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Fw: [amaninews] Street Children
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From: "amaninews" <amaninews@yahoo.it>
To: <amaninews@yahoogroups.com>
Sent: Monday, January 28, 2002 12:32 PM
Subject: [amaninews] Street Children
da "la Repubblica" del 28 gennaio 2002
Sono oltre seicentomila i ragazzini che hanno perso i genitori uccisi
dall'Aids: così si disgrega la famiglia africana
Nairobi, l'inferno degli orfani l'Africa abbandona i suoi figli
Storia di Charles: raccoglie vuoti, sniffa colla, dorme per strada
di PIETRO VERONESE
"A casa non c'era mai nulla da mangiare, così me ne sono andato a
vivere per la strada insieme a tutti gli altri bambini"
Girano in bande di cinque o dieci, vestiti di stracci, si cibano
frugando nei mucchi di rifiuti e chiedono l'elemosina.
Ma non è la fiaba che ci rassicura al caldo delle coperte: è vita
vissuta da un'intera leva di piccoli africani, una cicatrice
esistenziale lasciata dall'Aids che sta decimando la generazione dei
padri, dall'economia che declina inarrestabile, dalla perdita del
lavoro, dalla scomparsa del villaggio, della famiglia, della
comunità. Parla Charles, voce bassa, sguardo sguardo basso, una
balbuzie timida: «A casa mia non c'era da mangiare, così incominciai
ad andarmene per strada. Avevo 11 anni. Andavo al mercato, cercavo
nei secchi: un mango, un cavolo. Me li mangiavo. Mi unii ad altri
bambini, eravamo una decina. Vedevo gli altri sniffare la colla e
presto mi fecero provare. Mi sentii bene: dai un gran respiro e poi
ti senti bene. Vedi il mondo che gira [un altro bambino ha
detto: «Senza colla hai freddo, hai fame, pensi troppo»]. Poi, quando
nella testa l'effetto della colla finisce, vai al mercato a cercare
qualcosa da mangiare. Per comprare la colla vendevo ossa. Ossa che
trovavo nei rifiuti e che servono per fare mangime oppure sapone. La
colla è cara, costa 5 scellini la bottiglietta (8 centesimi di euro).
Vai da uno che te la vende, paghi e lui ti riempie la boccetta». La
strada, la fame, la colla, per letto un foglio di cartone e per
scaldarsi i corpi degli altri bambini. La storia di Charles è simile
a quella di migliaia di altri. Decine di migliaia. Quanti sono in
tutto il Kenya nessuno lo sa. Chi dice sessantamila nella sola
capitale; chi il doppio o addirittura il triplo. Un gruppo di
organizzazioni umanitarie sta tentando un censimento nazionale che
non sarà finito prima di marzo. Per accorgersi che sono tanti basta
girare il centro di Nairobi, fermarsi a un semaforo rosso e vedere la
macchina subito circondata da mani tese. Qualcuno vende cartocci di
noccioline sui marciapiedi. Altri, che non avranno dieci anni,
portano sulle spalle un piccolo di pochi mesi, un fratellino, e
chiedono l'elemosina. A sera, quando gli uffici si svuotano, i
passanti scompaiono, le vie si fanno buie e pericolose e i guardiani
notturni prendono posizione davanti agli ingressi con le loro grosse
mazze di legno, i bambini di strada si accoccolano in un androne, gli
uni addosso agli altri, la pancia vuota, le gambe fredde, i piedi
nudi. E la colla nella testa: il loro modo di comprarsi un sogno.
Nessuno li ha ancora contati tutti, ma molte cose si sanno con
certezza di loro. Per esempio che il loro numero non cessa di
crescere. Spiega Charles Otieno, un giovane uomo che ha dedicato la
sua vita all'educazione dei bambini di strada: «Il fenomeno, che
prima era circoscritto ai grandi centri urbani, è ormai nazionale.
Gli street children sono anche nelle cittadine rurali. Aumentano
perché i fattori che li producono lavorano a pieno ritmo. La società
africana tradizionale si è disintegrata. Dava sicurezza, perché era
la collettività, la comunità, ad assumersi la responsabilità per gli
individui. I bambini non era soltanto figli dei loro genitori; erano
figli del villaggio. Questo non esiste più: ciascuno è costretto a
badare a se stesso. Nessuno può più permettersi di pensare anche agli
altri. Tre quarti degli abitanti di Nairobi vivono nelle baracche, e
le baraccopoli scoppiano, sono ormai troppo piene. Non c'è casa; non
c'è fogne né salute; non c'è lavoro. Non ci sono soldi per il
mangiare, la scuola, i vestiti. Se va bene puoi dare ai tuoi figli un
pasto al giorno. La famiglia non regge a queste condizioni
durissime». Un tempo i padri facevano di tutto per trattenere i figli
a casa; adesso sono loro a spingerli sulla strada, dove hanno più
possibilità di sopravvivere che tra le pareti domestiche. «E poi c'è
l'Aids», continua Charles Otieno. «Lo metto al secondo posto, ma i
suoi effetti sono devastanti. Ci sono oggi in Kenya seicentomila
orfani dell'Aids. Seicentomila. E il loro numero aumenta molto in
fretta. Orfani diversi da quelli di una volta, perché la malattia non
uccide soltanto un genitore. Muore uno, poi l'altro. Poi i parenti.
L'infezione dilaga, le contrade vengono decimate, le comunità
distrutte. E questi bambini non hanno letteralmente più nessuno».
Dieci anni fa, il Kenya ignorava cosa fossero i bambini di strada.
Era un fenomeno sudamericano; l'Africa sapeva provvedere ai suoi
piccoli. Se non c'era un padre o una madre c'era sempre uno zio, un
vicino, un villaggio. A Nairobi c'erano tutt'al più i parking boys,
che aiutavano gli automobilisti a trovare un parcheggio in cambio di
una mancia. E poi, in pochi anni, in un arco di tempo che avrebbe
trovato impreparato anche un governo meno inetto o corrotto di quello
kenyano, hanno dilagato e sono presto diventati legione. Oggi sono
una generazione intera, che cresce senza educazione, senza norme,
senza amore e annuncia un futuro terrificante. Le storie di Charles,
di Samuel, Simon e delle loro migliaia di compagni di sventura si
assomigliano tutte ma poi nelle pieghe della narrazione una frase
colpisce e si scolpisce. Samuel per esempio racconta della morte del
padre, della fuga della madre tornata al villaggio natale in Uganda,
di come uno zio si occupò di lui e di due sue sorelle finché si
sposò, ebbe a sua volta quattro bambini e scacciò di casa i nipoti.
Allora i tre reietti, guidati da Samuel quattordicenne, trovarono
ospitalità da un vicino, un «buon samaritano», che faceva il
guardiano notturno e lasciava perciò vuoto il suo letto di notte. E
per mangiare come facevate? Risposta: «Il mangiare era il solo
problema». Il solo problema! Simon invece, quando il padre perse il
lavoro di autista, si mise a raccogliere bottiglie di bibite vuote.
In una giornata buona ne trovava una ventina, che a 3 scellini l'una
faceva un totale di 60 (poco meno di un euro). Però quando tornava a
casa la sera il padre lo picchiava, perché si vergognava di mandare
quel figlio per strada. Ma la storia non è tutta qui. A dire intera
la verità, Charles, Samuel e Simon non sono più bambini di strada.
Sono dei fortunati. Sono degli ex. Come nelle favole, davvero, la
loro storia ha avuto un lieto fine. Hanno incontrato qualcuno che si
è preso cura di loro. Che dà loro una casa, cibo, vestiti, che gli
paga la scuola. Hanno smesso di sniffare, hanno incominciato a
studiare. Ricambiano con risultati meravigliosi: primi nella loro
classe, primi dell'intera scuola (Samuel e Simon). Vogliono diventare
dottori (Charles e Simon) o uomini politici (Samuel). Non dormono più
al freddo, non si cibano frugando nei mucchi di rifiuti, non vendono
i vuoti delle Fanta e delle CocaCola per comprarsi la colla, non
girano più per la città in bande di cinque o dieci, vestiti di
stracci e con la mano tesa per l'elemosina ai semafori. Ma i
fortunati come loro sono pochi. Molto pochi. Il gran numero è ancora
là fuori, nel freddo, nella fame, nel buio dove è impossibile, anche
aguzzando gli occhi, intravedere un futuro.
Questo è un servizio di informazione sull'attività dell'Associazione Amani
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