo e lo ha scontato con
la morte proprio perché il suo amore per il mondo era sempre anche un
giudizio sul mondo”. Questo compromettersi nella storia è il filo
rosso mai interrotto nella trama della vita dei nostri grandi amici ed è
quello che ce li ha resi tali. Balducci ha detto una volta che noi, la
Rete, cercavamo di vivere e di diffondere appassionatamente “la
responsabilizzazione delle coscienze, senza di che il mondo non cambia o,
se cambia, cambia in peggio”, aggiungendo che noi avevamo capito che
“il senso di responsabilità non è l’esclusiva dei cristiani, ché anzi,
come ha riconosciuto il Concilio, noi siamo, oggi, testimoni di un nuovo
umanesimo nel quale l’uomo si definisce per il suo senso di
responsabilità dinanzi agli uomini e alla storia intera”.
Lasciatemi dire (spero senza commuovermi troppo) che questo umanesimo
nuovo noi lo abbiamo visto testimoniato tante volte in questa sala ormai
storica per noi, ma che uno dei ricordi più belli è proprio legato a
Balducci. Convegno del 1978., siedono insieme e ci ammaestrano con
fraterna consentaneità e con la serena severità di chi vive con la mente
e con il cuore le tragedie dell’umanità, Balducci e Lelio Basso, il
grande socialista che ci insegnò a farci grido di chi non ha voce. Credo
che molti di noi conservino ancora il ricordo del massiccio figlio di
minatori del Monte Amiata accanto al piccolo, scattante studioso di Rosa
Luxembourg, con il suo volto somigliante a quello di Lenin ma con il suo
appassionato interesse per il cristianesimo, anche se egli si proclamava
agnostico. Credo che molti, nel vedere insieme il sacerdote e il
laico (non so bene come definirlo: certo non posso dire “non credente”,
dirò “non religioso”), ripensarono allora e ripensano oggi - alla
poesia scritta anni prima da Turoldo:
- Fratello ateo, nobilmente pensoso
- alla ricerca di un Dio che io non so darti,
- attraversiamo insieme il deserto.
- Di deserto in deserto andiamo
- oltre la foresta delle fedi
- liberi e nudi verso
- il nudo Essere
- e là
- dove la Parola muore
- abbia fine il nostro cammino.
Ho citato il nome di Lelio Basso, accanto a quelli di Balducci e di
Turoldo, ma c’è un altro nome che non posso non citare. La compromissione
sui drammi della Terra guidò Balducci e Turoldo all’amore filiale per
grandi maestri come papa Giovanni e monsignor Romero, che anche noi
potemmo, come loro, amare soltanto da lontano: Ma un altro santo ci fu
vicino e anch’egli passò per questa sala, per confermarci nella fedeltà
alla causa dei poveri e per chiedere a quelli fra noi che si dicono
cattolici di essere Chiesa dei poveri e per i poveri.
Parlo, come avrete già compreso, di don Tonino Bello. Se la Rete
conserverà il ritmo biennale dei suoi convegni nazionali, l’anno prossimo
il nome di questo vescovo non potrà essere onorato da un’assemblea come
la nostra nel decennale della sua morte: 20 aprile 1993. Allora
permettetemi di unirlo oggi, nel nostro ricordo e nella nostra
riconoscenza, a Turoldo e a Balducci, ai quali egli, vescovo, guardò come
a fratelli maggiori: e di chiedere alla segreteria della Rete che siano
ristampate e diffuse le parole che egli ci rivolse qui nel Convegno
del 1988.
Dei tre profeti italiani della pace che per nostra desolazione sono morti
nel giro di 14 mesi, don Tonino Bello era il più mite ed umile: non aveva
la voce tonante né il torrente di poesia che sgorgavano da Padre Davide;
non aveva la cultura maestosa e acuminata di Balducci; dei tre era il più
prete, nel senso che a differenza degli altri due non aveva frequentato
università né prestigiosi circoli culturali; per la maggior parte della
sua vita aveva fatto il parroco della povera gente. Ma il vescovo Tonino
Bello sapeva parlare con il candore e il vigore di un adolescente, anche
a cinquant’anni compiuti: e trovare immagini feriali, casalinghe, a
tutti comprensibili, per tradurre il vangelo in parole d’oggi. Si
rivolgeva ai generali, contestandone i disegni e la retorica, ma
come a persone bisognose d’amore; levava la voce a difesa di suo fratello
(l’immigrato nordafricano, l’operaio cassintegrato, il vecchio in
fila per la pensione); a difesa di sua sorella: la donna del Sud, ancora
minacciata dal maschilismo. E alla fine questo piccolo grandissimo
vescovo ci donò il suo capolavoro evangelico: già minato dal cancro (lo
stesso che aveva ucciso padre Davide) questo walking dead, questo
condannato a morte, osò levarsi dal suo letto, fra l’orrore dei medici
curanti, imbarcarsi, viaggiare su strade gelide e insanguinate, entrare
in Sarajevo con una colonna di pacifisti per deporre nella città-martire
il sorriso della solidarietà. Esempio meraviglioso e scomodissimo perché
ha aperto dimensioni nuovi alle testimonianze dei pastori di uomini.
Voglio dirlo sottovoce ma con intimo strazio: perché nessuno dei vescovi
che gremirono il suo funerale è capace (almeno i più giovani e in buona
salute) di muoversi per Gerusalemme a portare l’abbraccio di pace a
monsignor Sabbah che piange il suo popolo straziato? Perché addirittura
non una delegazione di vescovi, presieduta magari dal grande cardinale
italiano che si dichiara cittadino di Gerusalemme, che pensa di andarci a
vivere, che a Gerusalemme si è comprato la tomba?
Dice padre Camillo De Piaz che fu intimo amico di padre Davide: “Padre
Davide non avrebbe taciuto”. Sì, è vero, padre Davide non avrebbe
taciuto né avrebbe taciuto Balducci davanti a questo atroce quadro in cui
si contempla per la prima volta, mi pare, in tutta la sua crudeltà la
potenza del capitalismo globalizzato: L’emissario dell’Impero, il
rappresentante di un’ ONU che sembra ormai un coro di voci bianche, il
capo della Russia ammansita (che celebra i propri massacri in Cecenia con
l’aiuto dei consiglieri militari americani) e infine i leaders
dell’Unione europea, dunque, tutti insieme, i rappresentanti dell’intera
opinione pubblica internazionale, intimano a un paese di meno di 5
milioni di abitanti di rientrare nei propri confini, di cessare il
massacro di un altro popolo; e gli statisti del piccolo paese possono
rispondere con arroganza: “Lasciateci lavorare”, quasi stessero
perfezionando un piano politico. Che vergognosa, samguinosa commedia
delle parti, quanti Ponzio Pilato in doppio petto. La realtà è chiara e
terribile: ancora una volta (ma questa volta senza maschera) a decidere è
la Borsa di New York, la lobby filo-israeliana che governa tanta parte
delle multinazionali e circonda e domina un Dobliù Bush, politicamente
microcefalo e perverso sul piano etico.
Eventi profetati da Turoldo e da Balducci. Turoldo vide distendersi sulla
terra che amava ciò che egli definì “il discorso devastatore del
mercadante” e ne soffrì soprattutto per le “anime spente” che
generava; arrivò a paragonare il suo male alla spietata legge del
Mercato, scrisse che il suo cancro era il simbolo de “i paesi
capitalisti che mangiano tutto e non distribuiscono ai paesi
poveri”. Non si concesse mai di distogliere gli occhi dalle speranze
cadute, le contemplò ad occhi aperti. Così Balducci che considerò la
guerra del Golfo - guerra aperta del Nord contro il Sud - e i primi
lividi bagliori dei conflitti balcanici come un tornante della storia che
ci inseriva, più disarmati che mai, in una crisi planetaria. “Ogni
illusione sulle magnifiche sorti progressive si è spenta
scrisse Ernesto due settimane prima della sua morte, avvenuta per
estenuazione delle forze generosamente spese per l’animazione di tanti
gruppi -. Ogni giorno ho notizia di popoli che attorno a me
precipitano nella morte, bambini che, appena nati, senza ancora avere
aperto gli occhi alla vita, si ripiegano nell’inerzia oceanica della
morte (…). L’aggressività intrinseca alla stessa tecnologia (…) ha
assottigliato le risorse energetiche e lo ha fatto con tracotanza
faustiana e dunque con criminale follìa. Sono certo che nella psiche
collettiva questa estrema precarietà del futuro ha generato un collasso
della gioia di vivere e, di riflesso, una spinta all’aggressività
endemica”.
E però, coraggiosi nell’affrontare la realtà, Turoldo e Balducci e
Tonino Bello furono eroici nella testardaggine della speranza. Lasciatemi
sottolineare, qui e ora, questo concetto. Abbiamo ascoltato ieri una
relazione brillante ed esaustiva ma nella quale ogni riferimento alla
speranza sembrava del tutto marginale. Stamattina abbiamo udito
interventi che ci hanno mostrato la tragedia di un popolo che, a tre ore
di aereo da noi, agonizza sotto il maglio di un’enorme macchina militare
che pare inarrestabile mentre decine di migliaia di bambini crescono
senza sapere cosa voglia dire “speranza”.
Io voglio portare qui la mia certezza, convinto che essa sia stata anche
la certezza di Turoldo, di Balducci, di Tonino Bello. E questa certezza è
la seguente: vi sono momenti nella storia in cui la speranza - le regioni
e le ragioni della speranza non sono visibili. Allora dobbiamo
essere capaci di leggerla come in filigrana nel futuro, di cercarla nelle
crepe della realtà, negli interstizi della storia, là dove mai il
cosiddetto buonsenso e il cosiddetto realismo posano lo sguardo: e dunque
anche i noi stessi: in ciascuno di noi e in noi-insieme..
Noi possiamo, e dunque dobbiamo, essere generatori di speranza. Come
generiamo amori, figli, poesie, pane e futuro per le nostre creature o
anche più semplicemente - non ci arrendiamo al conformismo che ci
assale da mille strade, cola come una broda velenosa dall’eloquio di
Berlusconi, dalle televisioni ridotte a megafoni di banalità, ma prima
ancora dalla soave aggressione del consumismo, come ogni giorno,
magari senza parlare, rinnoviamo il nostro atto d’amore con la donna o
l’uomo con cui abbiamo scelto di vivere, così dobbiamo ogni mattina
rinnovare il nostro patto d’amore con la speranza. Credo fortemente che
ogni mattina dobbiamo dire che c’è ancora speranza nel mondo perché in
noi (“in me”, deve dire ciascuno di noi), non può essere distrutta la
convinzione che la storia non può finire nel pianto della Pacha Mama che
vede distruggere le sue creature, che la storia non può finire sino a che
non sarà riscattata, ovunque, la dignità dell’uomo, della donna, del
bambino. Credo fermamente che ogni giorno dobbiamo cercare di fare
emergere dalla nostra pochezza quell’homo absconditus di
cui spesso parlava Balducci: l’uomo che Dio ha preparato dentro di noi e
che potrà un giorno, se noi sapremo aprirgli la strada fra le nostre
debolezze e le nostre paure, vivere in armonia con la Creazione. E’
questo il senso della vita, l’unico che può darci e conservarci una
giovinezza che non ha niente a che fare con le rughe e con i
malanni.
Questo è il lascito, a me pare, di Turoldo, di Balducci e di Tonino
Bello, faticatori della Parola di Dio e della causa dei poveri: soltanto
la caparbietà e la creatività della speranza danno valore alla vita.
Scriveva Balducci in una pagina vergata due settimane prima della sua
morte: “Mi accorgo con gioia di avere a mia disposizione un tempo da
vivere e da riempire di significati”. Che questa gioia ci tocchi
tutti, risieda in noi e nei nostri figli.